Di Vincenzo Santo*
Berlino. Lo scorso 14 agosto, in Germania, la produzione di energia elettrica ha avuto dei problemi dovuti ai grandi consumi in un periodo particolarmente caldo e si è dovuto far ricorso a forniture tradizionali.
Già a febbraio scorso qualcuno aveva lanciato l’allarme per un sistema elettrico che, dipendendo molto dalle energie rinnovabili, troppo sensibili alla variabilità del clima e del tempo, sta rapidamente incontrando dei limiti.
Problemi che alla fine dovranno affrontare tutti i paesi che transitano dai combustibili convenzionali all’energia prodotta con eolico e solare.
Insomma, cosa succede quando il sole non splende, quando c’è nebbia e il vento non soffia per ore o addirittura per giorni? E, soprattutto, cosa accade quando le intermittenze incidono sul funzionamento degli impianti industriali?
Il contrastare i mutamenti climatici è un impegno serio che non necessita di slogan ma di un approccio scientifico. Ideologizzarne i contenuti è distruttivo.
Che sia responsabilità umana oppure una tendenza naturale che si ripete nei millenni, poco importa.
Io sono convinto che meno si emetta, meglio sia. Partiamo da qui. Pertanto, che si riduca l’utilizzazione di idrocarburi è comunque cosa buona.
Il tema che si pone tuttavia è “come”. Il buon Cingolani ha perfettamente ragione nel lanciare l’allarme sui traguardi troppo entusiastici della direttiva europea “Fit for 55” e come tali traguardi possano far inceppare l’economia e far collassare molte imprese per una transizione energetica per tecnologie che per quelle date si teme non potranno essere ancora mature.
Come temo lo sia per il 2035, tra soli 14 anni, per “smettere” di immatricolare auto “tradizionali”, transizione che coinvolge non solo la Ferrari o il mercato dell’auto del lusso, ma tutto l’indotto italiano che contribuisce per ben il 20% alla fornitura delle componenti per l’industria automobilistica tedesca.
Il “Fit for 55” include 13 proposte finalizzate alla riduzione del 55% delle emissioni di anidride carbonica entro il 2030 (rispetto ai livelli del 1990) e ci indirizzerebbe verso la neutralità dal carbone per il 2050. I dubbi sono legittimi, e io li condivido, ma Cingolani, che comunque mi risulta sia un prodotto della spinta iconoclasta pentastellata, è parte del governo, spetta a lui, ministro per la transizione ecologica, lavorare perché quelle realtà industriali non collassino o a limitarne i danni.
E dedicare maggiore attenzione alle imprese che hanno meno di 10 addetti e che in Italia rappresentano il 90% circa. Realtà piccole poco propense all’investimento e difficili, pertanto, da trasformare.
Il secondo punto che Cingolani ha sollevato è quello che riguarda il nucleare. Lasciamo stare se pulito, lo è sicuramente, o se di quarta o quinta generazione, oppure se assicurato da mini-reattori modulari (SMR). Il nucleare era già pulito prima.
Naturalmente, speriamo nella “fusione”, dati i primi eccellenti risultati, di cui l’ultimo test, quello annunciato poche ore fa da ENI, in merito alla fusione a confinamento magnetico effettuato dalla CFS (Commonwealth Fusion Systems), società spin-out del Massachusetts Institute of Technology, di cui il cane a sei zampe è il maggior azionista.
Ma credo che ci sarà ancora molta strada da fare nel settore, anche se l’ENI ha ancora dichiarato che un primo impianto “sperimentale” potrebbe entrare in funzione per il 2025. Ben venga! Vedremo.
La domanda comunque ora è: davvero si crede che per arrivare a quegli ambiziosi traguardi, 2030 e 2050, lo si possa fare solo con l’energia diretta del sole e con il vento? Comunque, di per sé, costosissimi?
Guardando indietro nel tempo, neanche tanto tempo fa, Il protocollo di Kyoto prevedeva la riduzione del “solo” 6% delle emissioni, da conseguire, con almeno il 55% dei firmatari entro il 2012.
Il parco nucleare mi pare rappresentasse allora e tuttora rappresenti all’incirca tra il 5 e il 6% della produzione elettrica mondiale, pertanto, sarebbe bastato raddoppiarlo per soddisfare quel requisito.
Ma già nel 2008, purtroppo, rispetto alle emissioni del 1990, queste erano aumentate del 40%. Un fallimento quindi.
Nonostante ciò, l’UE andava avanti e proiettava l’impegno a ridurre le emissioni del 20% entro il 2020 (è il 20-20-20: cioè ridurre le emissioni di gas serra del 20 %, alzare al 20 % la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili e portare al 20 % il risparmio energetico. Il tutto entro il 2020).
Ma a questa data, l’anno scorso, rispetto sempre al 1990, le emissioni risultavano aumentate del 60%. Non basta: l’UE, pervicacemente, con il bel nome del “New Green Deal”, si propone adesso, e imporrebbe, come detto, la riduzione del 55% entro il 2030, ossia solo dopodomani, e del tutto, la cosiddetta neutralità da carbone, entro il 2050, cioè domani l’altro!
E, per i prossimi 10 anni, con una spesa di 300 miliardi per anno. Possibile? Io ho grossi dubbi che ci si possa riuscire solo con eolico e solare.
Falliti sia Kyoto che il 20-20-20, vogliamo vedere che falliranno anche questi obiettivi? E del resto, l’effetto serra non si combatte su scala nazionale o europea.
Anche se l’Europa dovesse mettersi di impegno, cosa farebbero tutti gli altri? L’anidride carbonica non ha confini.
Purtroppo, parlare di nucleare, e farlo in Italia, è quasi peccato mortale. Fa niente che l’Italia fosse al vertice della ricerca prima che la campagna mediatica contro il nucleare, spinta anche dalla lobby petrolifera, e patrocinata politicamente dal “Sole che Ride” di un certo Martelli, ci fece regredire approfittando di Chernobyl.
Fatto sta che, a calcoli fatti, noi comunque fruiamo per il 13% dei nostri consumi elettrici dell’energia prodotta dalle centrali nucleari francesi, svizzere e slovene.
E nel mondo sono in funzione ben 436 centrali nucleari e altre 53 sono in costruzione: tra queste due in Giappone, dove pure c’è stato l’incidente di Fukushima, una in Finlandia e una in Gran Bretagna.
La stessa Agenzia internazionale per l’energia prevede che la produzione da fonti nucleari raddoppierà da qui al 2050.
Perché i numeri hanno la testa dura. In soldoni, come per produrre un 1 GW appena (l’Italia ne assorbe 40) sarebbe necessario impegnare circa 3 miliardi di euro in pannelli fotovoltaici (FV) oppure più o meno altrettanti in turbine eoliche, lo stesso risultato lo si potrebbe ottenere impegnando forse solo un paio di miliardi di euro per installare 1 reattore nucleare.
La differenza, tuttavia, la fanno due fattori importanti.
Il primo è che, per quanto riguarda il rinnovabile, il rendimento rispetto all’installato si aggira sull’ordine del 10 o 15%, proprio in quanto esso soffre al confronto con la geografia, l’intermittenza e gli orari.
Magari in futuro si potrà migliorare, ma non tanto da poter arrivare al rendimento di un reattore nucleare, dove installo tre e ottengo tre. E anche pulito, alla stessa maniera di un pannello solare o di una pala eolica.
La beffa consiste nel fatto che, comunque si volesse impegnare quelle cifre, a seconda del mix tra FV ed eolico, quel reattore nucleare oppure la centrale a combustibile fossile dovrebbero comunque esserci, proprio per sopperire ai fisiologici cali di produzione.
In secondo luogo, le superfici. Andiamo in India. Qui, ricordo, a fine 2016, è entrato in funzione un impianto solare da “soli” 650 MW, quindi molto meno di 1 GW.
L’impianto occupa una superficie di poco più di 10 km2, per soddisfare, in teoria, circa 220 mila abitazioni (un calcolo fatto da me, 650 mila KW/3 KW, essendo 3 KW il fabbisogno medio di un’abitazione normale), diciamo circa 1 milione di abitanti.
Sempre che ci sia abbastanza sole e la capacità di immagazzinare grandi volumi di energia.
Anche qui il settore è in evoluzione, lo riconosco, ma i grandi numeri mi pare siano ancora molto lontani.
Noi in Italia siamo in 60 milioni, quindi quanti chilometri di terreno dovremo occupare o, come si dice, “consumare”? E questo è il FV, una superficie analoga in eolico sono certo richiederebbe un consumo di terreno ben maggiore. E per garantirci una resa del 100% di quanto spazio dovremmo parlare? Ognuno, se vuole, si faccia due conti in proprio.
Ancora sui costi. Ha dichiarato giorni fa Scaroni che dal 2004, quando cioè sono apparsi i primi impianti eolici e solari, a livello globale si sono spesi ben 3800 miliardi di dollari per ottenere di fatto solo il 2% della produzione globale di energia elettrica con questi sistemi. Alcuni asseriscono il 7%.
Comunque sia, sono grandi numeri in termini di finanziamento. Infatti, anche a voler arrivare al 55%, e solo tra 9 anni, quanti miliardi occorrerebbero? E quanto per il 100% tra meno di 30 anni? Anche qui, ognuno si senta libero di farsi due conti.
E per l’idrogeno? Per quello “verde”, cioè a emissioni zero di carbonio, non c’è nulla da fare, l’unica strada seria è sempre il nucleare, proprio per il suo indubbio vantaggio in termini di costo/efficacia.
E i reattori nucleari non esplodono come bombe, come taluni potrebbero credere. Il combustibile non è sufficientemente arricchito. Cancelliamo questa paura irrazionale.
È evidente che non si andrà da nessuna parte senza il nucleare, mettiamocelo in testa. Chi dice il contrario e fa gruppo con i “no a tutto”, è disinformato, è soggetto in buona fede a gruppi di pressione irragionevoli oppure, peggio, mente.
Pensare male è peccato ma, come ha affermato in un suo scritto un ambientalista con il cervello, Michael Shellenberger, “oggi gli attivisti per il clima devono attaccare il gas naturale e l’energia nucleare, le fonti con meno emissioni di carbonio, per poter lanciare l’allarme sul pericolo di un’apocalisse climatica …”.
Grido di allarme, penso io, che consente a queste lobby di sbarcare il lunario e che fa da utile eco ai sempre allarmistici appelli dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) delle Nazioni Unite. Come l’ultimo allarme di poche settimane fa, in cui si dice che “… il peggio deve ancora avvenire …” e che molti effetti del riscaldamento globale “… sono irreversibili per i prossimi secoli e millenni …”. Irreversibili? E allora perché preoccuparsi, mi verrebbe da dire!
Ma, per costruire una centrale occorrono, dice Scaroni, tra i 7 e i 10 anni. In Italia riusciremmo mai a costruire per tempo, per il 2030, tanti reattori quanti necessari per garantirci almeno, diciamo, una quindicina di GW? E poi tanti altri per arrivare pronti al 2050? Non ci rimane quindi molto tempo. Anzi, siamo già in ritardo.
Pertanto, mentre l’eolico e il solare non potranno essere sufficienti con tutta la buona volontà, anche il decidersi, pur in tempi brevi, sull’approccio nucleare potrebbe non esserlo. Il tempo è tiranno, come visto.
E quindi, siamo davvero convinti che sarà così facile rinunciare al petrolio e illuderci, allo stesso tempo, che la corsa ai metalli indispensabili per l’industria dell’elettrico non scatenino altre competizioni e persino conflitti? Certo, la fine dell’uso dei fossili potrebbe portarci a credere che “la storia sia arrivata alla fine”, parafrasando Fukuyama, e che il mondo sia finalmente liberato dai veleni.
Ma è così? Temo di no, purtroppo.
E poi, di quei metalli indispensabili ne avremmo a sufficienza?
Materiali come litio, cobalto, rame, nichel e le terre rare non durano all’infinito, magari lo fossero. E, in aggiunta, quasi tutti più rari dello stesso petrolio. Conseguentemente, potenziali cause di conflitti.
Non solo. L’IEA (International Energy Agency) mette in guardia sulla qualità dei materiali, che diminuisce man mano che li si scava. Come per il rame cileno, ad esempio, la cui qualità negli ultimi 15 anni è calata del 15%.
Ricavare metallo da minerali di qualità inferiore, riporta l’agenzia, richiede più energia con ripercussioni sui costi di produzione e, ovviamente, sulle emissioni.
La tecnologia del futuro prevede comunque un’ampia disponibilità di tali materiali. E la migrazione all’elettrico si può facilmente comprendere quanto possa richiederne non solo nell’utilizzo ma anche nella produzione di energia.
Si vada a vedere come sono fatte le batterie per le auto, per esempio, oppure le celle del FV o le turbine eoliche per farsi un’idea iniziale.
Sempre l’IEA avverte che “i pannelli solari, le turbine eoliche e le auto elettriche saranno sempre più usati e i mercati in rapida ascesa dei minerali potrebbero essere soggetti a volatilità dei prezzi, influenze geopolitiche e interruzioni delle forniture”.
Occorre tener conto, inoltre, che per alcuni di questi materiali, la produzione si concentra in pochissimi Paesi.
L’IEA, infatti, ci dice che un solo paese oggi, la Repubblica Democratica del Congo (RDC), produce più dell’80% del cobalto mondiale, sovente il “sottoprodotto” dell’estrazione di rame (la famosa copper belt africana) e nichel.
Dalla Cina viene il 70% delle terre rare, 17 elementi difficili da estrarre ma fondamentali per i motori elettrici.
E Pechino, inoltre, detiene buona parte delle attività mondiali di raffinazione e lavorazione di metalli estratti altrove, come il cobalto, il nichel, il litio e le stesse terre rare.
Ma terre rare estratte sono anche il 12% dall’Australia e solo l’8% dagli USA.
Gran parte del litio mondiale proviene dall’Australia, con il 58%, un altro 20% dal Cile e un 11% dalla Cina.
Inoltre, quattro Paesi, Argentina, Cile, RDC e Perù producono la maggior parte del rame.
Parliamo, pertanto, di una concentrazione “geografica” di gran lunga maggiore rispetto a quella degli stessi idrocarburi, per i quali era pur possibile ipotizzare delle diversificazioni negli approvvigionamenti.
E la Cina soprattutto, grazie alle sue proiezioni strategiche in Africa e nell’America Meridionale, rappresenta un ostacolo difficile da eludere e superare in questo mercato, tanto che non possiamo non tenere in conto l’acutizzarsi dell’attuale conflittualità nell’immediato futuro.
Va da sé che per le compagnie non sarà facile impegnarsi finanziariamente a cuor leggero laddove il quadro giuridico sia traballante.
Ad ogni modo, sta già accadendo, la quota di mercato di veicoli elettrici sta crescendo molto velocemente e le “minacce” europee spingono lungo questa direzione. Con un’impennata, immagino, della domanda nel breve e medio termini.
In particolare, le compagnie automobilistiche appaiono già in affanno.
Pertanto, come anticipato, la disponibilità reale di questi materiali potrebbe rivelarsi anche ben al di sotto di quanto servirebbe per tutto “l’indotto dell’elettrico”, anche a causa delle complicate e antieconomiche operazioni di riciclaggio che spingono i produttori, per ora, a preferire l’acquisto di materiali nuovi.
In conclusione, stiamo vivendo una fase molto critica, più di quanto gli slogan ideologizzati del circolo europeo possano farci credere.
Ammesso che si accetti la fissione o che “esploda la fusione”, rimane comunque il problema dell’accaparrarsi questi materiali “speciali”.
Basterà la politica e il libero scambio? In secondo luogo, ammesso che si arrivi a una pacifica distribuzione degli stessi, basteranno a soddisfare il mercato, laddove nel frattempo non si sia riusciti a trovare dei “surrogati”?
E se il mercato non riuscirà, come temo, a star dietro alla domanda di “tutto elettrico”, non saremmo costretti per forza di cose ad utilizzare ancora i fossili? Io dico di sì.
I tempi fissati dalla Von der Lyen, e promessi anche da Biden, in perfetto stile progressista, che non riesce a distinguere le belle idee dalle buone idee, sono secondo me troppo ristretti per cui, anche se si decidesse in tempi brevi per una forma “economica ed efficiente di energia”, che solo il nucleare può garantire, noi del petrolio e del gas non riusciremo a liberarci ancora per un bel po’ oltre il 2035.
E la geopolitica delle risorse andrà complicandosi ulteriormente, per una nuova stagione di nervosi intrecci conflittuali, se non rimettiamo i piedi per terra.
*Generale di Corpo d’Armata Esercito (Ris)
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