Di Vincenzo Santo*
Roma. Già dai tempi di Modena, Allievo Ufficiale dell’Accademia Militare, mi chiedevo come mai dalla Canzone del Piave, laddove viene cantato “… l’Esercito marciava per raggiunger la frontiera, per far contro il nemico una barriera …”, trattandosi del 24 maggio, come precisato un paio di strofe precedenti, risulti che dovesse essere l’Esercito a creare una barriera, quando a rigor di logica eravamo noi che stavamo attaccando gli austriaci.
Quindi, avrebbero dovuto essere gli austriaci a creare una propria “barriera”.
In verità, per quanto poi scoprì a quei tempi, l’inno fu composto anni dopo, per celebrare la “Battaglia del Solstizio”, quando sul Piave gli italiani dovettero fare veramente “barriera” per fermare la disperata offensiva austriaca del giugno del 1918.
Un po’ di confusione nella cronologia degli eventi non derubrica comunque il valore patriottico di quella canzone che lo stesso Diaz, in una lettera indirizzata al suo autore, definì essere migliore di qualsiasi generale per sollevare il morale di un esercito messo a dura prova dopo Caporetto.
Come noto, l’Italia aveva rimandato il suo ingresso in guerra per via della speranza di ottenere quello che cercava, i territori irredenti, senza combattere e, soprattutto, per la consapevolezza dell’intrinseca debolezza industriale e militare.
Va da sé che tutti, non solo gli italiani, consideravano che sarebbe stata una guerra breve, sulla base delle esperienze belliche europee del secolo precedente, quando i conflitti venivano chiusi a seguito di scontri brevi e decisivi. E, per quanto riguarda le nostre Guerre di Indipendenza, tutto sommato, con poche perdite.
Ma gli europei erano distratti, non avevano voluto guardare, colpevolmente, tanto le esperienze della trincea nella guerra russo giapponese quanto quelle della guerra di secessione americana, che per la prima volta aveva messo di fronte gli interi apparati economico industriali e sociali dei due contendenti.
Un qualcosa che si sarebbe ripetuto, tragicamente, in Europa.
L’Italia, fino ad allora legata agli imperi centrali, mirava a qualcosa di più, che solo stando al fianco dell’Inghilterra e della Francia le sarebbe stato concesso.
Prese tempo, dichiarando la sua neutralità e di non poter intervenire al fianco di Vienna e Berlino in quanto quella guerra, nell’essere stata dichiarata proprio da loro, aveva violato in qualche modo lo spirito difensivistico del trattato.
Vienna non avrebbe mai ceduto ai desideri italiani, né lo fece più tardi su sollecitazione tedesca.
Cadorna fu colto di sorpresa da questa decisione del governo, di cui venne a conoscenza di fatto a guerra iniziata.
Tant’è che confidando ancora nel trattato della Triplice aveva già disposto l’esecuzione di lavori di preparazione difensivi e lo spiegamento di truppe al confine con la Francia.
Non solo, venne anche informato che l’Italia si sarebbe invece dovuta preparare per una guerra contro l’Austria.
Stessa sorpresa lo colse il 5 maggio dell’anno dopo, quando gli dissero che l’Italia si era impegnata in aprile con l’Intesa per entrare in guerra entro il 26 di quello stesso mese.
L’Italia entrò in guerra dopo 10 mesi, solo il 24 maggio 1915.
E lo fece nella più completa impreparazione. Tanto per cominciare, senza aver completato la mobilitazione, la cui rapidità era comunque fortemente limitata per l’inadeguata rete ferroviaria, i cui costi risentivano della particolare morfologia e orografia della penisola.
Impreparazione che, di fatto, sull’onda dell’approccio mazziniano e garibaldino, che privilegia lo scopo etico alla consistenza delle possibilità, cioè il fine giustifica l’impresa, aveva già accompagnato l’impresa libica pochi anni prima, considerata erroneamente una “passeggiata militare”.
Ma che portò alla luce dei limiti, che pur si era cercato di nascondere abilmente con una grande stagione propagandistica verso le masse, accompagnata dagli spunti di alcuni intellettuali, come il Pascoli e il D’Annunzio.
E, perché no, sulla base anche del “Manifesto del Futurismo”, di qualche anno prima, in cui veniva esaltata dal Marinetti non solo la nuova era industriale ma con essa anche la guerra, forza stimolatrice e madre di tutte le cose e di tutte le imprese.
Compreso l’anelito imperialista che portasse la giovane nazione al pari delle altre potenze europee già impegnate ad ampliare i rispettivi imperi anche in Africa, grazie a un rinato nazionalismo che fomentasse lo spirito patriottico, all’insegna della creatività del neo-idealismo. E la creatività è troppo spesso improvvisazione, pregio nell’arte, ma solo lì.
Noi ci trasciniamo ancora oggi i difetti di quei tempi che neanche la tragedia successiva, la Seconda guerra mondiale, riuscì a eliminare.
Anche in quella occasione Mussolini credeva che sarebbe bastato uno sforzo breve ma intenso a chiudere la partita a proprio favore. E non fu così.
Quali sono questi difetti o limiti? L’impreparazione e, come accennato, lo schema mentale “garibaldino” che porta all’improvvisazione in scelte che invece richiederebbero una mentalità strategica strutturata e non pilotata da altri, ora dagli americani, ora dai francesi o dalle Nazioni Unite e così via.
Ci piace, inoltre, dare ascolto a impulsi e aneliti umanitari, di eredità mazziniana. Se una cosa è giusta va fatta, basta la volontà.
Viviamo di spinte etiche, credendo che siano queste a salvare il mondo dalle tragedie, ma che postulano spesso scopi vuoi troppo ampi, quindi non commisurati ai mezzi disponibili, o lontani da ciò che veramente ci riguarda.
E ciò ci porta fisiologicamente a sperare sempre in un eroe salvifico, il Garibaldi della situazione o un Angioni, che compia il miracolo. Non avendo, di contro, la più pallida idea di come e con che cosa salvaguardare i nostri interessi con lo strumento militare.
Anzi ci chiediamo persino a cosa serva questo strumento.
Oggi siamo seguendo questo trend. Infatti, meglio dell’Esercito di popolo, è avere uno strumento a “doppio uso”, al servizio del “popolo”, non della Nazione.
Meglio utilizzarlo a spalare fango, darlo in concorso alle Forze di Polizia, fargli seguire l’immondizia, tappare le buche delle strade di Roma e, se capita, occuparsi all’emergenza dei vaccini.
Le prime quaranta pagine dell’ultimo “Rapporto Esercito” parlano del Covid!
Fa niente se con lungimiranza qualcuno, anni fa, proprio creò la Protezione Civile. E una trasformazione finale in protezione civile a molte parti politiche non dispiacerebbe.
Come scrisse Luigi Barzini dalla Libia, “… in Italia questa gente (si riferiva a Giolitti, al Re, al Ministro della Guerra, al Capo di Stato Maggiore) per decidere della guerra e mandare ordini commette un piccolo errore: invece di giudicare la situazione in Tripolitania osserva l’umore della massa di ignoranti che forma la sua clientela politica …”.
E continua “… quando si ordina a un generale di fare la guerra senza lasciar ferire un uomo, allora si finisce col massacro”. Differenze con l’oggi?
Quindi attenzione all’uso della forza!
Siamo un esercito di popolo. Come tale, anche se si va in zone a rischio, proprio per la consapevolezza di perseguire fini grandiosi, generosi e soprattutto “giusti” ma con mezzi inadeguati, a partire dal possesso di un serio addestramento, guai a riportare perdite, a costo di non finire il lavoro. E quando le perdite ci sono, per mascherare le proprie responsabilità politiche, si parla di eroi.
Certo, sono degli eroi ad andare in “zone di combattimento”, credendosi adeguati al compito e pensando di aver sopperito, in soli pochi mesi di addestramento mirato per la particolare missione, alla mancanza di più lunghi periodi di vuoto addestrativo. Senza contare la mancanza di quello specifico di specialità.
Carenza che, non prendiamoci in giro, dura da troppo tempo. Parlo di addestramento, non di esercitazioni. Temo che molti confondano le due cose.
Non sono, infatti, le pur altisonanti e utili esercitazioni fatte in Qatar, per esempio, che possono colmare il pericoloso gap, laddove non siano precedute da intenso lavoro addestrativo.
Anche per questo poi si finisce per sparare sulle galline. Succedeva anche con la Leva, sia chiaro. Tollerabile. Non lo è mai invece con i “professionisti”, vecchi o giovani che siano.
Noi viviamo di miti. Uno ce lo trasciniamo proprio dalla Libia. Dove sbarcammo pensando che gli arabi ci avrebbero accolti a braccia aperte. Che delusione, invece.
Qual è il mito? Quello per cui quando un soldato italiano arriva da qualche parte è ben accolto dalla popolazione.
Perché, diciamolo, e gli altri ce lo fanno credere con grandi pacche sulle spalle, noi siamo diversi, siamo buoni e generosi, portiamo il bene, siamo comprensivi, non siamo cattivi e violenti.
Stupidaggini! Temo che sia questo adagio che muova tutti a non pensare all’addestramento serio. Si va in un posto ma poi non si sa come la situazione possa degenerare.
A meno che non si prendano “particolari accordi di compromesso”. Francesco Cossiga denunciò qualcosa del genere che secondo lui accadeva in UNIFIL.
Spero che le Forze Armate, anche oggi, siano ben consapevoli dei propri limiti. Guai altrimenti. Limiti che per lo più derivano dalla scarsità delle risorse assegnate. In questo, intanto, la non conoscenza delle cose militari pesa gravemente sulla responsabilità dei politici di turno, non c’è dubbio alcuno.
Da qui ne consegue lo scollamento che io ho visto e vedo tuttora tra il militare, il decisore politico, l’apparato diplomatico, il settore economico, a meno che non ci sia da sostenere l’industria militare, a volte secondo me anche in misura sproporzionata, e, persino, l’intera società.
Eppure, siamo inseriti in un’organizzazione “politico-militare” che, trascinata per il bavero dagli americani, si occupa di far vedere i muscoli a Mosca, pretendendo schieramenti importanti nell’est europeo o, un domani, persino in altre più calde zone del mondo.
La domanda è: saremmo sul serio in grado di fronteggiare i carri russi all’attacco sulla soglia di Suwalki? Ognuno sia padrone di offendersi se lo ritiene, io credo di no.
E, a questo punto, mi vengono in mente le parole di Bismark, il quale ebbe a dire più o meno “guai al politico i cui argomenti per entrare in guerra non si rivelino tanto convincenti alla fine della guerra stessa così come lo erano stati all’inizio”.
Da queste parole si può comprendere quale grande responsabilità derivi per un politico non solo nel momento della decisione ma anche sul “come” quella decisione sia stata presa, soprattutto, se questa viene presa senza tener conto della realtà in cui versi lo strumento militare, creando spiacevoli “sorprese”.
Ma non tutto è colpa del politico.
Io non so se noi italiani saremo mai propensi a impiegare o partecipare a una “politica di forza”, come ho rilevato prima, nel fronteggiare davvero i carri russi o forse le fregate cinesi nel Mar Cinese Meridionale.
Magari la Marina può credere che con le sue missioni alla “IRINI” di essere a posto. Ma io ho la presunzione di valutare dei limiti e temo le “sorprese” politiche.
Vedo questi limiti, come scritto, soprattutto, al di là della comoda politica dell’innovazione, secondo me tutta a vantaggio dell’industria, nella mancanza di addestramento.
Che era la religione dei tempi passati, quando quei carri si temeva che dovessero arrivare da un momento all’altro sulla soglia di Gorizia.
E i numeri mi danno ragione.
Semplicemente, non è possibile che il nostro Esercito, su undici brigate di manovra (metto da parte la componente Forze Speciali), che avrebbero bisogno almeno una volta l’anno, e per un mese intero, di una campagna addestrativa in aree idonee allo svolgimento di attività complesse, e relative al mantenimento del loro rispettivo “ruolo” operativo, con un costo approssimativo credo sui 7 milioni di euro ciascuna, possa vivere con un “esercizio” intorno a soli 250 milioni.
Almeno è quello che leggo nel già citato “Rapporto Esercito” per il passato 2020.
E non credo in un cambiamento di passo per quest’anno. E gli altri mesi? E le altre esigenze “correnti”? Questa è la base. So già che qualcuno se ne verrà fuori con gli altri arrotondamenti esistenti, ma questi sono “volatili”.
Cioè, si smette di andare in Afghanistan e quel rubinetto si chiude, così come se si smetterà, e sarebbe ora, “Strade Sicure”, anche quel rubinetto si chiuderà, complicando la disponibilità dei volumi normali della Legge di Bilancio.
Insomma, forse è il momento che qualcuno dica seriamente quello che oggi non siamo in grado di fare, per evitare dolorose sorprese al momento di affrontare i benedetti carri russi.
La colpa, quindi, secondo me sta anche dalla parte dei militari, i cui vertici in genere, pur consapevoli di questi limiti, ne sono convinto, hanno troppo spesso dimostrato una particolare propensione a rinunziare a serie e convincenti critiche aperte, dando financo l’assicurazione al politico di turno che al momento del bisogno avrebbero fatto il possibile e l’impossibile. Come sta accadendo.
Ma quando si va sull’impossibile si inizia a giocare pericolosamente con la responsabilità degli altri ai più bassi livelli. E l’etica del comando va a farsi benedire.
Il 24 maggio è una data storica e la Canzone del Piave ci ricorda con le sue note i nostri caduti.
Ecco, chiediamocelo tutti, soldati e no, ogni qual volta gli rendiamo gli onori, quanti di questi siano stati i nostri “eroi” dell’impreparazione e dell’improvvisazione.
E di un silenzio di comodo ma colpevole!
* Generale di Corpo d’Armata Esercito (ris)
© RIPRODUZIONE RISERVATA