Israele: Bibi Netanyahu resiste, ma a caro prezzo. La leva haredi come crepa strutturale della democrazia del Paese medio orientale

Di Bruno Di Gioacchino

GERUSALEMME. Il Parlamento israeliano Knesset ha respinto oggi la mozione per lo scioglimento anticipato del Parlamento con 61 voti contrari, 53 favorevoli e 6 astensioni.

Il Parlamento israeliano Knesset

 

Un voto che congela, almeno per i prossimi sei mesi, la possibilità di nuove elezioni ma che non sana le profonde fratture che attraversano lo Stato d’Israele.

Il nodo resta la leva obbligatoria.

O, più precisamente, la sua mancata applicazione per oltre 80 mila giovani ultra-ortodossi, i cosiddetti haredim.

Giovani Haredim

La Corte Suprema ha ordinato la loro incorporazione nelle Forze Armate ma il Governo – sostenuto proprio dai Partiti religiosi – ha tirato fuori dal cilindro un compromesso temporaneo, fragile e dai contorni opachi.

È bastato per far saltare il voto di sfiducia, ma il prezzo politico è elevatissimo.

L’attuale Esecutivo, tra i più marcatamente di destra nella storia d’Israele, si regge sull’alleanza con due Partiti religiosi: Shas e United Torah Judaism.

La questione della leva haredi è esplosiva, tanto più in un Paese in stato di guerra permanente.

Dal 7 ottobre 2023, con il brutale attacco di Hamas e la risposta militare israeliana, è tornata alla ribalta l’esigenza di una mobilitazione nazionale ampia, coesa e, soprattutto, equa.

Ma l’equità si scontra con l’identità.

Da decenni, una parte del mondo religioso vive in una bolla legale che lo esenta da doveri civili fondamentali, in nome dello studio delle sacre scritture. Una scelta accettata in passato come prezzo per l’unità nazionale, ma che oggi – con migliaia di soldati al fronte – appare insostenibile agli occhi di larga parte della popolazione.

Il presidente della Commissione Esteri e Difesa, Yuli Edelstein, è riuscito a negoziare un testo di compromesso che ha permesso alla coalizione di Netanyahu di tenere.

Ma è una tregua armata.

I dettagli della nuova intesa non sono pubblici, le sanzioni per chi elude il servizio militare rimangono un tabù e le proteste nella società civile si fanno più vocali.

Il premier israeliano, Netanyau ed il Presidente Trump

Netanyahu guadagna tempo – sei mesi, per l’esattezza – ma lo spettro del voto anticipato non è svanito.

La sua maggioranza è numericamente solida ma politicamente lacerata. Ogni nuova crisi (sociale, militare o giudiziaria) può trasformarsi in un detonatore.

L’equilibrio fra religione e stato laico non è solo un fatto interno.

Anche i rapporti con l’Occidente sono messi alla prova.

Gli Stati Uniti e l’Unione Europea osservano con crescente apprensione l’evoluzione dello Stato ebraico, che da faro democratico in Medio Oriente rischia di diventare laboratorio di derive illiberali.

L’alleanza tra nazionalismo di destra e ortodossia religiosa, consolidata proprio in questa legislatura, assume toni da “fronte identitario” che mal si concilia con gli standard liberali occidentali. Israele resta alleato imprescindibile, ma le divergenze aumentano.

E la leva obbligatoria diventa simbolo di una democrazia a geometria variabile.

Le prossime settimane saranno decisive.

Se Netanyahu riuscirà a trasformare il compromesso in legge senza perdere i suoi alleati religiosi, la crisi potrà rientrare.

Ma se la pressione sociale dovesse aumentare – come è probabile – allora la questione haredi potrebbe innescare un effetto domino: rottura della maggioranza, con la destra laica che mal sopporta l’immunità religiosa; proteste diffuse, soprattutto da parte di giovani e militari; debolezza operativa, proprio mentre lo Stato è impegnato in una guerra logorante contro Hamas; erosione della fiducia occidentale, in un contesto globale sempre più polarizzato.

La mancata dissoluzione della Knesset è una vittoria tattica per Netanyahu, ma anche la dimostrazione che Israele vive in equilibrio instabile.

L’incapacità di armonizzare leva e legittimità civile riflette una crisi più profonda: quella tra identità e democrazia, tra sacro e Stato, tra guerra e diritto.

In un’epoca di conflitti ibridi e democrazie sotto pressione, il caso israeliano è emblematico.

La questione haredi è solo la punta dell’iceberg. Ma proprio per questo, sarà il banco di prova della capacità del Paese di restare unito senza rinunciare ai suoi principi fondanti.

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