Guerra Israele-Iran: vittime civili e guerra dell’informazione. L’innocenza selettiva nei media internazionali

Di Bruno Di Gioacchino

TEL AVIV. Il trattamento informativo delle vittime civili nei conflitti mediorientali – in particolare bambini, donne e anziani – rivela più di quanto appaia.

il primo ministro Netanyahu presiede una riunione operativa

Esso non riflette soltanto la brutalità degli eventi sul terreno, ma è anche lo specchio delle alleanze geopolitiche, dei pregiudizi culturali e delle strategie comunicative degli attori coinvolti.

In questa cornice, la sofferenza non è universale: viene rappresentata, selezionata o oscurata in funzione dell’identità della vittima e dell’interesse strategico di chi racconta.

L’analisi dei documenti disponibili mostra l’assenza di una sistematica comparazione nel trattamento riservato a civili iraniani, israeliani e palestinesi.

Eppure, una lettura geopolitica più ampia permette di riconoscere pattern ricorrenti.

A partire dal 7 ottobre 2023 – giorno in cui Hamas ha lanciato un attacco senza precedenti contro Israele – la narrazione mediatica si è fatta sempre più polarizzata.

Soldati israeliani in un’operazione contro Hamas

Le vittime civili palestinesi sono diventate simbolo di una crisi umanitaria su scala globale, mentre le vittime israeliane – tra cui bambini e anziani – sono spesso inquadrate in chiave eccezionalista, come vittime di un antisemitismo storico riemergente.

Il rapporto pubblicato nell’aprile scorso dalla Presidential Task Force on Combating Antisemitism and Anti-Israeli Bias dell’Università di Harvard evidenzia questo squilibrio: nei contesti accademici e intellettuali statunitensi si registra una crescente censura o marginalizzazione delle narrazioni ebraiche, in particolare quando esse cozzano con la costruzione dominante di oppressore e oppresso.

Nei conflitti contemporanei, i media agiscono come attori geopolitici.

Nelle democrazie occidentali, la copertura delle guerre tende a enfatizzare la vulnerabilità dei civili palestinesi, associando la loro sofferenza a quella dei “dimenticati del mondo”.

Questa narrazione, pur fondata su elementi reali, spesso omette il ruolo attivo delle milizie jihadiste o dei regimi autoritari che le sostengono – su tutti l’Iran – trasformando la rappresentazione da cronaca in propaganda. I

l caso iraniano è emblematico.

La morte di Mahsa Amini nel 2022 e le proteste che ne seguirono hanno acceso i riflettori internazionali sulle donne iraniane, ma l’attenzione si è spenta altrettanto rapidamente.

Marsa Amini

Senza una narrazione continua, le vittime del regime vengono ridotte a icone momentanee, e il rischio è quello di una normalizzazione della violenza di Stato come tratto costitutivo e immutabile delle autocrazie mediorientali.

Ogni bambino che muore, ogni anziano colpito dalla guerra, merita lo stesso sguardo.

Ma la realtà dei media internazionali contraddice questo principio.

Le vittime israeliane vengono talvolta trattate come “meno notiziabili” rispetto a quelle palestinesi, perché meno coerenti con il frame dominante di resistenza contro il potere armato.

Allo stesso modo, i civili iraniani vittime del regime scompaiono dai radar dopo pochi giorni, inghiottiti da una narrativa di rassegnazione geopolitica.

Nel mondo multipolare del ventunesimo secolo, la rappresentazione della vittima è divenuta essa stessa un campo di battaglia.

Non solo per suscitare empatia, ma per rafforzare o delegittimare interi Stati.

Le immagini di bambini sotto le macerie, di donne che piangono i loro cari o di anziani feriti non sono semplicemente testimonianze: sono strumenti narrativi che contribuiscono a modellare l’opinione pubblica e la postura internazionale.

Questa dinamica rientra a pieno titolo nel concetto di conflitto ibrido, dove la dimensione militare si intreccia con quella informativa, economica e simbolica.

Per le democrazie, il rischio è una manipolazione delle emozioni che distorce le priorità politiche.

Per le autocrazie, è l’invisibilità delle proprie vittime, funzionale al mantenimento del potere.

L’infanzia, la vecchiaia e la femminilità dovrebbero essere zone di rispetto universale.

Eppure, nel racconto delle guerre, non tutte le vittime hanno lo stesso peso.

La selezione narrativa, conscia o inconscia, genera un’innocenza selettiva che mina la credibilità dell’informazione e indebolisce l’ordine liberale fondato sui diritti universali.

È tempo che la comunità internazionale – e con essa i media e le istituzioni culturali – si interroghi non solo su quali storie racconta, ma anche su quali sceglie di non raccontare.

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