Rwanda e Uganda: dalla guerra civile tra Hutu e Tutsi alla riapertura dei confini. Una breve storia di difficili relazioni

Di Valeria Fraquelli

Kigali. La riapertura dei confini tra Rwanda e Uganda ha creato, nelle scorse settimane, lunghe file per il controllo dei documenti.

Si è segnalato anche qualche episodio di tensione.

Un’immagine del genocidio in Ruanda

Ma, in generale, la decisione ricollegare i due Paesi ha creato euforia e contentezza da parte di tutti.

Commercianti e camionisti, albergatori e affittacamere restano fiduciosi e sperano che, questa volta, sia il momento giusto per la ripresa, la ripartenza economica dopo un lungo periodo di guerra civile e dopo il COVID che ha costretto tutti a vivere ristretti nelle proprie abitazioni.

Ma la questione tra Rwanda e Uganda va oltre i confini contesi e la lunga crisi economica che si è acuita a causa del COVID.

LA LUNGA QUESTIONE ETNICA

C’è, infatti, una questione etnica che si perde nella notte dei tempi. L’antica rivalità tra Hutu e Tutsi, da sempre, ha condizionato tutta la lunga storia dei due Paesi.

La convivenza tra le due etnie è sempre stata difficile. Ci sono vecchi rancori e dissidi mai, totalmente, dimenticati che covavano nell’ombra e risalgono al periodo coloniale belga.

Infatti, fu proprio il colonialismo che incendiò le rivalità e, alla fine, portò ad un vero e proprio massacro.

Il genocidio fu pesante e furono in moltissimi a perdere la vita o a restare  gravemente feriti.

Fu una carneficina senza precedenti, forse la più grave di tutta a storia africana. Mai l’orrore e il disprezzo per la vita umana avevano toccato punti così bassi.

Non c’era rispetto per nessuno, uomini, donne e bambini erano considerati carne da macello e niente di più.

L’INIZIO DEL GENOCIDIO 

Il 6 aprile 1994, quando tutto iniziò, la giornata cominciò male e finì anche peggio.

Dal quel momento cominciò a scorrere il sangue di migliaia di persone che avevano l’unica colpa di essere nati per un’etnia diversa.

L’aereo che trasportava il Presidente del Ruanda, Juvénal Habyarimana quello del Burundi, Cyprien Ntaryamira, entrambi di etnia Hutu, fu colpito da due razzi quando era in fase di atterraggio a Kigali.

Un bambino terrorizzato dalla violenza

In Ruanda, l’odio inter-etnico covava da decenni. Ancora prima dell’indipendenza dal Belgio, avvenuta nel 1962, la storia del Paese era caratterizzata dagli scontri sanguinosi tra Hutu e Tutsi.

E la morte del Presidente Juvénal Habyarimana fu la scintilla che fece scattare la vendetta degli Hutu più fanatici.

Presidente Juvénal Habyarimana

Da Radio Télévision Libre des Mille Collines, nota per fare propaganda razzista contro i Tutsi, venne dato il via al massacro.

Questi sono solo alcuni dei messaggi d’odio che vennero diffusi dalla radio: “Sono stati quegli scarafaggi (come venivano chiamati in modo sprezzante i Tutsi). È arrivato il momento di schiacciarli!”.

Il Generale canadese, Roméo Dallaire, a capo della missione delle Nazioni Unite in Ruanda (UNAMIR) chiese invano di raddoppiare i circa 2.700 Caschi blu nel Paese per impedire la tragedia.

Ma le Nazioni Unite come risposta decisero invece di ritirare quasi tutto il loro contingente, lasciando solo 300 uomini.

Il Generale canadese Roméo Dallaire

Gli Stati Uniti, appena ritiratisi dalla fallimentare operazione in Somalia, non ebbero la minima intenzione di intervenire in un altro Paese africano.

Il Belgio, l’ex potenza coloniale, si limitò ad evacuare i propri cittadini.

Ancora più controverso fu il ruolo della Francia che venne accusata non solo di non aver fermato il genocidio, ma di averlo in qualche modo alimentato con l’invio di armi alle milizie Hutu, nonostante il bagno di sangue in corso.

Quei 100 giorni drammatici, dal 7 aprile alla metà di luglio, furono costellati i vittime e dolore, sfollati e persone che cercavano di mettersi al riparo come meglio potevano.

All’improvviso quelli che erano vicini di casa, conoscenti e amici diventarono nemici e cominciò una lunga guerra civile che non risparmiò nessuno.

Uomini, donne e bambini vennero schiacciati come in una morsa tra paura, terrore e il panico di trovare un possibile nemico dappertutto.

Alla fine furono 800 mila le vittime. Ma forse non tutte sono state conteggiate e molte persone furono dichiarate disperse e nessuno potrà mai capire il dolore delle loro famiglie che non poterono neanche avere un luogo dove piangere le persone care.

La carneficina non risparmiò nessuno e portò la violenza al suo apice e iniziò la disgregazione di mole famiglie che fino a poco tempo prima avevano condotto una vita normale.

Uomini e donne si separarono per cercare di sopravvivere e molte donne vennero violentate e costrette a subire ogni genere di abuso.

Si sentirono racconti terribili di persone mutilate, sodomizzate e usate come pezzi di carne per il solo divertimento degli aguzzini.

Profughi dietro al filo spinato

Furono 400 mila i bambini che rimasero orfani, senza più il conforto di una mamma e un papà.

Furono bambini che si ritrovarono senza nessun punto di riferimento, senza nessun esempio da seguire, senza nessuno che potesse occuparsi di loro con gioia e amore.

Fu una guerra tribale quella tra Hutu e Tutsi, una guerra sanguinaria, che non fece sconti a nessuno, una guerra lasciò dietro di sé solo dolore e distruzione.

Due etnie che si sono odiate, che non si sono mai capite a fondo perché non c’è mai stata una reale volontà di capire le esigenze e di venire a patti con l’altro, il diverso.

Le ferite non si sono mai rimarginate, rimangono tutte lì e sono pronte a riaprirsi se non stiamo attenti, se non facciamo qualcosa per permettere alle due etnie di dialogare e capirsi, di voltare pagina e ricominciare con idee nuove.

Ma chi è il vero responsabile del genocidio? In molti hanno indicato il Belgio fra i responsabili.

Il Paese europeo inizialmente, sposando anche teorie esclusivamente basate sull’antropologia razzista, si affidò ai Tutsi che rappresentavano l’aristocrazia della società e che vennero considerati superiori fisicamente, ed escluse dal potere gli Hutu.

Alla fine degli anni ’50 del sccolo scorso, quando i Tutsi iniziarono ad avere aspirazioni di indipendenza, il colonizzatore decise che era meglio consegnare il comando agli Hutu.

Migliaia di Tutsi vennero condannati all’esilio e furono costretti a lasciare il Paese.

Iniziò una persecuzione lunga decenni.

Alla fine rimasero solo profughi e sfollati senza niente, come in tutte le guerre, e come il conflitto si rivelò in tutta la sua distruzione e atrocità.

Tutte quelle persone private dei loro loro diritti e costrette a vedere in faccia la crudeltà e la cattiveria che riempiono l’animo umano, persone che si chiesero come mai una simile tortura stesse accadendo proprio a loro.

Vicini di casa, amici, conoscenti, persone che fino a poco tempo prima riuscivano ad andare d’accordo, si erano trasformati in sicari senza scrupoli e non c’era più modo di fare tornare la tolleranza tra le etnie, tra Hutu e Tutsi si era scavato un fossato profondo che sembrava impossibile colmare.

Anche dopo quel terribile genocidio i rapporti tra Hutu e Tutsi si sono mostrati molto tesi.

Per anni il confine che li divide è stato come un muro invisibile, impossibile da superare.

Anche il commercio all’inizio non è riuscito ad essere un volano sufficiente per portare a dei rapporti non proprio normali ma perlomeno civili.

E poi il Covid ci ha di nuovo costretti a chiudere tutto per mesi.

Ma quello del confine che separa le due etnie, anche se adesso si sta molto lentamente tornando alla normalità, continua a rimanere un grosso problema irrisolto.

Entrambi i contendenti si accusano di approfittare della relativa permeabilità della frontiera per compiere le più svariate attività, naturalmente tutte illegali.

Il Distretto di Rukiga, in Uganda ma direttamente addossato sul territorio ruandese, è uno scenario di contrabbando, guerriglie e sconfinamenti.

Lo scorso maggio sono stati arrestati due cittadini del Ruanda, accusati di spionaggio dalla Polizia ugandese ma forse vittime di una ritorsione a causa dell’uccisione, due giorni, prima di due persone da parte dei poliziotti ruandesi, in territorio ugandese.

Un destino simile è capitato, poche settiman,e fa a 40 cittadini ruandesi, coinvolti in una retata in una chiesa nei pressi di Kampala.

Secondo il Presidente del Ruanda, Paul Kagame, 100 connazionali si trovano oggi nelle carceri dell’Uganda, un’affermazione categoricamente smentita da Museveni.

Il Presidente ruandese Paul Kagame

Ci sarà una vera pace tra hutu e tutsi? Non si sa e intanto le ferite del passato rimangono aperte.

 

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