Di Bruno Di Gioacchino
TEL AVIV. Oggi Israele ha vissuto un momento destinato a entrare nella cronaca del conflitto come uno dei suoi passaggi più densi di simboli: è stato definito “il giorno degli ostaggi” e il Governo di Benjamin Netanyahu ha scelto di trasmettere pubblicamente il rilascio – o parte del rilascio – dei prigionieri israeliani trattenuti da Hamas nella Striscia di Gaza.

Non è la prima volta nella storia della guerra israelo-palestinese che una liberazione assume i tratti di un evento mediatico.
Ma in questo caso la mossa è evidente: si tratta di una scelta costruita con cura, un messaggio rivolto all’interno quanto all’esterno, una dichiarazione politica prima ancora che un fatto militare.
Netanyahu ha rivendicato questa liberazione come una vittoria, e nel suo discorso ha invocato l’unità nazionale, chiedendo di mettere da parte le divisioni per affrontare le sfide di sicurezza che, come ha detto, “ancora restano”.

Questo gesto è una rappresentazione plastica del potere, un atto che comunica – più che dimostrare – forza, capacità, controllo.
In un conflitto asimmetrico come quello tra Israele e Hamas, ogni elemento di trattativa, ogni scambio, ogni tregua diventa parte della guerra, un’arma in più, un elemento da usare sul piano interno e internazionale.
Non si tratta solo di far tornare a casa cittadini israeliani, ma di farlo con una regia visibile, di mostrare allo stesso tempo compassione per gli ostaggi e determinazione contro il nemico. È l’immagine che deve vincere, in una battaglia che si combatte anche sulla percezione.
Il richiamo all’unità, nel contesto attuale, è tutto fuorché neutrale. Netanyahu governa in un Paese segnato da spaccature profonde.
La società civile è mobilitata da mesi contro la gestione della guerra e contro le riforme giudiziarie.
La Knesset è frammentata tra leali alla linea dura del Governo, voci critiche nella maggioranza, oppositori politici e rappresentanti delle famiglie degli ostaggi, che più volte hanno sollevato dubbi e fatto pressioni pubbliche affinché si trattasse con Hamas.
In questo contesto, presentare il rilascio come un successo nazionale serve a spostare il dibattito: non più sul come e sul perché, ma sul “noi” che abbiamo ottenuto qualcosa.
L’obiettivo è costruire un fronte interno almeno momentaneo, da sfruttare per riprendere fiato e recuperare consenso.
Ma il rilascio degli ostaggi, come sempre in queste dinamiche, non è gratuito.
Fa parte di un accordo più ampio, basato su una tregua temporanea, uno scambio di prigionieri e una sospensione delle ostilità.
Israele rilascerà detenuti palestinesi; Hamas restituirà cittadini israeliani; nel frattempo si fermeranno le operazioni a Gaza.
Ma non si tratta di una vera pace. Piuttosto, è una pausa operativa.
Entrambe le parti sfrutteranno questo tempo per riorganizzarsi. Israele per ricalibrare le sue operazioni militari, Hamas per rifiatare e rilanciare la propria legittimità nella narrazione palestinese. Non è un’uscita dal conflitto, è una parentesi dentro di esso.
Netanyahu lo ha detto chiaramente: “la campagna continua”.
La vittoria evocata è una vittoria narrativa. Serve per rinsaldare alleanze, placare le critiche, rimettere in moto la macchina diplomatica. Ma non conclude nulla.
Rappresenta un passaggio importante, emotivamente e simbolicamente carico, ma non chiude il conflitto. È una tregua condizionata, fragile, reversibile.
Sul piano internazionale, Israele punta a sfruttare questa mossa per migliorare la propria posizione negoziale.
Il rilascio degli ostaggi potrebbe temporaneamente mitigare le critiche sulla condotta della guerra, aprire spiragli con gli alleati occidentali, e mostrare capacità di negoziazione anche nei momenti più tesi.
Ma è una finestra stretta. Dall’altra parte, Hamas rivendicherà questo scambio come una dimostrazione di forza: la capacità di trattare, di ottenere qualcosa, di restare protagonista.
Questo rafforza la sua immagine di resistenza, sia all’interno di Gaza che nel mondo arabo.
In definitiva, il giorno degli ostaggi è un frammento di storia che parla più alla coscienza collettiva che agli equilibri militari. È un giorno che mostra cosa può fare la politica quando la guerra non si ferma, ma cambia forma.
Un momento costruito per essere ricordato, ma che lascia intatte le domande su ciò che verrà.
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