Iran-USA, la tregua nucleare che non scioglie i nodi del Medio Oriente

Di Giuseppe Gagliano 

TEHERAN. Tra le pieghe di una diplomazia fragile, l’Amministrazione Trump sceglie una nuova via con Teheran: non più lo smantellamento totale del programma nucleare iraniano, ma un compromesso incentrato sulla verifica del grado di arricchimento dell’uranio e sul controllo dei vettori balistici.

Il Presidente americano, Donald Trump

 

Un cambio di passo significativo, annunciato dall’inviato speciale Steve Witkoff, che rappresenta non solo un’ammorbidita correzione di rotta rispetto al passato, ma anche un tentativo di disinnescare temporaneamente la mina iraniana senza però rimuoverla.

Steve Witkoff (Official State Department photo by Freddie Everett)

 

Dalla dottrina del “massimo della pressione” ereditata da Pompeo e Bolton, si passa dunque a un realismo negoziale che riconosce – tra le righe – l’impossibilità di costringere la Repubblica islamica alla resa totale, almeno senza una guerra.

L’ex segretario di Stato Usa, Mike Pompeo

 

Il linguaggio, certo, resta muscolare: Witkoff parla di “controllo sul meccanismo d’innesco della bomba”, mentre il segretario alla Difesa Hegseth e il consigliere per la Sicurezza Waltz invocano ancora lo “smantellamento totale” e un “accordo stile Libia”.

Ma la diplomazia reale si sposta su binari più sobri e indiretti, con l’Oman ancora una volta nella veste di mediatore silenzioso e utile.

La posizione di Israele resta intransigente. Benjamin Netanyahu, al fianco di Trump nello Studio Ovale, ha invocato esplicitamente il precedente libico: un disarmo totale in cambio di promesse occidentali.

Ma è proprio l’esempio libico, con la fine rovinosa di Gheddafi dopo aver ceduto le armi, ad alimentare la diffidenza strategica di Teheran. L’Iran non dimentica: ciò che fu promesso a Tripoli fu poi negato nel momento decisivo.

Teheran risponde con fermezza: l’energia nucleare civile è un diritto sovrano e lo JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action)  resta un riferimento giuridico e politico, benché ormai svuotato.

L’ayatollah Khamenei mette in guardia da illusioni pericolose: non ci sarà una nuova capitolazione, né illusioni su un Occidente che ha già rotto la parola data nel 2018. Tuttavia, autorizza i colloqui, segnando un’apertura tattica in nome della sopravvivenza economica del regime.

Ali Khamenei, Guida Suprema della Repubblica Islamica d’Iran

E il mercato risponde: il rial recupera terreno e i segnali di attesa tra la popolazione si moltiplicano.

Il vero nodo resta il programma missilistico, legato indissolubilmente alla proiezione strategica dell’Iran in Libano, Siria, Yemen.

Gli Stati Uniti vorrebbero separare la questione nucleare da quella dei missili, ma per Teheran sono due facce della stessa deterrenza.

Non è solo una partita tra Washington e la Repubblica islamica: è la ridefinizione degli equilibri nel Golfo, della sicurezza israeliana, del ruolo saudita, dell’autonomia strategica degli Emirati e della persistente ambiguità europea.

L’accordo “più forte” promesso da Trump, dunque, nasce già fragile.

E dietro ogni formula negoziale si nasconde la vera posta in gioco: la sopravvivenza della deterrenza iraniana e la gestione, non la risoluzione, di un confronto che resta strutturale.

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