Iran: Offerta da 30 miliardi a Teheran. La scommessa geopolitica USA tra diplomazia, dollari e deterrenza

Di Bruno Di Gioacchino

TEHERAN. La diplomazia torna protagonista nella partita più delicata del Medio Oriente.

Secondo fonti riservate rivelate alla CNN e rilanciate da testate internazionali, l’Amministrazione Trump – attraverso l’emissario Steve Witkoff – avrebbe messo sul tavolo un’offerta compresa tra 20 e 30 miliardi di dollari per convincere l’Iran a rientrare nel perimetro di un accordo sul nucleare civile.

Steve Witkoff

Una proposta che, pur non ancora formalizzata ufficialmente, si regge su tre pilastri:

  • Finanziamenti per un programma nucleare esclusivamente civile e senza arricchimento
  • Lo sblocco di sanzioni e fondi congelati (fino a 6 miliardi in banche estere
  • Coinvolgimento diretto dei Paesi arabi del Golfo nel sostegno economico.

Un’operazione ad alto rischio, che fonde incentivi economici, pressione militare e architettura diplomatica multilaterale, con l’obiettivo di ridefinire gli equilibri regionali e globali.

L’offerta americana si inserisce in un contesto di crescente tensione dopo gli attacchi mirati a siti nucleari iraniani come Fordow e Natanz. . In perfetta logica “Guerra fredda 2.0”, gli Stati Uniti alternano colpi militari chirurgici a proposte di apertura diplomatica.

Il messaggio implicito è chiaro: rinunciare all’arricchimento dell’uranio in cambio di un generoso pacchetto economico, evitando nuove escalation

Lo Studio Ovale alla Casa Bianca

.

La manovra consente alla Casa Bianca di arginare le critiche interne – soprattutto al Congresso – senza cedere su sicurezza e deterrenza.

Elemento strategico dell’iniziativa è il ruolo attribuito ai Paesi del Golfo, non solo come semplici comparse finanziarie ma come attori politici. In particolare, Emirati, Arabia Saudita e Qatar potrebbero essere chiamati a finanziare il piano, rafforzando la loro centralità nella regione.

Una mossa che mira a consolidare l’asse sunnita filo-occidentale, riducendo l’interventismo diretto statunitense e contenendo l’influenza sciita iraniana in aree come Libano, Siria, Iraq e Yemen.

Rispetto all’accordo del 2015, noto come JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action, ossia Piano d’Azione Congiunto Globale), che prevedeva limitazioni e controlli sul programma nucleare iraniano in cambio dell’allentamento delle sanzioni internazionali, la proposta attuale introduce una novità sostanziale: nessuna possibilità per l’Iran di arricchire uranio, nemmeno per scopi civili, ma in cambio un robusto supporto finanziario e un nuovo riconoscimento regionale, anche tramite una futura inclusione “controllata” nei consessi economici arabi.

L’obiettivo è impedire che Teheran mantenga margini ambigui sul doppio uso della tecnologia nucleare.

In controluce, l’iniziativa americana è anche un tassello della competizione globale tra democrazie e potenze revisioniste.

Il Presidente cinese Xi Jinping e quello russo, Vladimir Putin

Cina e Russia, partner strategici di Teheran, potrebbero offrire alternative più accomodanti per l’Iran, sia sul piano economico sia su quello tecnologico.

Un eventuale accordo pilotato da Washington rappresenterebbe dunque un successo geopolitico rilevante per gli Stati Uniti.

Al contrario, un fallimento potrebbe riaprire spazi a Mosca e Pechino, rafforzando modelli di governance autoritari e meno trasparenti.

L’effettiva disponibilità dei Paesi del Golfo a investire risorse ingenti – forse migliaia di miliardi nel lungo periodo – resta da verificare.

Senza il loro contributo, la proposta americana rischia di restare un annuncio privo di gambe.

Qualsiasi accordo imporrebbe una ripresa delle ispezioni da parte dell’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica), con un accesso completo e trasparente ai siti iraniani.

La sede dell’AIEA ((Agenzia internazionale per l’energia atomica)

Un passo fondamentale ma storicamente controverso.

La mossa potrebbe infiammare il dibattito politico a Washington: da un lato i falchi repubblicani che la considerano troppo morbida; dall’altro i democratici, divisi tra la tentazione diplomatica e la critica a una politica estera percepita come incerta.

Un Iran reintegrato economicamente ma costretto a rinunciare alla leva nucleare potrebbe riversare la propria influenza su altri fronti – Siria, Libano, Iraq – giocando una partita di soft power alternativo e consolidando le proprie reti regionali.

L’offerta USA all’Iran è molto più di un accordo sul nucleare.

È un test di equilibrio tra diplomazia economica, pressione militare e architettura multipolare.

Se funzionasse, potrebbe segnare un nuovo paradigma per la sicurezza in Medio Oriente, costruito non più solo sui carri armati, ma anche su miliardi e trattative.

Se fallisse, potrebbe invece accelerare l’erosione dell’influenza americana, aprendo la porta a un Medio Oriente sempre più conteso tra imperi vecchi e nuovi.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Autore