di Giuseppe Gagliano*
PECHINO. Sotto il cielo terso della capitale cinese, l’Università della Pubblica Sicurezza Popolare celebra la sua cerimonia di laurea. Tra i giovani in toga, pronti a ricevere il diploma, si muovono osservatori discreti, ma attenti: emissari del ministero degli Affari Esteri, a caccia di talenti per un progetto che sta ridisegnando i contorni della diplomazia cinese. Non si tratta di reclutare futuri ambasciatori in giacca e cravatta, ma di costruire un corpo d’élite, una sorta di “polizia degli affari esteri”, dove il confine tra diplomatico e uomo di sicurezza si fa sempre più sfumato. Benvenuti nell’era delle “ambasciate di ferro”.
Una diplomazia con il pugno di ferro
Il termine “ambasciate di ferro” non è solo una suggestione giornalistica. Evoca strutture fortificate, presidi strategici in grado di resistere a crisi e conflitti, ma soprattutto un nuovo tipo di personale: non più solo esperti di protocolli e trattati, ma figure con competenze in sicurezza, intelligence e gestione delle crisi. Laureati dell’Università della Pubblica Sicurezza Popolare, un’istituzione che forma le colonne portanti dell’apparato di sicurezza interna cinese, vengono ora arruolati per rappresentare la Cina in un mondo sempre più instabile. È un segnale chiaro: Pechino vuole una diplomazia capace di proteggere i suoi interessi globali con la stessa determinazione con cui controlla l’ordine interno.
La Cina di oggi non è più quella del riserbo di Deng Xiaoping, che invitava a “nascondere le proprie capacità e attendere il momento opportuno”. È una superpotenza che si muove con passo deciso sullo scacchiere globale, dalla Belt and Road Initiative ai giacimenti africani, dalle infrastrutture in Asia centrale alle rotte commerciali nell’Indo-Pacifico. Ma con l’espansione economica arrivano anche i rischi: cittadini cinesi rapiti in Nigeria, progetti minacciati da instabilità in Pakistan, interessi economici da difendere in teatri di guerra come il Medio Oriente. Le “ambasciate di ferro” sembrano essere la risposta: avamposti non solo diplomatici, ma operativi, pronti a gestire situazioni di emergenza con efficienza e, se necessario, con la forza.

Un cambio di paradigma
Questo approccio segna un cambio di paradigma. La diplomazia tradizionale, fatta di negoziati e strette di mano, si arricchisce di un profilo più muscolare. I nuovi “diplomatici” cinesi potrebbero essere addestrati a rispondere a minacce dirette, coordinare evacuazioni, o persino collaborare con contractors privati o forze di sicurezza locali. È una mossa che ricorda, in parte, le strategie di altre potenze globali: gli Stati Uniti, ad esempio, hanno da tempo squadre di sicurezza nelle loro ambasciate, pronte a intervenire in caso di crisi. Ma la Cina sembra voler andare oltre, creando un corpo ibrido che unisce competenze diplomatiche e operative in un’unica figura.
Non è un caso che il reclutamento avvenga sotto l’egida del ministero della Pubblica Sicurezza, un apparato che ha dimostrato la sua efficacia nel mantenere il controllo interno. La scelta di attingere a questa fucina di talenti segnala una visione strategica: la sicurezza nazionale non si ferma ai confini della Cina, ma si estende ovunque il Dragone abbia piantato la sua bandiera. E in un mondo dove le crisi geopolitiche si intrecciano con quelle economiche, questa nuova diplomazia potrebbe diventare un modello.
Le ombre di una strategia assertiva
Eppure, questa trasformazione non è senza ombre. Le “ambasciate di ferro” potrebbero essere percepite come una minaccia da altri Paesi, specialmente in regioni già sospettose dell’espansionismo cinese. L’idea di diplomatici con formazione paramilitare potrebbe alimentare accuse di ingerenza o di “diplomazia del lupo guerriero”, quella postura aggressiva che Pechino ha adottato in diverse occasioni recenti. Inoltre, c’è il rischio che queste strutture diventino simboli di un potere troppo visibile, attirando l’attenzione di gruppi ostili o innescando tensioni con le nazioni ospitanti.
E poi c’è la questione interna. La fusione tra diplomazia e sicurezza potrebbe riflettere una visione più rigida del ruolo della Cina nel mondo, dove la protezione degli interessi nazionali prevale su qualsiasi dialogo multilaterale. È un segnale che Xi Jinping, con il suo accento sulla sovranità e l’autosufficienza, intende proiettare all’estero lo stesso controllo che esercita in patria?
Un mondo che cambia, una Cina che si adatta
Le “ambasciate di ferro” non sono solo un progetto logistico, ma l’emblema di una Cina che si prepara a un futuro incerto. In un’epoca di rivalità globali, crisi climatiche e instabilità regionali, Pechino non vuole essere colta impreparata. I suoi nuovi diplomatici, con un piede nelle cancellerie e l’altro nei teatri operativi, sono il riflesso di questa ambizione: una superpotenza che non si accontenta di partecipare al gioco globale, ma vuole scriverne le regole.
Resta da vedere se il mondo accetterà questa nuova Cina, o se le “ambasciate di ferro” diventeranno il simbolo di una competizione sempre più aspra. Una cosa è certa: a Pechino, il 27 giugno scorso si è aperto un nuovo capitolo. E il mondo sta guardando.
* Presidente Centro Studi Cestudec
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