L’Alleanza Atlantica ha esaurito il compito per la quale era stata fondata

Di Vincenzo Santo*

La NATO non mi convince più e credo che non dovrebbe convincere più i nostri politici, così come tutti i cittadini. Molto è cambiato da quando la missione comune è venuta meno con la dissoluzione dell’Unione Sovietica.

I thinks it’s important as a reference document but it’s also a way for NATO to show transparency because as you know transparency is important for the Alliance, it’s important to be able to tell the close to 1 billion people we protect what we are doing and this is covered in this Annual Report”. Così ha iniziato la conferenza stampa Jens Stoltenberg, l’attuale Segretario Generale della NATO, nel presentare il suo nuovo Annual Report(1). Le parole people e citizens compaiono molte volte tanto nell’attuale rapporto quanto in quello precedente, ma ora viene privilegiato di qualche misura il citizens.

C’è una ragione semplicissima, secondo me. Citizens è più vicina appunto ai cittadini, ha maggiore presa, accomuna, rende l’organizzazione un qualcosa più alla portata della coscienza, dei sentimenti, della voglia di protezione della gente. É meno neutra, cerca di coinvolgere tutti ma, soprattutto, quelli più lontani dalla supposta potenziale minaccia, sulla quale tornerò dopo. Del resto, un’indagine Pew Research Center, ripresa da Bruce Stokes in un articolo su Foreign Policy(2), ha rilevato che tra le nove maggiori nazioni NATO, quelle che assieme rappresentano la fetta maggiore della spesa militare in ambito Alleanza, solo USA e Canada vantano le più alte percentuali di coloro che difenderebbero un alleato, in caso di aggressione russa, ritenendo vincolante l’articolo 5 del Trattato. Quindi, per recuperare terreno, è meglio parlare di cittadini!

La ricerca offre altri spunti interessanti ma, nell’insieme, dovrebbe far ragionare sulla reale condizione dell’organizzazione, non solo sulla presa che essa ancora esercita. È pur vero che spesso vox populi diviene vox dei a convenienza, ma sarebbe ora di pensarci seriamente, andare ancora a traino in politica estera può essere pericoloso. E la NATO è ormai divenuto sempre più politica estera che uno strumento esclusivamente politico-militare. Quando, nel documento, viene specificato che “… the role of the Military Committee is to discuss, deliberate and act on matters of military importance, working in the best interest of the Alliance, while at the same time representing national perspectives and positions …”, mi viene da chiedere quale sia l’interesse richiamato e come tale interesse riesca ad armonizzarsi con le posizioni di ben 28 nazioni, quindi con i singoli rispettivi interessi. Risposta: è impossibile! La conoscenza delle cose umane dovrebbe suggerirci che gli aggiustamenti e gli adeguamenti, spesso favoriti da forzati compromessi, ma anche da pigra e superficiale accondiscendenza, deformando le originarie finalità, non fanno altro che allungare l’agonia di un sodalizio. Gli interessi dei singoli iniziano a divergere, mentre la coesione si allenta, diviene inconsistente, solo formale. Un’amicizia di cui rimane il solo nome, che ha fatto il suo tempo, svuotata dei valori e indebolita nei legami. Insomma, di certo una facciata bella e ben colorata, ma solo controventata come negli allestimenti scenici.

Gli Stati, del resto, vivono le stesse emozioni degli uomini e reagiscono nella stessa maniera. Sono quindi sensibili alla grande variabilità dei mutamenti ambientali, sociali, ecc., mossi da interessi che proprio la stessa condizione umana individua e impone. Allora, la nobiltà degli ideali associativi di un tempo fa presto a svanire dinanzi a differenti sensibilità, dettate da nuove opportunità e convenienze, i due principali ingredienti di una seria politica estera. Machiavelli docet. A meno di riuscire a far riemergere vecchie paure e a reinventarsi un nuovo vecchio nemico.

La realtà, infatti, è che la NATO, oggi molto più di ieri, asseconda gli interessi di un’unica realtà, gli USA, che ci piaccia o no. Ma che piaccia anche a Trump o no, la loro politica credo non cambierà. E le progettualità di Stoltenberg, quali cultivationg partnership, Projecting Stability nonché il paranoico Building Integrity, così biblicamente snocciolate nelle pagine del rapporto, non fanno altro che confermare il tentativo goffo di mascherare, ancora una volta con le troppe parole (i rapporti prima di quello del 2015 erano intorno alle venti pagine, ora sfioriamo le 130. Pazzesco!), gli interessi di uno solo. La NATO servirà sempre più agli USA per giustificare il dove e il quando delle loro intenzioni, garantendosi legittimità multilaterale.

Un’altra parola chiave è trasparenza. Al riguardo, un tale rapporto, oltre a riportare quanto le nazioni spendano (c’è un intero annesso di quasi 20 pagine che proietta le cifre in tutte le salse), o non spendano, dovrebbe fare luce, in modo più dettagliato di quanto riportato con un paio di grafici a torta, su quanto e per cosa la NATO ha speso, senza lasciare questa noiosa operazione al lettore. Ancora più in dettaglio, infatti, sarebbe importante conoscere quanto speso nell’ambito del NATO Security Investment Programme (NSIP), circa 700 milioni di euro, e cosa si è fatto di quel 24% di 1,2 miliardi di euro destinati a Alliance Operations and Missions, circa 350 milioni ulteriori (spesi anche per soddisfare i molti Crisis Urgent Requirements). Questa trasparenza dovrebbe dirci qualcosa in più di questo miliardo di Euro, non certo bruscolini. E, magari, far capire quali compagnie ne abbiano beneficiato e, quindi, in quali paesi siano rientrati. Sono certo che basterebbe questo, in piena trasparenza, per far scoprire ai citizens, anche a quelli italiani. qualcosa in più. Se si insiste, infatti, sull’ormai trito e ritrito 2% del PIL quale riferimento quasi obbligatorio di spesa per i membri, si dovrebbe iniziare a specificare di più sulle “proprie spese”.

Eccoci quindi al famoso 2%? Domanda: per fare cosa? Cioè, quali sono gli obiettivi e con quali interessi questi obiettivi sono in sistema per motivare e persino giustificare un tale esborso? Se è vero che mezzi e scopi devono bilanciarsi, c’è qualcosa che manca. Appunto gli scopi, gli ends. Quel che manca scaturisce da un’endemica confusione di ruoli.

In breve, stare nella NATO è giustificato fintanto lo starci soddisfi le ambizioni di un Paese, quando ciò non si verificasse più sarebbe meglio uscirne, pena il rischio, soprattutto oggi, di rimanere coinvolti in ambiti cui non si appartiene. Sbagliato dire, come molti politici fanno, che far parte della NATO è un interesse nazionale. Essa deve servire solo per raggiungere o mantenere un obiettivo. È un veicolo utile a salvaguardare gli interessi nazionali, insomma, non quelli di altri.

La NATO, in realtà, può avere molti interessi ma essi sono rappresentati esclusivamente dagli end-states che gli stati membri concordano nel definire per le operazioni in cui i contingenti NATO operano. Qualcosa circoscritto nel tempo e nello spazio, il cui conseguimento avviene con modalità militari. Nient’altro di più. Ma la NATO è anche un mercato che offre importanti possibilità di guadagno. Pertanto, non è che quando Trump o Tillerson insistono sul discorso del 2%, è perché a maggiori impegni economici corrispondono maggiori guadagni per l’industria degli armamenti, diciamo quella americana? La spesa militare nell’Europa dell’Est è cresciuta tanto da far accrescere i budget della difesa di circa il 13% in media dal 2014, sarebbe interessante esaminarne i dettagli. Ma non oggi.

Le decisioni e le promesse prese e date a Varsavia lo scorso anno hanno posto l’accento sulla necessità di assicurare i Paesi dell’Est europeo. Ma qui viene fuori un primo dubbio. L’articolo 3 del Trattato dice che “In order more effectively to achieve the objectives of this Treaty, the Parties, separately and jointly, by means of continuous and effective self-help and mutual aid, will maintain and develop their individual and collective capacity to resist armed attack”. Quindi, mi chiedo come mai si siano fatti entrare nell’Alleanza Paesi che non hanno mai avuto gli assetti per soddisfare il requisito espresso nell’articolo, tanto da costringerci, per esempio, a garantire l’air policing e, oggi, a schierare truppe di terra. Parlo dei Paesi baltici ma anche dell’Albania. Mi chiedo anche come mai dal loro ingresso essi non abbiano mai provveduto a costruirsi tali capacità. Purtroppo, la volontà di isolare ancora di più la Russia unitamente alla sciagurata e idealistica politica degli allargamenti era una ragione preminente sui requisiti politico-militari. E sarà la medesima cosa con l’annessione a breve anche del Montenegro.

Qui, vale la pena spendere alcune parole sul concetto di readiness e sul Readiness Action Plan. La parola readiness compare almeno una trentina di volte mentre responsiveness, pur presente nell’edizione scorsa, è sparita. Perché è sparita? Perché si è dovuto dare enfasi alla prontezza in quanto in termini di risposta si era e si è carenti, nonostante tutte le misure che dal Galles e da Varsavia si erano concordate. La capacità di risposta, che è infatti la capacità di iniziare a difendersi, attendendo che gli alleati vengano a darti una mano, non esiste più. Perché ci sia è necessario essere già lì, dove c’è la minaccia.

Del resto, anche quel pozzo di scienza del RAND, dopo uno studio che pare sia stato molto approfondito, ha consacrato l’evidenza, chiara a chiunque dinanzi a una carta geografica, che l’Armata Rossa impiegherebbe poche ore per riprendersi i Baltici. Poche ore oggi, come poche ore anche ieri. Geni! Con la corrente postura, la NATO non è in grado di difendere con successo i membri più esposti ad un attacco russo. Il war gaming da loro condotto ha confermato che in 3 giorni o meno i russi sarebbero alle porte di Tallinn o Riga e le truppe baltiche, pur appoggiate dall’airpower americano, non sarebbero in grado di fermarle. Che scoperta!

Servirebbero non meno di 7 brigate, di cui almeno 3 corazzate, permanentemente schierate in area, con relativo supporto aereo e di artiglieria, per costituire un efficace deterrente. Ma, appunto, permanentemente schierate in area. Pensare di surrogare con la readiness la responsiveness è pazzia pura, con o senza “punte di lancia”, con o senza la NATO Response Force, con o senza la VJTF. Per confrontarsi seriamente con un ipotetico attacco russo, convenzionale ma tendente all’ibrido come piace dire, bisogna essere già lì in trincea. E in tanti.

Il RAND, infatti, ha anche sottolineato che né gli alleati della NATO né tantomeno gli Stati Uniti sarebbero sufficientemente preparati a supportare le promesse e le parole di Obama del settembre 2014: “We’ll be here for Estonia. We will be here for Latvia. We will be here for Lithuania. You lost your independence once before. With NATO, you will never lose it again”. Semplicemente, tanto con l’European Reassurance Initiative americano né tantomeno con il Readiness Action Plan ci sarebbero forze sufficienti in posto per ipotizzare una qualche tenuta difensiva in caso di attacco russo. L’arrivo dei rinforzi americani, pur i primi ad arrivare da quelle parti, rendendo inutile qualsiasi organizzazione di comando e controllo NATO, avverrebbe mentre i russi fanno già il bagno in quelle acque.

Con il ruotare qualche brigata, con lo schierare a rotazione battle groups multinazionali, dalla molto discutibile efficacia in caso di scontro armato, per ragioni che solo chi ha fatto il soldato può facilmente comprendere, o inventandosi tante esercitazioni a ridosso dei confini con la Russia o con la Bielorussia, o altrove nell’est, noi occidentali potremmo forse e soltanto ripulire le nostre coscienze da un azzardato idealistico allargamento, ma non riusciremo a esprimere alcuna deterrenza, rimanendo nel campo della sola dissuasione. Cosa che c’era già prima. E anche prima Vladimir Putin sapeva perfettamente che attaccare un Paese NATO significa mettere in moto un meccanismo pericoloso. Perché dovrebbe farlo? Ah, è vero c’è l’hybrid. Ci torno dopo.

Far ruotare qualche battaglione oppure dimostrarsi ossessionati per il Giuk gap o per il Suwalki gap non cambia il livello del rischio. Questa prontezza non costituisce deterrenza. E la minaccia? E poi che cosa si intende per minaccia? Nel definirla, non basta considerare le capacità, in questo caso militari o paramilitari di uno Stato, ma è necessario avere contezza della sua volontà di usarle contro di noi. Ciò definisce la minaccia, non altro. Né è sensato usare la definizione di potential threat, come scritto nel rapporto. Essa o esiste o non esiste, non può essere potenziale. Il rischio invece può esserlo. Per una volta, la logica binaria ha preminenza.

In poche parole, la readiness da sola non assicura deterrenza e la presenza di poche unità a rotazione (Readiness Action Plan) neanche, né si fa un passo in più rispetto alla dissuasione, che c’era anche prima. E poi perché? Qual è la minaccia?

Veniamo alla hybrid war. Non mi dilungherò, ma il mio intento è quello di dimostrare come molto spesso per il fatto che un qualcuno tiri fuori un’idea ci si debba per forza elaborare sopra. Qualche vecchio saggio ebbe a dire che la migliore manifestazione di intelligenza è capire quando bisogna smettere di pensare. Purtroppo non è quasi mai così. Ecco cosa dice il NATO Defence College in un lungo documento (ben 370 e più pagine)(3): “… in the absence of an official and reliable definition of hybrid warfare, one can agree that the key word is indeed hybrid: the true combination and blending of various means of conflict, both regular and unconventional, dominating the physical and psychological battlefield with information and media control, using every possible means to reduce one’s exposure. This may include the necessity of deploying hard military power, with the goal of breaking an opponent’s will and eliminating the population’s support for its legal authorities”. Non ci vuole un corso di storia militare per arrivare alla conclusione che si tratta di aver scoperto, come si dice, l’acqua calda.

Faccio grazia dei contenuti della EU-NATO joint declaration(4) adottata nel luglio 2016 ai margini del Summit di Varsavia. Ma per comprendere meglio come determinati organismi approfittino della pazienza dei cittadini, appunto citizens, è utile dare uno sguardo anche al documento prodotto dall’European Parlamentary Research Service(5), documento che, come si dice, è fresco di studi. Scaturisce dalla suddetta joint declaration e, pertanto, non è avulso dal contesto NATO. Ciò che soprattutto mi ha colpito e suggerito di smetterne la lettura è quanto segue: “… Taking into account different levels of intensity of a threat and the intentions of actors involved, it is useful to introduce a conceptual distinction between hybrid threat, hybrid conflict and hybrid war”. A voi l’onere di andare oltre, a me la responsabilità di decretarne l’imbecillità. Questa pretesa concettuale ha decretato secondo me il superamento di qualsiasi buon senso. Francamente, sulla medesima linea si pone l’architettura del cyber, sul quale non intendo ugualmente perdermi in considerazioni se non quelle legate al fatto che, forse per un influsso andreottiano che mi segue da anni, quando sento parlare di cyber, mi vengono in mente le tante compagnie antivirus, soprattutto di provenienza nord americana. Non nego il problema, sia chiaro. Sono preoccupato dall’enfasi che se ne fa. Spero che a nessuno venga in mente di associare un attacco informatico all’articolo 5 del Trattato del Nord Atlantico.

In conclusione, ancora una volta ci troviamo dinanzi a un documento di facciata, antistorico. Ma, per carità, belle fotografie. La NATO non è in crisi, semplicemente ha esaurito il suo compito. E i tentativi di farsi notare sul palcoscenico mondiale la rendono il più delle volte patetica e ridicoli i suoi principali attori, a partire da Stoltenberg. La propaganda fa ancora il suo lavoro ma è assolutamente necessario che i cittadini, i citizens, leggano questi documenti e capiscano che non sono complessi se non li comprendono, ma che se non li comprendono è perché il più delle volte ingannano con giri di parole. I citizens è bene che inizino a guardare bene dove si sta andando. Io credo che Giulio Sapelli(6) abbia ragione nel ritenere che quello che si affermerà sarà l’inizio del ritorno planetario alla ragion di stato, ossia alla pace di Westfalia. Per me significa che in un mondo in cui la globalizzazione impone spesso traiettorie divergenti, altre perdite di sovranità ci imporrebbero ulteriori costi inaccettabili. Per sola cieca fedeltà, potremmo essere costretti a seguire interessi e, peggio, bizzarrie che non ci appartengono, innamorandoci di concetti vuoti, il più delle volte improntati a cieco idealismo. Cioè quando c’è tantissima gente, là dove sarebbe meglio che non ci fosse, che non sa capire … quando è ora di smettere di pensare.

* Generale C.A. (Riserva)

6() Un mondo nuovo. La rivoluzione di Trumpe i suoi effetti globali (feb. 2017) – Edizioni Guerini

 

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