La guerra economica al tempo della pace: Harbulot, Juillet e Carayon smascherano l’illusione francese

Di Giuseppe Gagliano

PARIGI. Il 27 marzo scorso, davanti alla Commissione d’inchiesta sulla reindustrializzazione della Francia, Christian Harbulot, Alain Juillet e Bernard Carayon non si limitano a parlare: lanciano un’accusa che pesa come un macigno.

L’audizione di Christian Harbulot, Alain Juillet e Bernard Carayon

 

La Francia è in guerra – una guerra economica senza carri armati, ma con armi ben più subdole: informazioni, tecnologie, leggi extraterritoriali e dollari.

È un conflitto che non conosce pause né alleati sinceri, e che i tre relatori – un accademico, un ex spia e un politico navigato – descrivono con una chiarezza che fa a pezzi l’ingenuità di un paese aggrappato a un’Europa da cartolina e a un’idea di pace che esiste solo nei manuali di diritto comunitario.

Qui non si tratta di retorica: è un’autopsia di un declino che, se non fermato, ci ridurrà a un’appendice folkloristica del mondo globale.

Christian Harbulot: il punto cieco della potenza e la memoria perduta

Christian Harbulot, mente dietro la Scuola di Guerra Economica, non gira intorno al problema: la Francia ha un buco nero nella sua testa, un “punto cieco” che dura da 40 anni.

Non sappiamo pensare l’economia come strumento di potenza.

Altrove lo fanno da sempre: il Giappone Meiji si salvò dalla colonizzazione occidentale con una guerra economica mascherata da riforme; la Corea del Sud, dopo il 1953, trasformò le macerie in un baluardo contro il Nord comunista; la Cina di Deng Xiaoping ci ha incantati con la “mano tesa verso l’Occidente”, mentre ci svuotava le tasche di tecnologia per superarci – e ci è riuscita, con 37 delle 47 tecnologie chiave globali in mano a Pechino nel 2025. E noi? “Non abbiamo voluto costituire una memoria”, dice Harbulot, e questa amnesia ci lascia nudi di fronte a nemici che non si fanno scrupoli.

Il suo atto d’accusa è feroce: il liberalismo francese, con quel mix di arroganza e candore, ci ha convinti che l’economia sia una questione di mercato, non di sopravvivenza. Errore fatale.

L’affare Alstom, con General Electric che si prende un gioiello industriale mentre noi balbettavamo di concorrenza leale, è solo la punta dell’iceberg.

Harbulot guarda oltre: ci manca la capacità di combattere indirettamente, come fanno gli anglo-sassoni, orchestrando ONG, fondazioni e campagne mediatiche per piegare l’avversario senza sparare un colpo.

Ricorda il caso dei pescatori cinesi armati – altro che barche da pesca, sono avamposti di Pechino che intimoriscono i rivali nelle zone economiche esclusive dell’Indo-Pacifico.

E noi? “Oppponiamo il diritto”, ironizza, ma è un diritto che non regge contro chi gioca sporco.

La sua proposta è radicale: una “cultura ufficiale della guerra economica” che parta dal Presidente della Repubblica e arrivi alla società civile, con 50 enni e 60 enni pronti a manifestare davanti alle Ambasciate di chi ci attacca – che siano i russi a destabilizzare ospedali con hacker o gli americani a succhiarci i dati col Cloud Act.

“O combattiamo o vendiamo cialde su una spiaggia”, conclude. È una provocazione, ma anche un ultimatum: la Francia deve svegliarsi o sparire.

Alain Juillet: l’intelligence zoppa e la cecità strategica

Alain Juillet, con i suoi anni alla DGSE e un passato da alto responsabile dell’Intelligence economica, porta il discorso sul piano operativo, e il verdetto è impietoso:

“Siamo molto indietro”. Non è una lamentela generica: i Servizi francesi, dice, sono un’arma spuntata. Non mancano i soldi – le leggi di programmazione degli ultimi anni hanno pompato risorse nella difesa – né gli uomini, ma la testa.

“Non abbiamo esperti di economia”, denuncia.

Cyber-specialisti, militari, analisti politici sì, ma chi sa leggere un bilancio o anticipare la prossima mossa di un colosso come Huawei? Pochi, troppo pochi.

La priorità ossessiva è stata il terrorismo – sacrosanta, ma non può giustificare la cecità su tutto il resto.

“Non è una questione di mezzi, ma di razionalizzazione”, insiste, e qui colpisce al cuore: lo Stato francese non ha una strategia coerente.

Per Juillet, la guerra economica è una partita a scacchi dove vince chi vede per primo la mossa dell’altro.

Sun Tzu

“Ce lo insegna Sun Tzu da 2500 anni”, ricorda, e gli esempi sono sotto gli occhi di tutti: in Ucraina, senza i satelliti americani che fotografano il fronte a 100 metri, Kiev sarebbe finita.

Le imprese francesi, invece, arrancano perché i Servizi non le coprono.

Sul controllo degli investimenti stranieri, Juillet è ancora più duro: il Decreto Montebourg, rivisto l’ultima volta due anni e mezzo fa, è un “fallimento”.

Gestito da un capo di ufficio a Bercy, manca di visione e incisività.

“Abbiamo rifiutato pochissimo”, nota, e quando lo facciamo, i vincoli imposti agli investitori stranieri – pensate ai 1000 posti promessi e mai creati da General Electric nell’affare Alstom – restano lettera morta per assenza di controlli.

La soluzione? “Passare la palla al primo ministro”, dice, perché solo un coordinamento interministeriale può superare gli interessi di bottega di Bercy.

E poi c’è il financing: SpaceX vola grazie alla NASA, Huawei grazie ai Servizi cinesi, mentre le start-up francesi scappano negli USA o in Cina per mancanza di banche che le sostengano – quelle francesi, dice, “sono le meno prestanti al mondo”. Juillet non offre consolazioni: senza un’intelligence economica all’altezza e un sistema che protegga le sue imprese, la Francia è un pollo da spennare.

Bernard Carayon: il patriottismo economico soffocato dalla miopia

Bernard Carayon, ex deputato del Tarn e autore di rapporti seminali sull’Intelligence economica (2003 e 2006), parla con la passione di chi ha visto il suo paese perdere un’occasione dopo l’altra. “

Non c’è politica industriale senza politica pubblica”, ripete, e il suo “quadrato magico” – industria come motore di ricerca, radici locali, promozione sociale e sovranità tecnologica – è un sogno che la Francia ha lasciato svanire.

La colpa è condivisa: una classe dirigente senza spina dorsale, un’Europa ostaggio di una Commissione che “non ha capito nulla” della guerra economica, e un’ideologia liberale che ci ha venduti al miglior offerente.

Carayon cita la tassonomia UE del 2019, che ha escluso il nucleare dalle energie sostenibili, come esempio di autolesionismo: “Ha spezzato le gambe al nostro financing pubblico”, accusa, mentre i tedeschi ci sabotavano con campagne contro il nucleare francese.

La sua critica più feroce è per l’assenza di una “spinta al vertice dello Stato”.

Chirac? “Non ha fatto nulla”, ammette, pur avendolo sostenuto.

Sarkozy? “Qualcosa, con il Fondo Strategico d’Investimento, ma non abbastanza”.

Il Presidente francese, Emmanuel Macron

Macron? “Sforzi, ma nessuna vera coordinazione”. Sul controllo degli investimenti stranieri,

Carayon è caustico: “Un affare da capi di ufficio”, quando negli USA il CFIUS blocca anche un produttore di biscotti se serve, grazie alla nozione elastica di “sicurezza nazionale”. In Francia, invece, il perimetro strategico – farmaci come Doliprane inclusi solo dopo battaglie – è un puzzle che cambia per decreto e finisce nei tribunali amministrativi, dove “non c’è garanzia di patriottismo”.

La sua proposta è concreta: un fondo strategico da 180-200 miliardi, con Cassa Depositi, Bpifrance e l’Agenzia delle partecipazioni dello Stato, più 100-120 miliardi di risparmio privato raccolti con prestiti a 10 anni e fiscalità decrescente.

È un piano colbertista – lui lo rivendica con orgoglio – contro la miopia di un’Europa che vieta aiuti settoriali e di un establishment che si affida a consulenti anglo-sassoni mentre le sue élite scappano: Barroso a Goldman Sachs, Trichet a Pimco, Breton a Bank of America.

Carayon chiama alla lotta bipartisan – ricorda quando fermò Boeing con 200 deputati da destra a sinistra – ma il suo tono è di chi sa che, senza volontà politica, il patriottismo economico resta un guscio vuoto.

Un filo comune: la Francia al bivio tra resa e riscatto

Harbulot, Juillet e Carayon parlano da angolature diverse – culturale, operativa, politica – ma il loro coro è unisono: la Francia è in ritardo non per scarsità di risorse, ma per mancanza di lucidità.

Harbulot vuole una cultura del combattimento che trasformi i cittadini in guerrieri economici; Juillet un’Intelligence che smetta di inseguire solo terroristi e guardi ai bilanci; Carayon una politica che riprenda il timone dell’economia dalle mani di Bruxelles e dei mercati. Tutti e tre demoliscono il mito degli “amici”: i tedeschi che ci pugnalano sul nucleare, gli americani che ci spiano con il Cloud Act (80% dei dati europei su server USA, ricorda Pierucci altrove), i cinesi che ci superano su 37 tecnologie chiave mentre noi ne abbiamo solo 3. L’Europa? Un’illusione di regole – vedi Siemens salvata con 15 miliardi senza chiedere permesso – che ci lega le mani mentre gli altri giocano senza guanti.

Il loro messaggio è un pugno nello stomaco: la guerra economica è qui, ora.

La Cina domina, gli Stati Uniti usano il dollaro come clava – dall’Inflation Reduction Act al Patriot Act – la Germania fa quello che vuole.

E la Francia? Rischia di diventare un museo di glorie passate, con i suoi 200 miliardi di risparmio privato immobilizzati e le sue start-up che fuggono a Ovest o a Est.

“O combattiamo o vendiamo cialde”, dice Harbulot, e gli altri annuiscono.

Ma il vero scandalo, dopo 20 anni di rapporti e commissioni, è che stiamo ancora qui a parlarne, mentre i nostri rivali – pardon, “alleati” – hanno già deciso il nostro destino.

La domanda non è più se agire, ma quanto ci resta prima che sia troppo tardi.

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