Di Cristina Di Silvio*
TEL AVIV/TEHERAN/WASHINGTON. È notte fonda quando il cielo sopra Teheran si illumina. In simultanea, esplosioni vengono registrate in almeno cinque province iraniane.
È l’inizio dell’operazione militare più vasta condotta da Israele contro la Repubblica Islamica dalla nascita dello Stato ebraico.
In gioco non c’è solo l’annientamento dell’infrastruttura nucleare iraniana: c’è il controllo strategico del Medio Oriente. E, sullo sfondo, l’equilibrio globale.

Gli effetti dell’attacco israeliano
L’Operazione “Scudo di Giustizia” – lanciata da Israele dopo mesi di schermaglie a bassa intensità e attentati mirati – ha colpito con precisione chirurgica impianti nucleari, centri di comando militare e depositi missilistici IRGC.
Tra i bersagli, anche ufficiali di massimo rango dell’apparato difensivo iraniano, tra cui il comandante delle forze aerospaziali dei Pasdaran e membri del consiglio militare supremo.
Le prime immagini satellitari mostrano siti devastati nei pressi di Arak, Isfahan e Bandar Abbas. Droni di sorveglianza statunitensi – operanti da basi nel Golfo – avrebbero fornito supporto di intelligence, mentre aerei israeliani F-35 avrebbero attraversato corridoi aerei blindati, sorvolando l’Arabia Saudita e la Giordania. Nessun Paese conferma ufficialmente il transito. Teheran reagisce.

Immagini satellitari di uno dei siti attaccati dalle forze aeree dell’IDF
La rappresaglia non si fa attendere. All’alba, oltre 120 droni armati e missili a corto raggio colpiscono il territorio israeliano da diverse direzioni: Iran, Iraq, Siria e Libano. Una manovra coordinata che testimonia una possibile saldatura tra l’asse sciita (Iran, Hezbollah, milizie irachene) e attori ibridi come gli Houthi nello Yemen.
L’IDF dichiara l’intercettazione della maggior parte delle minacce, ma ammette vittime civili a Dimona e Haifa. La difesa antimissile “David’s Sling” è messa alla prova, e il sistema Iron Dome viene impiegato senza sosta su più fronti contemporaneamente.
L’Arabia Saudita si trincera in silenzio, ma attiva l’intera rete di difesa aerea e convoca il Consiglio di Sicurezza del GCC (Consiglio di Cooperazione del Golfo); Turchia condanna l’attacco israeliano come “atto di destabilizzazione grave” ma invita anche Teheran a “moderare la reazione”; Qatar ed Emirati si allineano alla posizione statunitense: “De-escalation immediata”.
Ma i cieli del Golfo si svuotano di voli commerciali; Hezbollah mobilita 15.000 combattenti nel sud del Libano. Raid israeliani già in corso sulla Valle della Bekaa. Il presidente americano convoca d’urgenza il Consiglio di Sicurezza Nazionale. Navi da guerra USA – tra cui la USS Eisenhower – si avvicinano alle coste israeliane. Il Pentagono rafforza le difese in Iraq e Kuwait. Alcune fonti parlano del dispiegamento di batterie THAAD anche in Giordania.
Pur negando ogni coinvolgimento operativo, gli Stati Uniti appaiono come il garante strategico della sopravvivenza di Israele in uno scenario in cui lo scontro potrebbe allargarsi: l’Iran minaccia di colpire anche basi statunitensi nella regione “se la complicità americana sarà dimostrata”.

F-16 dell’IDF in volo
L’attacco israeliano, senza precedenti per portata e intensità, non è solo un atto militare: è una dichiarazione di intenti strategica. In un Medio Oriente già polarizzato dalla guerra civile siriana, dall’instabilità in Iraq e dal braccio di ferro petrolifero tra le monarchie del Golfo e Teheran, l’operazione ha ridefinito le regole del gioco.
Il rischio, ora, è che la risposta iraniana sfoci in un conflitto multi-teatro. La regione è una polveriera in cui attori statuali e non statuali – spesso sovrapposti – possono essere attivati in tempi rapidi: dalle milizie sciite in Iraq ai proxy afghani e yemeniti, fino alla jihad globale che potrebbe cavalcare la narrativa della “difesa dell’Islam”.
Sarà determinante capire se l’Iran vorrà – o potrà – sostenere una guerra convenzionale prolungata con Israele, consapevole dell’asimmetria tecnologica. Ma in un conflitto di attrito, Teheran ha sempre saputo sfruttare la profondità strategica del proprio network regionale.
La vera domanda ora è: quanto resteranno neutrali le superpotenze? Mentre Mosca osserva e Pechino chiama alla stabilità, l’intero assetto di sicurezza del Medio Oriente sembra destinato a un nuovo equilibrio. Forse, a un nuovo disordine.
*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)
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