Di Giuseppe Gagliano*
KHARTUM. In Sudan la guerra non finisce mai, anche quando tutti fingono di crederlo possibile.
Le Nazioni Unite hanno lanciato l’ennesimo allarme: le ostilità si stanno intensificando, nonostante le Forze di Supporto Rapido (RSF) abbiano accettato una tregua proposta dai mediatori internazionali. Un’illusione fragile, come sempre, in un Paese devastato da due anni di conflitto e da un collasso umanitario che nessuna diplomazia riesce più a contenere.

Il quadro, delineato dall’alto commissario per i diritti umani dell’ONU, Volker Türk, è drammatico: esplosioni a Khartum e Atbara, nuove offensive nel Kordofan, massacri nel Darfur e un esercito regolare che rifiuta di fermarsi. L’accettazione della tregua da parte delle RSF sembra più un espediente politico che un gesto di pace: un tentativo di presentarsi come forza “responsabile” di fronte ai mediatori americani, sauditi, egiziani ed emiratini, mentre sul terreno continuano le violenze.
La guerra dei due Eserciti
Dal 15 aprile 2023, giorno in cui scoppiò la guerra tra l’Esercito sudanese e le RSF, il Sudan è diventato il teatro di una delle crisi più sanguinose e dimenticate del pianeta. Decine di migliaia di morti, quasi dodici milioni di sfollati e una carestia che minaccia intere regioni.

I militari controllano il Nord e il centro, le RSF dominano il Darfur e parte del Sud: un Paese spaccato in due, senza istituzioni, senza economia, senza futuro.
La recente conquista di El-Fasher da parte delle RSF ha sancito il crollo dell’ultima roccaforte governativa nel Darfur, aprendo la strada a nuove atrocità.
Le immagini satellitari raccolte dal laboratorio umanitario dell’Università di Yale mostrano fosse comuni e corridoi civili bloccati, segni di una violenza sistematica. Medici Senza Frontiere teme per centinaia di migliaia di civili intrappolati, mentre 70.000 persone sono già fuggite.
Ogni tregua è un’illusione che dura quanto una dichiarazione stampa.
Le mani straniere nella guerra sudanese
Come in ogni conflitto africano contemporaneo, la guerra del Sudan non è solo interna.
Dietro i due Eserciti si muovono interessi regionali e globali. L’Egitto e l’Arabia Saudita sostengono, più o meno apertamente, l’Esercito regolare, per evitare che il caos si estenda al Mar Rosso e alle rotte commerciali vitali per il Golfo.

Gli Emirati Arabi Uniti, accusati dall’ONU di fornire armi e finanziamenti alle RSF, negano ogni coinvolgimento ma continuano a esercitare un’influenza decisiva.
Il Sudan, con le sue risorse minerarie e la sua posizione strategica tra Africa orientale e Sahel, è diventato un campo di battaglia per procura.
Gli Stati Uniti tentano di mediare per evitare che la Russia — già presente con Wagner e interessata alle miniere d’oro del Darfur – rafforzi la propria influenza.
Ma Washington e Bruxelles hanno smarrito la capacità di incidere: l’Africa oggi risponde ad altri centri di potere, e il Sudan è solo una pedina in un gioco più vasto, dove le potenze del Golfo e la Cina consolidano silenziosamente le loro posizioni.
Fame e paura: l’altra guerra
Se la guerra militare devasta città e villaggi, la guerra economica distrugge la sopravvivenza quotidiana.
Il Programma alimentare mondiale parla di oltre venti milioni di persone in condizioni di insicurezza alimentare, mentre l’IPC – il sistema di classificazione della fame con sede a Roma — avverte che alcune regioni del Kordofan stanno già entrando nella fase di carestia.
A Dilling, le RSF hanno bombardato un ospedale, uccidendo cinque persone. Intere aree sono rimaste senza elettricità e senza medicine.
Le strutture sanitarie vengono sistematicamente attaccate per privare la popolazione civile di ogni possibilità di cura, in una strategia che mira a piegare le comunità attraverso la fame e la malattia.
La popolazione vive nella paura, pronta a fuggire in qualsiasi momento.
Ma dove? Il Sudan è circondato da Paesi altrettanto instabili – Ciad, Sud Sudan, Etiopia, Eritrea – che non possono accogliere milioni di rifugiati.
I campi di fortuna al confine diventano città di disperazione, mentre i traffici di esseri umani riprendono vigore.
L’Africa dimenticata e l’Europa distratta
La guerra del Sudan non occupa le prime pagine, ma rappresenta un punto di rottura strategico. Il Mar Rosso è ormai una zona contesa tra potenze rivali: Arabia Saudita e Egitto temono la destabilizzazione, la Russia

cerca accesso a basi portuali, la Cina difende le sue rotte commerciali e infrastrutture.
Ogni colpo di mortaio a Khartum ha una conseguenza indiretta sui traffici che passano da Suez.
Eppure, l’Europa resta spettatrice. La sua politica africana, frammentata e burocratica, non ha la forza né la visione per incidere.
L’Unione si limita a dichiarazioni di condanna e promesse di aiuti umanitari, mentre perde terreno rispetto a Paesi più spregiudicati.
Anche l’Italia, che ha interesse diretto alla stabilità del Corno d’Africa, resta silente. L’attenzione è rivolta ai flussi migratori, non alle cause profonde che li generano.
La guerra senza fine
Il Sudan vive oggi la fase terminale di uno Stato fallito.
La rivalità tra Generali – Abdel Fattah al-Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo, detto “Hemedti” – è diventata una lotta per la sopravvivenza personale, non per il potere politico.
Non ci sono più mediazioni, né principi, né ideologie: solo signori della guerra che controllano miniere, rotte commerciali e milizie private.
Ogni cessate il fuoco serve a riorganizzare le forze, non a costruire la pace.
Ogni promessa di negoziato si scioglie al primo bombardamento.
Il Paese è ormai diviso in zone d’influenza economica e tribale.
L’ONU denuncia, ma non ha mezzi; l’Unione Africana tace; le potenze regionali trattano la crisi come una pedina del proprio equilibrio.
Un avvertimento per il futuro
Il dramma del Sudan è anche un monito: la fragilità degli Stati africani nati dai confini coloniali, la competizione globale per le risorse, la marginalità delle istituzioni internazionali.
È la dimostrazione che il mondo multipolare, tanto evocato, rischia di essere un mondo senza regole, dove la guerra diventa una condizione permanente e la pace un’eccezione.
In mezzo, c’è un popolo dimenticato.
Milioni di donne e bambini costretti alla fuga, ospedali distrutti, carestie pianificate come arma di guerra.
La comunità internazionale parla di “preoccupazione”, ma la verità è che il Sudan non interessa più a nessuno, se non per ciò che può offrire: oro, petrolio, posizioni strategiche.
Nel silenzio dei notiziari, tra le macerie di El-Fasher e Dilling, si consuma una tragedia che racconta il volto più vero del mondo contemporaneo: un mondo che osserva, calcola e si abitua all’orrore.
E quando la guerra diventa routine, la pace smette di essere un diritto.

