Di Cristina Di Silvio*
SREBRENICA (BOSNIA-ERZEGOVINA). Luglio 1995. Tra l’11 e il 16, l’enclave di Srebrenica – formalmente riconosciuta come “zona protetta” dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con la Risoluzione 819 (1993) – fu conquistata dalle forze della Vojska Republike Srpske (VRS), al comando del Generale Ratko Mladić.

In quei giorni, più di 8 mila uomini e ragazzi bosgnacchi furono sistematicamente catturati, separati dalle loro famiglie, giustiziati ed eliminati con un’efficienza che rivela una pianificazione meticolosa e un’intenzione genocidaria, accertata giuridicamente dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY) e dalla Corte Internazionale di Giustizia.
Chi si occupa di strategia militare o diplomazia di sicurezza non può leggere Srebrenica solo come una tragedia umanitaria.
Deve decifrarla anche come fallimento del deterrente multilaterale, rottura della catena di comando e compromissione funzionale del peacekeeping.
L’operazione serbo-bosniaca presentava caratteristiche tipiche di una campagna di pulizia etnica strutturata secondo una dottrina asimmetrica: isolamento della popolazione bersaglio, eliminazione sistematica dei maschi in età combattente, dislocamento forzato di donne, bambini e anziani.
La manovra ebbe inizio il 6 luglio, culminando l’11 con la presa completa dell’enclave, nonostante la presenza di circa 400 Caschi blu olandesi del Battaglione Dutchbat III, formalmente schierati sotto l’egida della missione UNPROFOR.
Come può una zona “protetta” cadere in così poche ore?
La risposta è brutale nella sua semplicità: assenza di volontà politica nel sostenere l’ingaggio militare.
I soldati del Dutchbat erano male equipaggiati, vincolati da regole d’ingaggio rigide e privi di supporto aereo, nonostante la prevista copertura NATO (Operazione Deny Flight).

L’inerzia del Comando ONU e la reticenza dell’Alleanza Atlantica a procedere con un CAS (Close Air Support) tempestivo condannarono la popolazione civile.
Mladić entrò in città con le telecamere al seguito.
Ogni gesto: distribuire caramelle, abbracciare bambini, promettere sicurezza, faceva parte di un efficace impianto di guerra psicologica e disinformazione.
Nel frattempo, a Nord e a Sud, gruppi di uomini tentavano la fuga verso Tuzla in una marcia disperata e letale, bersagliati da mine antiuomo, artiglieria, fuoco incrociato e imboscate coordinate.
Chi venne catturato fu smistato verso centri di esecuzione rapida: Grbavci, Kravica, Pilica, Zvornik; dove avvennero uccisioni seriali secondo una logica di eliminazione industriale: prigionieri legati con filo metallico, trasportati su camion, fucilati e gettati in fosse scavate con mezzi meccanici.
Quando i reparti si stancavano, altri subentravano.
L’intento era l’annientamento, non solo fisico ma anche memoriale.
Le fosse comuni vennero riesumate mesi dopo dagli stessi carnefici, i resti dispersi in centinaia di siti secondari per ostacolare l’identificazione forense.
Questo ha ritardato l’identificazione di molte vittime, processo ancora in corso: oltre 1.000 corpi non sono stati trovati, e ogni 11 luglio si seppelliscono ossa ricomposte, denti, brandelli accanto a tombe già chiuse.
Il diritto umanitario fu violato in ogni punto. Non solo nel momento del crimine, ma nell’architettura della non-interferenza che lo rese possibile. L’articolo 3 comune delle Convenzioni di Ginevra, che protegge civili e prigionieri nei conflitti non internazionali, fu calpestato.
La dottrina della “responsabilità di proteggere” (R2P), emersa solo anni dopo, è nata anche sulle ceneri di Srebrenica.
Ma troppo tardi. Il processo a Ratko Mladić, iniziato nel 2012 e concluso nel 2021 con una condanna all’ergastolo, ha rappresentato un importante precedente.
Ma la giustizia, da sola, non ripara una città svuotata.
Oggi Srebrenica è ancora divisa: abitata in parte da serbo-bosniaci, in parte da pochi bosgnacchi tornati a vivere tra fantasmi e silenzi.
I sopravvissuti vivono tra la Bosnia e l’esilio forzato.
Il tessuto umano è spezzato, e la pace è una tregua amara. La ricostruzione post-genocidio non può essere solo ingegneria civile: deve essere chirurgia dell’anima.
I bambini nati dopo il conflitto crescono tra odio tramandato oralmente, omertà e negazione soprattutto nella Republika Srpska, dove molte scuole non insegnano nulla del genocidio.
La gestione del trauma collettivo, secondo l’OMS, richiede interventi di lungo periodo: psicoterapia di comunità, accesso alla salute mentale, elaborazione della memoria storica.
Ma mancano risorse, volontà politica, un’idea condivisa di futuro. La NATO, l’ONU, l’UE hanno promesso: “Mai più Srebrenica.”
Ma oggi, guardando Gaza, Mariupol, El Fasher, la promessa è già in frantumi.
Srebrenica non è solo un luogo o una data. È un bivio morale per chi lavora nella sicurezza, nella diplomazia, nella strategia militare. Ogni esitazione, ogni ritardo, ogni attesa di consenso internazionale mentre la gente muore, è un passo verso l’abisso.
Ogni dettaglio qui ci interroga. Ogni omissione, ogni ordine non dato, ogni attimo di silenzio è parte di una dottrina del disimpegno.
Non scritta, ma praticata: una cultura dell’indifferenza che si nasconde dietro parole come “neutralità operativa” o “prudenza diplomatica”. E poi ci sono le voci. Nihad, 17 anni: “Mi disse: corri. Io corsi.
Lui rimase.” Il corpo del padre sarà ritrovato otto anni dopo. La testa, 60 metri distante dal busto. Halima, madre di tre figli: “Non lasciateli prendere. Non lo rivedrò più”.
Aveva ragione. Nessuno di loro è tornato.
Alla fine dell’operazione, i numeri parlano chiaro: 8.372 vittime accertate. La violazione del diritto internazionale umanitario è stata totale. L’assenza di una protezione attiva, nonostante il riconoscimento ONU della zona come “sicura”, resta una macchia indelebile sulla credibilità delle forze internazionali.
Chi oggi torna a Srebrenica cammina tra rovine psicologiche.
La riconciliazione è fragile, il trauma endemico.
Le scuole della Republika Srpska spesso non menzionano nemmeno il genocidio. E ogni 11 luglio si seppelliscono resti frammentari: falangi, denti, ossa ricomposte; accanto a tombe già colme.

Non è solo questione di giustizia: è biopolitica della memoria.
Chi lavora in ambito militare, di sicurezza o geopolitica deve chiedersi: che tipo di deterrente funziona contro chi considera la deterrenza una debolezza?
Ogni volta che si rimanda in attesa del “consenso internazionale”, si cede terreno al crimine. Srebrenica non è una parentesi: è una lente che brucia.
Un caso-studio che dovrebbe essere insegnato nei War College, nelle Accademie diplomatiche, nei corsi di pianificazione strategica.
È il punto di rottura dove l’assenza di forza si è tradotta in complicità. Le madri di Srebrenica portano ancora le foto dei figli nelle marce del silenzio.
Alcune non hanno più lacrime.
Solo la giustizia resta come unica forma di respiro. Una di loro, Munira Subašić, lo disse con parole più forti di qualsiasi dottrina, davanti alla Corte dell’Aja: “Non vogliamo vendetta. Ma se la verità non viene detta, la pace sarà solo una menzogna che ci scava dentro.”
E allora Srebrenica diventa una lente che ci obbliga a guardare la guerra per quello che è: non una dinamica da mappe e confini, ma un fallimento delle coscienze.
Un luogo dove il diritto internazionale, se resta solo teoria, diventa complice.
Ora lo sappiamo. Voltarsi dall’altra parte, per calcolo, per stanchezza, per quieto silenzio, significa solo questo: avanzare, un passo dopo l’altro, verso un’altra Srebrenica.
*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)
FOTO DI COPERTINA: IL MEMORIALE DI SEBRENICA (© Mike Norton) DA: https://museeholocauste.ca/en/resources-training/the-bosnian-genocide/
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