La sfida jihadista e il dilemma delle democrazie occidentali: verso una nuova guerra globale

Di Bruno Di Gioacchino

TEL AVIV. Il 7 ottobre 2023 ha segnato un punto di rottura nell’equilibrio già fragile tra le democrazie occidentali e le entità jihadiste.

Un miliziano di Hamas entra in un Kibbutz il 7 ottobre 2023

L’attacco terroristico lanciato da Hamas contro Israele, con una brutalità che ha scioccato l’opinione pubblica globale, non è stato soltanto un evento bellico: è stato un atto strategico, concepito per innescare una reazione a catena sul piano politico, simbolico e mediatico.

Da quel momento, Gaza non è più solo un territorio conteso, ma il cuore pulsante di una guerra ibrida che mette in discussione i fondamenti stessi della convivenza democratica e della sicurezza internazionale.

La fortissima e letale risposta militare israeliana ha suscitato reazioni contrastanti: solidarietà con Israele da parte di molti Governi occidentali, ma anche crescente pressione mediatica e sociale per fermare l’escalation, soprattutto a causa delle vittime civili palestinesi.

E qui si apre il vero dilemma strategico per le democrazie: come difendersi da un nemico che sfrutta cinicamente i principi su cui esse si fondano?

Il rispetto dei diritti umani, la libertà di stampa, la tutela delle minoranze e la trasparenza istituzionale diventano paradossalmente strumenti che i movimenti jihadisti utilizzano per delegittimare i propri avversari e guadagnare terreno nella battaglia dell’opinione pubblica globale.

La narrativa che descrive le democrazie come “ricattate” dalla minaccia jihadista non è retorica: riflette una realtà politica concreta.

Il timore che operazioni militari troppo incisive contro Hamas o Hezbollah possano provocare attentati nei propri territori ha indotto molte capitali europee e nordamericane ad adottare strategie di contenimento più che di annientamento.

Milizie di Hezbollah

 

Al tempo stesso, l’uso sistematico del dolore palestinese come leva mediatica – a volte autentico, a volte manipolato – consente alla galassia jihadista di prevalere nel conflitto cognitivo: un terreno in cui l’immagine, il simbolo e la narrazione contano più della vittoria militare.

Questa strategia è tutt’altro che improvvisata. Hamas, Hezbollah, l’IRGC iraniano e una rete globale di cellule jihadiste hanno affinato nel tempo una forma di guerra ibrida che combina violenza asimmetrica, propaganda digitale, intimidazione e disinformazione.

Un componente della Brigata Al Qassam (ala militare di Hamas)

L’obiettivo è duplice: da un lato, delegittimare Israele come Stato.

Dall’altro, costringere le democrazie occidentali a una neutralità di fatto, presentata come umanitarismo, ma percepita come debolezza.

Lo scenario peggiore, paventato da alcuni analisti, è quello di una “stretta finale”: un attacco coordinato su più fronti, che coinvolga Israele e, simultaneamente, obiettivi civili e simbolici in Europa o Nord America.

In tale eventualità, la postura delle democrazie potrebbe cambiare radicalmente.

Alcuni segnali di questa transizione sono già percepibili

  • Reazioni militari più risolute, anche attraverso operazioni preventive in Paesi terzi che ospitano o tollerano infrastrutture jihadiste.
  • Irrigidimento normativo, con leggi antiterrorismo più incisive, che riducano le aree grigie giuridiche spesso sfruttate dai radicalizzati
  • Cambio di narrazione pubblica, in cui la minaccia jihadista non sia più minimizzata come conseguenza di errori occidentali, ma riconosciuta come fenomeno strategico e ideologico, potenzialmente esistenziale.

In questo quadro, è verosimile che le democrazie continueranno a rispettare formalmente i diritti civili e le convenzioni internazionali, ma al tempo stesso evolveranno verso una postura più securitaria e meno ingenua.

Si prospetta un ritorno al paradigma della sicurezza nazionale tipico del post-11 settembre, con una maggiore consapevolezza della dimensione simbolica della guerra.

Gli attacchi di New York dell’11 settembre 2001

Le implicazioni di tale mutamento sono profonde.

Potrebbero includere un inasprimento dei controlli interni, restrizioni temporanee alle libertà civili, un incremento della sorveglianza digitale, ma anche tensioni sociali tra comunità religiose e culturali.

Sul piano geopolitico, si prevede un raffreddamento dei rapporti con gli Stati che supportano direttamente o indirettamente le reti jihadiste, in particolare Iran, Qatar e alcune realtà africane.

La sfida jihadista non è solo una minaccia militare: è una crisi dei paradigmi.

Essa costringe le democrazie a ripensare se stesse, a scegliere tra vulnerabilità e sicurezza, tra idealismo e realismo.

Ma è proprio in questa tensione che si gioca il futuro dell’Occidente: nella capacità di difendersi senza tradire i valori che lo definiscono.

Se le democrazie riusciranno in questo difficile equilibrio, la guerra ibrida promossa dalla Jihad islamica potrà essere contenuta e, forse, disinnescata.

Se invece prevarranno la paura o l’indifferenza, si aprirà un ciclo lungo e doloroso di conflitto interno ed esterno, in cui la posta in gioco sarà nientemeno che la sopravvivenza del modello democratico-liberale.

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