Di Vincenzo Santo*
KIEV. La guerra in Ucraina sta per compiere un anno.
Finora, la fotografia della situazione vede una pur lenta progressione russa nel Sud Est del Paese, Zaporizhzhia e Donetsk, mentre le grandi controffensive ucraine sui fianchi del Donbass, Kherson e Luhansk si sono ormai esaurite.
L’Ucraina avrebbe perso Mykolaivka, dopo aver lasciato anche Soledar.
Si registra, inoltre, una forte pressione su Bakhmut che, in queste ore, risulterebbe essere stata circondata dalle Forze russe.
Ormai è un conflitto condotto secondo il tragico canovaccio del logoramento, lungo la linea di contatto che dal basso Dnepr attraversa tutta l’area sudorientale fino al bacino del Donec, un’importante zona carbonifera.
Munizioni e sistemi d’arma vanno gli uni ad esaurirsi e gli altri a logorarsi, mentre Mosca immette, a quanto pare, forze fresche volte a intensificare le operazioni e guadagnare posizioni più vantaggiose prima che l’Occidente riesca a inviare nel Teatro delle operazioni i propri armamenti a favore delle truppe ucraine.
Ma la tanto ventilata offensiva russa probabilmente deve ancora prendere il via. Fonti di intelligence occidentali parlano della fine di questo mese.
ALCUNE CONSIDERAZIONI
Su questo punto occorre aggiungere qualche breve considerazione. Ammesso che Abrams e Leopard 2 arrivino a Kiev (sempre che siano Leopard 2 e non Leopard 1 nella versione A5, come pare sia almeno per ora) è difficile convincersi che possano essere immessi in combattimento in tempi brevi.
Perché per formare equipaggi per carri di questa generazione non basterebbero probabilmente sei o sette mesi.
Inoltre, abbiamo anche sentito la richiesta del Presidente ucraino Zelensky di avere degli F-16.
Un’ulteriore richiesta, rinnovata in ambito europeo in queste ore, che dovrebbe far riflettere, per il semplice fatto che non si forma un pilota su un velivolo di questo genere in poche settimane.
A meno che gli ucraini non siano già stati addestrati su quei mezzi corazzati e su quei velivoli. Il che porta a chiedersi se questa tragedia non sia stata di fatto preparata da tempo.
Un’ipotesi da non scartare, secondo una tesi, da me già riportata su altre pagine 1, che vedrebbe questo come un inevitabile conflitto diciamo “di passaggio”, sulla via di un qualcosa molto più importante per Washington: il confronto con la Cina.
Ovviamente non siamo in grado di conoscere se le condizioni addestrative del personale ucraino siano all’altezza di utilizzare quei mezzi occidentali in pochissimo tempo.
Così come, del resto, sappiamo ben poco di quello che accade sul terreno, contrariamente a quanto vari “cantori e presunti esperti di geopolitica” si avvicendano sugli schermi e sui giornali a raccontare dettagli con tale disinvoltura da far credere che abbiano letto di persona i documenti operativi di entrambe le controparti.
Le informazioni che giungono sono probabilmente inquinate da mezze verità o da vere e proprie falsità, perché non si può non prendere in considerazione la necessità che le varie opinioni pubbliche, mi riferisco a quello occidentale in questa circostanza, come sicuramente accade in senso contrario per i russi, vengano sommerse dai rispettivi governi da narrazioni volte a convincerle della bontà e anche della giustezza delle scelte fatte o che saranno prese. È nell’ordine delle cose di questo mondo.
Una guerra di logoramento è una guerra di nervi. Ed è tendenzialmente molto lunga.
Non è normalmente la prima scelta strategica, ma una necessità che gli eventi impongono.
Già nel VII secolo a.C., Sun Tzu raccomandava che il primo obiettivo in guerra dovesse essere la vittoria e non lunghe campagne.
Quindi un forzato ripiego a cui assoggettarsi. Tuttavia, non può essere esclusa che si sia trattato di una scelta strategica, anche se poco probabile.
Con l’obiettivo di snervare, distruggere per sottomettere, secondo una delle due categorie del politologo Jacques Sémelin.
Tuttavia, vincere una lunga guerra richiede capacità e volumi in termini di mobilitazione nonché un flusso di materiali e di rifornimenti che superino quanto possa fare l’avversario.
Quando tutto ciò che si mette in campo, sottraendolo necessariamente al vivere civile, dimostra all’avversario quale dispendio di risorse comporterebbe il fare altrettanto, solo allora si può sperare nella pace. Un insegnamento di Machiavelli.
Fino a quando il fronte interno regge.
LA SITUAZIONE SUL TERRENO
E quindi c’è il soldato, l’uomo sul terreno. La violenza, propria della natura dell’uomo, caratterizza lo scontro tra due compagini, portando all’estrema conseguenza del divenire “vera” la guerra “reale”, nella distinzione che ne faceva Clausewitz. Guerra vera che tende sempre più a sfuggire ai legacci delle leggi internazionali coinvolgendo l’ambito civile. È inevitabile. Non esiste una guerra pulita, non è mai esistita e non esisterà.
Non ci si illuda in questo. Tantomeno in una guerra di logoramento. Non è solo la lotta di un uomo contro il suo antagonista. Nello scontro tra due parti, il combattimento non è altro che un incidente.
Lo ha scritto Blasco Ibanez 2.
La parte pesante, quella che annienta, ed è ciò che può abbrutire, è tutto ciò che, riprendendo il suo racconto, comporta i sacrifici che precedono il combattimento stesso: le marce interminabili, i rigori della temperatura, e che faccia caldo o freddo non fa differenza, le notti all’aperto, smuovere la terra, aprire trincee, caricare carri, patire la fame e spesso non riuscire a soddisfare i più elementari bisogni fisiologici.
Noi parliamo continuamente di innovazione, di intelligenza artificiale, di guerra moderna, di satelliti, di comunicazioni criptate, insomma di tutto ciò che riguarda un mondo digitale che anche in guerra presumiamo di portarci dietro dalla prosperità e dalla facilità della vita civile, dimenticando che invece quando si va in trincea il mondo ritorna ad essere analogico. Semplicemente, crudamente e crudelmente.
E il soldato deve essere addestrato ad affrontare questa realtà. Ma l’addestramento costa e non basta mai, nel fisico e nella mente.
Ci libereremo della guerra? Chissà. Di certo l’uomo non si è mai rassegnato: da un lato ha sempre tentato di limitare e regolamentare questa violenza, con norme e leggi, e dall’altro persino di esorcizzarla sottolineandone gli effetti benefici per la società e la solidità di una Nazione.
Come la guerra, la ricerca della pace è un lungo processo, un lungo ed estenuante braccio di ferro. Anche la diplomazia vive quindi il suo logoramento. Non ci si improvvisa in questo.
L’analisi geopolitica conduce alla formulazione di una strategia anche nella ricerca di un compromesso. Pur tuttavia, una volta delineata e attuata, non è detto che funzioni. C’è sempre una dose di incertezza e magari un azzardo.
E in questo probabilmente risiede la strategia americana per chiudere, forse, la partita. Aiutare l’Ucraina in termini finanziari e di equipaggiamenti per alzare l’asticella della resistenza alla lotta: perché Kiev non perda ma anche perché Mosca non vinca.
Appare un paradosso. Ma lo è se non lo si confronta con lo scopo strategico di Washington che consiste nel fare in modo che la Russia si debiliti, non tanto da mortificarne l’orgoglio ma quanto basta per “dividerla” da Pechino.
Perché, come detto, il vero confronto è più in là, nel Pacifico. Un percorso che però nasconde insidie. Un azzardo strategico, come detto.
In poche parole, far comprendere a Mosca che il suo controllo sulla Crimea è messo a rischio, consentendo a Kiev di considerare seriamente di potersela riprendere con la forza, non è detto che possa portare a una chiusura “convenzionale” del conflitto.
Almeno sulla carta, questo sarebbe il filo conduttore, una minaccia credibile in questo senso dovrebbe indurre Putin a sedersi a un tavolo di negoziazione. Potrebbe.
LA CRIMEA
La Crimea, infatti, è probabilmente la chiave di tutto. Sempre che Kiev abbia serie intenzioni di considerarla oggetto di contrattazione. Altrimenti, l’affare si complica.
Del resto, i successi ucraini sul campo nell’ultima parte dello scorso anno hanno galvanizzato e forse illuso Zelensky, tanto che in più di un’occasione si è pronunciato nella ferma volontà di riprendersi la penisola.
Pertanto, le eventuali sue assicurazioni a Washington di voler trattare sulla Crimea in cambio di maggiori aiuti militari dovrebbero mettere in allarme la Casa Bianca sulla sua trasparenza. Troppo ingenuo dare per garantito che mantenga quanto promesso.
Sempre che sia davvero il presidente americano a condurre la politica americana in questa crisi. Ma la mano americana è fondamentale.
L’Unione Europea non ha né titolo né tantomeno forza. Tanta energia certamente, lo si vede da quanto parlano, promettono, applaudono, minacciano e viaggiano. Purtroppo, l’energia è cosa ben diversa dalla forza.
A Pechino poi, tutto sommato, va bene che la guerra continui. Quindi, non ci si illuda di fare tanto affidamento in una sua intermediazione, al di là di pronunciamenti di facciata.
E poi, alla luce delle mire cinesi, in questo complicato puzzle, perché a Washington non tornerebbe utile che Mosca riconoscesse un domani il suo apporto nel raggiungere un accordo favorevole a Mosca sulla Crimea?
Torniamo ora a quell’azzardo di cui sopra. Perché mai? Presto detto. Intanto, aiutare “troppo” Kiev potrebbe seriamente abbassare le già fragili speranze di condurre negoziazioni che producano un risultato accettato da entrambi i contendenti.
Quindi, se non la pace, conseguire un qualcosa che almeno in un primo tempo le assomigli, per poi progredire.
Di conseguenza, al contrario, un sostegno “disinvolto”, di quelli sostenuti dallo slogan “Mosca deve perdere” oppure “Kiev deve vincere”, potrebbe condurre a un confronto nucleare.
L’umanità ha esperienza dell’utilizzo di gas tossici dopo la Seconda guerra mondiale, negli anni Ottanta, per esempio, in Iraq.
Probabilmente anche in Siria molto più recentemente. Al contrario, le ultime armi nucleari impiegate in un conflitto sono quelle del 1945 contro il Giappone.
La teoria della deterrenza ha bloccato i vari “Stranamore”, per la paura della risposta. Quindi c’era un freno a colpire per primi dato che negli anni dei blocchi la contrapposizione era anche nucleare.
Qualcuno, come il politologo Kenneth Waltz credeva che persino la proliferazione avrebbe scongiurato il verificarsi di grandi guerre, perché il rischio sarebbe stato eccessivo. E, in effetti, dopo il 1945, i conflitti si sono sviluppi a un livello molto più circoscritto.
Il nucleare, quindi, ci avrebbe salvati da un’ulteriore grande guerra. Ma ora?
Mosca si riserva il diritto di ricorrere all’ordigno nucleare quando “l’esistenza dello stato è messa in pericolo”. E la Crimea è considerata parte dello stato, che noi in occidente o tutto il resto del mondo lo riteniamo un abuso, illegale o persino moralmente deplorevole.
Il problema è che Putin ha il potere di schiacciare il bottone rosso, nessun altro, né tantomeno il diritto internazionale.
Quello che Putin ha in testa adesso, così come quello che aveva in testa prima di scatenare questa tragedia, quindi i suoi reali obiettivi politico-strategici, passati e presenti, noi non li conosciamo.
Possiamo solo supporli, magari un domani qualcuno potrà persino vantarsi di averli azzeccati.
Ma nei fatti del mondo, soprattutto nei conflitti, è arduo prevedere. E guai a farlo prendendo partito quasi fosse una partita di calcio oppure sulla base di considerazioni di ordine etico che tendono a far perdere di vista la significativa differenza tra giustificazione e motivazione di un accadimento.
Con il risultato sgradevole che, purtroppo, oggi risulta difficile discutere pacatamente su quali siano state le cause di questa guerra o sull’eventuale pretesto utilizzato per scatenarla senza essere assimilato a un collaborazionista.
Allo stesso modo, le comode semplificazioni da bar e da talk show conducono troppo spesso alla facile conclusione di affibbiare la colpa a uno solo dei contendenti.
Il che è comunque plausibile. Tuttavia, la storia ha tempi lunghi e prima di distinguere con un taglio netto, e obiettivo, il bene dal male, è necessario avere precisa cognizione di tutti i fattori in gioco. Il “motivo” dei fatti non può essere individuato sulla base dell’emozione del momento.
Questa può generare una visione fatalista, persino mistica, oppure inquinata dalla morale empirica, quella della nostra vita quotidiana, impedendo di cogliere l’inevitabile meccanismo “causa-effetto”. Una guerra, invece, può avere un’infinità di cause.
Come ci ricorda Paolo Pagani 3 nel commentare Tolstoj, “mai credere alle frettolose e semplicistiche spiegazioni di chi declama dogmaticamente torti e ragioni”.
Pertanto, dovesse Putin avvertire la reale possibilità che Kiev stia seriamente minacciando la “sua sovranità” sulla Crimea, potrebbe molto probabilmente ordinare un pur limitato attacco nucleare sulle forze ucraine. Sempre che un attacco nucleare, ancorché condotto con armi tattiche, possa mai essere ritenuto limitato.
Con lo scopo di terrorizzare non solo la componente militare ucraina, non solo gli ucraini stessi ma anche il mondo intero che verrebbe gettato nel vortice del panico per l’imminente Armageddon nucleare.
E’ il “costo psichico” del terrore nucleare valutato qualche decennio fa dallo psichiatra Robert Lifton, secondo il quale Hiroshima e Nagasaki non erano soltanto eventi storici in sé, ma anche di ordine psicologico, in quanto la vita sotto la minaccia dell’annientamento nucleare metterebbe in questione tutti i rapporti umani.
A quel punto, si assisterebbe a una spiralizzazione del nucleare, una distruttiva escalation, oppure il mondo finirebbe ad accettare l’inevitabilità della preminenza russa sugli ucraini, con conseguente completa e pericolosa delegittimazione di ogni esistente regime di controllo armamenti, di non proliferazione e dell’ordine mondiale come lo conosciamo.
Superato il taboo dell’atomica, infatti, la corsa a diventare una potenza nucleare diverrebbe inarrestabile da più parti nel mondo e, peggio, forse anche il suo utilizzo non solleverebbe più tanti problemi di coscienza.
Le bombe sul Giappone in quel tempo le aveva solo l’America e servirono per chiudere presto e con una vittoria quella guerra.
Quella, o quelle eventuali, di Putin lo sarebbero per evitare una sconfitta e, secondo il già menzionato Jacques Sémelin, cambiare il paradigma dal distruggere per sottomettere al distruggere per sradicare, cioè l’annientamento.
Una grossa differenza, in un mondo in cui di armi di questo genere non ce ne sono poche.
Con soli nove Paesi che nell’insieme ne posseggono 10 mila, con la rabbia generale che generebbe un tale nuova situazione nell’occidente “perdente” e con tanti altri che riterrebbero utile risolvere allo stesso modo le proprie anche piccole controversie con i rivali. Conseguenze terribili e ben più pericolose e degenerative del semplice isolamento globale cui si condannerebbe Mosca.
Questo è un azzardo reale.
La Crimea ha un valore ben differente rispetto ai quattro territori del Donbass che Putin in maniera provocatoria ha annesso con decreto.
Putin sa perfettamente che il controllo di quelle zone, seppure occupate o rioccupate dalle sue forze in una prossima probabile controffensiva, sarebbe estremamente turbolento, insicuro e tremendamente dispendioso, laddove non si arrivasse a un’immediata fine del conflitto.
La Crimea è di più. È il simbolo tangibile della rinascita della potenza militare russa, dopo le guerre in Cecenia, quella in Georgia e gli interventi armati in Siria e in Libia.
Senza scordarsi del suo incommensurabile valore geostrategico, quale trampolino da cui proiettare il controllo sul Mar Nero, certo in condominio con la Turchia, non c’è dubbio.
Ankara è parte della NATO e alza la voce. E la sua voce ha un notevole peso nell’Alleanza.
Da Erdogan, inoltre, dipendono tuttora i destini di Finlandia e Svezia nell’organizzazione.
In aggiunta, Ankara appare affascinata dall’idea di farsi prezioso hub energetico grazie non solo al gas azero che la percorre attraverso il TANAP (Trans-Anatolian Natural Gas Pipelin) ma soprattutto grazie a quello russo che le arriva tanto con il Blue Stream quanto con il Turk Stream, gasdotti attraverso i quali potrebbe far rientrare per altra strada il gas russo in Europa. Nei tubi, le molecole del gas non hanno bandiera.
Con buona pace per gli azeri, amici dei turchi, non più tanto sicuri di riuscire a mantenere gli impegni presi con l’Unione Europea, tanto più che un po’ del loro gas lo hanno recentemente acquistato dal Turkmenistan.
Ogni strategia, dicevo, porta con sé il rischio dell’insuccesso. L’Occidente deve stare attento a valutare bene le grida di dolore che provengono costantemente da Zelensky.
Le sirene ucraine, amplificate pretestuosamente da polacchi e baltici, mirano a convincerci che una vittoria su Mosca sarebbe anche legata alla sopravvivenza della nostra democrazia e che, soprattutto, essa consista nel ripristinare la completa sovranità ucraina anche sulla Crimea.
Sarebbe un errore dargli ascolto e fornirgli sostegno in armamenti in grado di minacciare seriamente quella penisola o, per lo meno, di convincere Putin che la minaccia è imminente, così come io credo sia stata la minaccia di un’offensiva ucraina in grande scala contro le due Repubbliche “ribelli” a provocare la reazione russa nel febbraio dello scorso anno.
Assecondare Zelensky su questa linea, che lui sa sapientemente dissimulare, ci porterebbe molto probabilmente a un disastro.
Secondo quello che Robert Jerwis ci ha voluto dire, prendendo a prestito dall’economia comportamentale la teoria del prospetto e adattandola al fenomeno guerra, la naturale avversione alla sconfitta e alla perdita del potere potrebbe comportare da parte di Putin scelte estreme.
Per di più, mentre possiamo ritenere molto alta la probabilità di una reazione drammatica da parte sua, noi non abbiamo alcuna idea di come noi stessi occidentali reagiremmo a un attacco nucleare russo in Ucraina. nessuno ha finora parlato chiaramente di “linee rosse”, come fece stoltamente Obama per la Siria salvo poi doverselo rimangiare.
Tuttavia, le esperienze del recente passato, dalla ricerca della pistola fumante di Saddam alla gestione delle Primavere arabe con la rimozione di Gheddafi, non mi lascia avere tanta fiducia nell’equilibrio delle menti occidentali.
La Crimea non può che rimanere russa. Anche se si tratta di una soluzione che non va giù.
D’altro canto, a fronte di una nuova carta costituzionale ucraina che garantisca una sorta di reale autonomia alle attuali repubbliche ribelli del Donbass, l’ingresso in Unione Europea rappresenterebbe un percorso obbligato per Kiev, ma non nella NATO, unitamente a un accordo di libero scambio tra la stessa Unione Europea e Mosca.
Una piattaforma di contrattazione di questo genere potrebbe rappresentare un buon punto di partenza.
Certo, molto altro potrebbe accadere domattina che solo nella serata precedente credevamo improbabile o persino impossibile: una caduta del regime ucraino o che Putin cada dal quarto piano di un albergo, fatto questo non insolito per taluni russi.
Allo stesso modo, non possiamo ancora dire che siamo in una crisi nucleare, né che ci arriveremo. Ma potremmo comunque non esserne lontani. Non per questo ci si deve dimostrare arrendevoli, ma solamente saggi e nella saggezza c’è sempre una buona dose di pragmatismo, forgiato da esperienza e cultura.
Non è appeasement. Certo, è sempre necessario andare contro l’avversario e spaventarlo per costringerlo a cambiare approccio lui per primo.
Ma c’è un limite. Chruščëv ricordava ai suoi collaboratori e colleghi “riempite il bicchiere nucleare fino all’orlo, ma state attenti a non versare l’ultima goccia”.
Ecco, speriamo che gli occidentali al governo sappiano come non far cadere quella dannata goccia.
NOTE
1 Ucraina-Russia, Guerra, Diritto e Interessi Nazionali – Edizioni Artestampa, 2022
2 I quattro cavalieri dell’Apocalisse – Biblioteca Economica Newton, 1995
3 Citofonare Hegel – Rizzoli, 2022
*Generale di Corpo d’Armata Esercito (ris)
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