Informazione: Il proiettile è la bugia. Come si combatte oggi una guerra senza spari

Di Cristina Di Silvio*

WASHINGTON D.C.  Nel conflitto moderno la verità non è solo un valore, è un bersaglio.

La guerra non comincia con una bomba, ma con un messaggio.

E spesso finisce con una menzogna accettata come realtà.

Nei Teatri operativi contemporanei  – Ucraina, Gaza, Siria – la disinformazione è una tecnologia bellica.

Un’azione di guerra in Siira

Non un effetto collaterale, ma un vettore strategico.

Chi plasma la narrazione, orienta l’esito.

Chi controlla il racconto, vince anche quando perde terreno. Israele, nei giorni successivi al 7 ottobre 2023, ha lanciato l’operazione più immediata e invisibile: quella narrativa.

La storia dei 40 bambini decapitati, mai confermata, ha fatto il giro del mondo in poche ore.

Ha saturato l’indignazione, sospeso il giudizio, anestetizzato l’empatia.

Una narrazione efficace crea spazio operativo. Ogni uccisione successiva viene letta attraverso quel frame.

Nessuna verifica, nessuna rettifica. Solo impatto.

Nel 2024, la Corte Internazionale di Giustizia ha riconosciuto plausibilità all’accusa di genocidio mossa dal Sudafrica contro Israele.

La sede della Corte Internazionale di Giustizia 

 

Ma l’opinione pubblica, già saturata da immagini filtrate, ha reagito con apatia. Troppo tardi, troppo complicato. Il campo semantico era già stato occupato.

Anche l’Ucraina, nella sua difesa eroica, ha usato strumenti affilati di manipolazione.

Il pilota leggendario “Ghost of Kyiv”, i video falsi o decontestualizzati, i numeri gonfiati sulle perdite russe: propaganda selettiva, costruita per tenere alta la coesione interna e garantire il sostegno occidentale. Ma dove finisce la legittima psicologia della resistenza e dove comincia la menzogna? È una domanda scomoda.

Eppure, necessaria.

Perché anche le democrazie usano le bugie come strumenti tattici.

Lo fece l’America con le “armi di distruzione di massa” in Iraq.

Colin Powel con la famosa fialetta che avrebbe dovto contenere antrace

 

Oggi accade ogni giorno, ma con strumenti più raffinati.

La sede della Corte Penale Internazionale

Alla Corte Penale Internazionale è in corso il caso contro Putin per la deportazione dei bambini ucraini. Le prove, però, arrivano anche da contenuti digitali difficili da verificare.

Quanto può reggere un’accusa quando le fonti primarie sono video distribuiti su Telegram? E quando il contesto è frutto di una strategia narrativa di saturazione? Il rischio è che il diritto penale internazionale diventi il palcoscenico finale di una guerra mediatica già vinta o persa altrove.

Le piattaforme sono diventate teatri operativi. X (ex Twitter) è il più efficace per la disinformazione reattiva: tweet brevi, meme, catene virali. Telegram è il canale dell’ombra: notizie senza fonte, video raccapriccianti, leggende di battaglia.

TikTok è la bomba emotiva: contenuti brevi, emozionali, manipolati. Instagram e YouTube ospitano la guerra estetica: umanizzazioni selettive, narrazioni visive. Tutto è costruito per manipolare la percezione, influenzare il comportamento, anticipare la reazione.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sta valutando se includere la disinformazione come violazione sistemica nel caso Ucraina contro Russia.

In parallelo, i giuristi internazionali stanno valutando l’inclusione della disinformazione come aggravante nei crimini di guerra e contro l’umanità.

Alcuni propongono di considerarla una “modalità di aggressione cognitiva”. Perché quando una bugia rende possibile un massacro, quando un deepfake innesca una rappresaglia, non si parla più di parole: si parla di armi. Di armi usate per ottenere vantaggi militari senza combattere sul campo.

E allora: se ciò che vediamo può essere programmato, se anche la pietà può essere costruita a tavolino, se la vittima può essere narrata come carnefice con un video virale, su cosa si basa oggi la nostra posizione morale?

Quando tutto è manipolabile, chi ci dice cosa è giusto fare?  In questa guerra che nessuno ci ha dichiarato, ma tutti combattono, rischiamo di essere arruolati ogni giorno. Non come soldati, ma come spettatori convinti.

Non ci chiedono di sparare, ci chiedono di condividere. Non ci impongono di combattere, ma di scegliere da che parte guardare.

E allora: se chi ci informa lo fa per vincere, e non per raccontare, cosa resta della nostra capacità di giudicare?

In che misura stiamo vivendo dentro una guerra che non riconosciamo più come tale perché ci è stata spiegata da chi l’ha già vinta?

Nella prossima guerra – che forse è già cominciata – l’unica cosa che vedremo saranno immagini scelte. L’unica cosa che sapremo sarà ciò che qualcuno ha deciso di mostrarci. Saremo parte del conflitto senza sapere da che parte stiamo. Chi ci arma con una bugia può chiamarla verità.

Chi ci difende, può farlo nascondendoci i fatti.

Chi ci racconta una guerra, oggi, la sta già combattendo contro di noi. Chi ci racconta la guerra, spesso, la sta già vincendo contro di noi.

*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)

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