Di Bruno Di Gioacchino
TEL AVIV. Ieri, Israele ha colpito la leadership di Hamas a Doha, capitale del Qatar, in un attacco aereo senza precedenti nella storia del conflitto.

Non si è trattato di un’operazione isolata né improvvisata: solo il giorno prima, l’8 settembre, Gerusalemme era stata scossa da un attentato sanguinoso che aveva causato morti e feriti tra civili israeliani.
Hamas, attraverso i suoi canali ufficiali, aveva rivendicato la responsabilità dell’azione, presentandola come una risposta alla guerra in corso a Gaza e come prova della capacità del movimento di colpire anche nel cuore della capitale israeliana.
Quella rivendicazione, più ancora dell’attentato stesso, ha rappresentato la scintilla che ha innescato una catena di decisioni rapide e drastiche da parte del governo di Tel Aviv.
L’opinione pubblica israeliana, già provata da mesi di conflitto, ha chiesto a gran voce una ritorsione.
Le pressioni interne hanno reso politicamente inevitabile una risposta immediata, e questa volta Israele ha scelto di colpire non sul campo di battaglia ma nel cuore politico del movimento.
L’operazione, battezzata secondo fonti interne “Summit of Fire” o “Giorno del Giudizio” (“Atzeret HaDin”), ha preso di mira la dirigenza di Hamas riunita a Doha in un incontro di alto livello.
L’obiettivo principale era Khalil al-Hayya, vice capo dell’Ufficio Politico e figura di spicco dell’organizzazione, riconosciuto anche come uno dei principali negoziatori del movimento nei contatti indiretti con Israele e con l’Egitto.

Israele lo considerava da tempo un architetto strategico tanto sul piano politico quanto su quello militare, e la sua eliminazione è stata subito confermata dalle fonti ufficiali.
Al-Hayya è rimasto ucciso insieme al figlio Himan e al direttore del suo ufficio, Jihad Labad.
Presenti a Doha al momento del raid c’erano anche altri esponenti di primo piano di Hamas.
Tra questi, Khaled Meshaal, storico leader dell’organizzazione e per anni volto del movimento sulla scena internazionale.
Alcuni media hanno parlato della sua morte, altri di un salvataggio rocambolesco, mentre Hamas ha smentito categoricamente il suo decesso.
La confusione riflette la delicatezza della situazione e il peso simbolico che una conferma ufficiale avrebbe sul morale e sull’organizzazione interna del movimento.
Altri nomi indicati dalle intelligence come potenzialmente presenti all’incontro includono Zaher Jabarin, responsabile delle operazioni in Cisgiordania, Muhammad Darwish, capo del Consiglio della Shura, oltre a Razi Hammad, Izzat al-Rishq, Mousa Abu Marzouk e Hussam Badran.
Alcuni media sauditi hanno riferito della loro morte, ma Hamas ha negato con fermezza.
L’elemento che rende questo attacco eccezionale non è solo la lista delle personalità colpite, ma soprattutto il luogo scelto.
Il Qatar, che ospita da anni la leadership di Hamas in esilio, è stato fino a oggi considerato un territorio di mediazione, una zona franca diplomatica in cui era possibile tessere trattative indirette tra le parti. Israele, colpendo a Doha, ha rotto apertamente questo paradigma.
Il messaggio è chiaro: nessun rifugio, neppure quello garantito da un Paese mediatore, può proteggere chi rivendica la responsabilità di attentati contro civili israeliani.
Il contesto di Gerusalemme spiega la tempistica e la durezza della decisione.
L’attentato dell’8 settembre non è stato solo un atto di violenza, ma un segnale politico che Hamas ha voluto inviare nel momento in cui si discuteva di nuovi spazi negoziali.
Rivendicare quell’azione significava, nei fatti, minare ogni credibilità residua del processo diplomatico e umiliare il Governo israeliano agli occhi della propria popolazione.
Di fronte a ciò, un raid immediato contro la dirigenza del movimento è stato visto come una misura necessaria a ristabilire deterrenza e autorità.
Naturalmente, la scelta ha aperto un fronte di conseguenze geopolitiche.
Il Qatar ha denunciato l’attacco come una violazione flagrante della propria sovranità, definendolo un atto codardo e illegale. Doha ha sempre rivendicato il suo ruolo di mediatore, cercando di bilanciare rapporti con Hamas, con Washington e con le monarchie del Golfo.
Essere stata teatro di un’operazione israeliana mina la sua credibilità e apre interrogativi sulla sua capacità futura di ospitare colloqui o mantenere un canale diplomatico. Le Nazioni Unite hanno espresso preoccupazione, mentre Iran e Turchia hanno condannato duramente l’attacco. Arabia Saudita ed Emirati, pur tradizionalmente ostili a Hamas, osservano con diffidenza una mossa che potrebbe destabilizzare ulteriormente l’area.
Le implicazioni sono molteplici. Sul piano negoziale, l’eliminazione di al-Hayya priva Hamas di uno dei suoi principali interlocutori e rende molto più fragile qualsiasi ipotesi di cessate il fuoco o scambio di ostaggi.
Sul piano interno, l’organizzazione dovrà affrontare una riorganizzazione complessa, che potrebbe sfociare in lotte di potere o in una radicalizzazione ulteriore della linea politica e militare.
Sul piano regionale, l’attacco segna un precedente pericoloso: la sovranità del Qatar, Paese che ospita una delle più grandi basi americane in Medio Oriente, è stata infranta, e ciò solleva interrogativi sulla posizione di Washington.
Secondo fonti arabe, gli Stati Uniti sarebbero stati informati dell’operazione e non si sarebbero opposti, segnale che la Casa Bianca ha preferito accettare l’azione israeliana pur consapevole delle sue conseguenze.
Sul medio-lungo termine, la domanda è se l’eliminazione di figure chiave come al-Hayya renderà Hamas più debole o, al contrario, più pericoloso.
La storia insegna che la decapitazione delle leadership di movimenti armati non porta automaticamente alla loro dissoluzione: spesso produce una nuova generazione di comandanti, più giovani e più radicali.
Israele ha però voluto dimostrare che non esiste più un “porto sicuro” per chi guida Hamas.
In questo senso, il raid a Doha è un atto di deterrenza tanto simbolico quanto operativo.
In definitiva, l’attacco del 9 settembre deve essere letto come la risposta diretta a quanto accaduto il giorno prima a Gerusalemme.
Hamas, rivendicando l’attentato contro civili israeliani, ha scelto di alzare il livello dello scontro e ha messo il Governo di Tel Aviv di fronte a un bivio: lasciare impunito l’atto o colpire duramente.
Israele ha scelto la seconda strada, assumendosi rischi enormi ma trasmettendo un messaggio inequivocabile.
Doha non è più intoccabile, e la guerra con Hamas ha ormai travalicato i confini di Gaza per entrare in una fase nuova, più ampia e imprevedibile.
Le prossime settimane diranno se la strategia israeliana produrrà un indebolimento del movimento o se, al contrario, darà vita a un ciclo ancora più violento di azioni e reazioni.
Quel che è certo è che, con Gerusalemme e Doha collegate da un filo diretto di sangue e di vendetta, la prospettiva di una pace negoziata si allontana sempre di più.
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