Di Bruno Di Gioacchino
TEL AVIV. L’attacco israeliano all’Iran, compiuto nei giorni scorsi, è stato presentato dal Governo di Benjamin Netanyahu come una misura preventiva contro la minaccia nucleare di Teheran e una risposta all’attivismo regionale dei proxy sciiti.

L’immagine di un’attacco di Israele su Teheran
Tuttavia, gli effetti geopolitici che ha generato in Europa sono tutt’altro che univoci.
Più che ricompattare il Continente contro una comune minaccia, l’offensiva israeliana ha riaperto faglie profonde all’interno delle società europee, dove la questione dell’identità, della sicurezza e della convivenza tra comunità religiose e culturali è già da tempo oggetto di tensioni crescenti.
In molte capitali europee si sono registrate manifestazioni contro l’intervento israeliano, accompagnate da una retorica polarizzata.
Da un lato, le frange più vicine al mondo arabo e islamico denunciano l’aggressione come una violazione del diritto internazionale e un ulteriore atto di oppressione nei confronti del mondo musulmano.
Dall’altro, i movimenti identitari e sovranisti vedono nell’azione israeliana una legittima difesa dell’Occidente giudaico-cristiano contro l’espansione dell’islamismo radicale. In mezzo, le istituzioni europee cercano faticosamente un equilibrio tra solidarietà con Israele, tutela della popolazione civile mediorientale e salvaguardia della coesione interna.
Il riferimento a una possibile “ricompattazione” europea in senso anti-islamico, sulla scia dell’azione israeliana, si scontra con la realtà di un continente che, nei decenni recenti, ha vissuto l’aumento della popolazione di fede musulmana all’interno di un quadro di pluralismo crescente.
È una trasformazione sociologica che ha posto sfide, ma che ha anche arricchito il tessuto culturale europeo.
Il rischio, semmai, è che il conflitto in Medio Oriente produca una reazione simmetrica: da un lato la radicalizzazione di gruppi islamisti nelle periferie europee.
Dall’altro la crescita di movimenti populisti che sfruttano la crisi per promuovere misure securitarie e restrittive, contribuendo a una pericolosa escalation interna.

Immagine degli attentati dell’11settambre
Già dopo l’11 settembre e la guerra in Iraq si osservò in Europa una dinamica simile: aumento della diffidenza intercomunitaria, crescita dell’islamofobia e dell’antisemitismo, e affermazione di narrazioni binarie che opponevano civiltà e religioni.

Alcuni feriti nell’attentato di Londra
I ricordi degli attentati di Madrid nel 2004 e Londra nel 2005 sono ancora vivi e dimostrano quanto fragile sia l’equilibrio sociale in contesti di guerra percepita come ideologica.
L’Europa, in questo scenario, è chiamata a una prova difficile: evitare che un conflitto esterno diventi catalizzatore di fratture interne.
La sua coesione non può fondarsi su una logica amico-nemico di matrice identitaria, ma su un progetto politico che coniughi sicurezza, diritti e integrazione.
Per riuscirci, occorrerà rafforzare gli strumenti di prevenzione del radicalismo, sostenere il dialogo interreligioso, e riaffermare i principi dello Stato di diritto anche nelle fasi di emergenza geopolitica.
Ma accanto a queste complessità, occorre ribadire con fermezza un punto centrale: la sopravvivenza di Israele non è una questione marginale.
È un nodo strutturale dell’equilibrio internazionale.
Dalla sua fondazione nel 1948, Israele rappresenta una democrazia avanzata in un contesto ostile, ed è oggi bersaglio dichiarato di un’alleanza tra autocrazie: l’Iran sciita sostenuto logisticamente dalla Russia e finanziariamente dalla Cina.
L’asse Teheran-Mosca-Pechino non mira soltanto alla cancellazione dello Stato ebraico, ma alla destabilizzazione dell’intero ordine mondiale liberale.
La guerra ibrida che esso conduce si manifesta non solo in Medio Oriente, ma anche nei Balcani, nel Sahel, nei flussi migratori e nello spazio cibernetico europeo. Israele, in questo quadro, non agisce solo per sé: costituisce una linea del fronte avanzata nella difesa dell’Occidente.
Ignorarlo significa esporsi a un’aggressione che, se oggi si esprime a Gaza o a Damasco, domani potrebbe materializzarsi nei quartieri vulnerabili di Berlino o Parigi.
Il rischio che si sta profilando non è quello di un’Europa ricompattata contro l’Islam radicale, ma piuttosto quello di un continente lacerato da un doppio estremismo che si alimenta a vicenda.
La risposta, allora, non può essere militare o identitaria, ma deve partire dalla consapevolezza che la vera forza dell’Europa risiede nella capacità di difendere i propri valori attraverso la resilienza democratica, l’inclusione e la fermezza nella condanna della violenza da qualunque parte provenga.
La sopravvivenza di Israele, in questo orizzonte, è parte della sopravvivenza dell’ordine liberale globale.
Non vederlo significa non comprendere la natura della minaccia che stiamo affrontando.
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