Di Giuseppe Gagliano
BEIRUT. Nel 2024 il confine tra Israele e Libano è diventato teatro di un conflitto esteso, innescato dalla guerra tra Israele e Hamas scoppiata nell’ottobre 2023 e dal coinvolgimento di Hezbollah in solidarietà ai palestinesi.
Dopo oltre un anno di ostilità, con migliaia di vittime e di pesanti distruzioni su entrambi i lati, a fine novembre 2024 si è giunti a un cessate il fuoco mediato da Stati Uniti e Francia, approvato dal Governo israeliano e dalle autorità libanesi.
L’accordo prevedeva il ritiro graduale delle forze israeliane dal Libano meridionale entro 60 giorni e il simultaneo dispiegamento di 5. mila soldati dell’Esercito libanese, supportati dai caschi blu dell’UNIFIL, per garantire che Hezbollah non ricostituisse le sue basi al confine.

Militari della Lebanese Armed Force (LAF)
In cambio, Hezbollah (milizia sciita libanese appoggiata dall’Iran) avrebbe dovuto ritirare i propri combattenti a Nord del fiume Litani e smantellare l’infrastruttura militare rimasta nel Sud.

Milizie di Hezbollah
Tuttavia, allo scadere del termine di ritiro (inizialmente fine gennaio, poi prorogato al 18 febbraio scorso), Israele ha deciso unilateralmente di mantenere una presenza militare in territorio libanese.
ll ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, ha annunciato che l’IDF (Forze di Difesa Israeliane) resterà in una “zona cuscinetto” nel Libano meridionale a tempo indeterminato, dichiarando di aver ricevuto il “via libera” degli Stati Uniti per questa permanenza oltre i termini previsti.

l ministro della Difesa israeliano, Israel Katz,
Di seguito analizzeremo le intenzioni strategiche di Israele riguardo a tale presenza militare prolungata, considerando motivazioni e obiettivi di Israele, la posizione ufficiale israeliana sulla zona cuscinetto, le implicazioni per Hezbollah e il Libano, il ruolo degli attori internazionali (USA, Francia, ONU, Iran), l’impatto sulla stabilità regionale e le relazioni di Israele con i Paesi arabi, nonché le conseguenze militari e le dinamiche sul campo (operazioni di sicurezza e reazioni di Hezbollah).
Motivazioni di Israele per una presenza a tempo indeterminato in Libano
Le ragioni che spingono Israele a mantenere truppe nel Sud del Libano a tempo indeterminato sono essenzialmente legate alla sicurezza nazionale e alla lezione appresa dai conflitti recenti.
Gli eventi del 7 ottobre 2023 – l’attacco di Hamas dalla Striscia di Gaza e la successiva apertura di un fronte a Nord con Hezbollah – hanno convinto la leadership israeliana che non è più accettabile tollerare la presenza di milizie ostili pesantemente armate a ridosso dei propri confini. In altre parole, Israele teme che, se Hezbollah rimanesse libero di operare vicino alla frontiera libanese, potrebbe preparare un attacco sorpresa devastante in futuro, analogamente a quanto fatto da Hamas dal territorio di Gaza.

Miliziani di Hamas
Questa percezione di una minaccia esistenziale imminente spinge Israele a creare una fascia di sicurezza che tenga i combattenti nemici a distanza dalle comunità israeliane di confine.
Un ulteriore fattore è il precedente storico del 2006.
Dopo la guerra del Libano di quell’anno, la Risoluzione ONU 1701 stabilì che Hezbollah dovesse essere disarmato e che nessun combattente armato fosse presente a Sud del fiume Litani.
In pratica ciò non è mai avvenuto: negli anni successivi Hezbollah ha ricostruito e ampliato il suo arsenale nel Sud (fino a disporre di circa 150 mila razzi prima del conflitto del 2024), mentre l’Esercito libanese e la comunità internazionale non sono riusciti a impedire queste violazioni.
Dal punto di vista israeliano, quella opportunità mancata di garantire un Libano meridionale sgombro da forze ostili ha portato all’attuale escalation.
Pertanto, Israele vuole evitare di “ripetere il 2006” insistendo su misure più forti e controlli diretti sul territorio, invece di affidarsi unicamente a impegni sulla carta.
Un commentatore ha riassunto il nuovo approccio con la frase “eravamo diventati dipendenti dalla calma”, criticando la passività di Israele negli anni post-2006: ora la società israeliana chiede un atteggiamento più preventivo e risoluto di fronte alle minacce, prima che diventino catastrofiche.
La pressione dell’opinione pubblica e delle comunità locali israeliane è un ulteriore elemento.
La popolazione del Nord Israele ha sofferto pesantemente durante il conflitto con Hezbollah: circa 60 mila civili israeliani sono stati evacuati dalle zone di frontiera a causa dei continui lanci di razzi e degli scontri.
I sindaci e i leader locali di Galilea e Alta Galilea hanno chiesto a gran voce al Governo di istituire una zona cuscinetto spopolata sul lato libanese del confine, sostenendo che i residenti non si sentiranno al sicuro a tornare nelle proprie case finché ci sarà la possibilità che militanti di Hezbollah si annidino nei villaggi di frontiera pronti a lanciare attacchi.

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu
Questa pressione interna ha dato ampio “leverage” negoziale al Governo israeliano durante le trattative del cessate il fuoco, consentendogli di pretendere garanzie aggiuntive.
In effetti, i termini finali dell’accordo (seppur non formalizzati pubblicamente in ogni dettaglio) hanno tenuto conto di tali timori: Israele ha ottenuto di poter mantenere avamposti sul terreno finché non sarà certo che Hezbollah non possa riprendere posizione.
In sintesi, la strategia israeliana risponde a tre obiettivi principali:
1) creare una barriera di sicurezza fisica che tenga Hezbollah lontano dal confine immediato, proteggendo così i cittadini israeliani del Nord
2) esercitare pressione diretta su Hezbollah e sul Libano affinché rispettino gli impegni (ritiro dei combattenti, nessun riarmo nel Sud), evitando di affidarsi ciecamente a forze terze
3) inviare un messaggio di deterrenza regionale a Iran e altri attori ostili: Israele dimostra che, dopo aver subito un attacco a sorpresa devastante, non tornerà allo status quo precedente ma manterrà il controllo del territorio finché la minaccia non sarà neutralizzata.
Come ha dichiarato Israel Katz, la permanenza israeliana non sarà legata a una scadenza temporale arbitraria ma “dipenderà dalla situazione” sul campo – in altre parole, Israele ritirerà le truppe solo quando giudicherà ristabilita la sicurezza, e non prima.
Proprio Katz avrebbe convinto gli Stati Uniti che, allo stato attuale, l’Esercito libanese non è abbastanza efficace da impedire a Hezbollah di ritornare nel Sud e preparare nuovi attacchi, giustificando così la necessità di una presenza prolungata dell’IDF.
Questo indica l’intenzione strategica di guadagnare tempo per assicurare che le condizioni sul terreno cambino a favore della sicurezza di Israele, anche se ciò significa un impegno militare indefinito oltre confine.
Posizione del Governo israeliano e dell’IDF sulla “zona cuscinetto”

Forze dell’IDF in azione
Ufficialmente, il Governo israeliano presenta la zona cuscinetto nel Libano meridionale come una misura difensiva temporanea ma necessaria.
In realtà non è stata fissata alcuna data di fine: le forze israeliane resteranno sul posto sine die, fino al raggiungimento di condizioni soddisfacenti (dal punto di vista di Israele) in termini di sicurezza.
Il ministro della Difesa Katz, durante una conferenza a febbraio scorso, ha ribadito che Israele manterrà le posizioni in Libano “a tempo indeterminato”, sottolineando che la permanenza delle truppe è «situation-dependent, not time-dependent», ovvero legata all’evoluzione della situazione di sicurezza e non a una scadenza temporale prestabilita.
Questa affermazione riassume bene l’orientamento strategico di Israele: la zona cuscinetto sarà smantellata solo se e quando Hezbollah non rappresenterà più una minaccia immediata al confine.
Nei fatti, dal 18 febbraio (data di scadenza dell’implementazione del cessate il fuoco) l’IDF ha ritirato le proprie unità da tutti i centri abitati di confine occupati durante la guerra – località come Yaroun, Maroun al-Ras, Bleda, Meiss el-Jabal, Hula, Markaba, Odaisseh, Kfar Kila e Wazzani sono state evacuate dalle forze israeliane nei tempi previsti.

Un Lince italiano della missione UNIFIL
Questo ritiro dai villaggi è avvenuto in coordinamento con una commissione di monitoraggio guidata dagli Stati Uniti e con la missione UNIFIL, che hanno sovrinteso al passaggio di consegne.
Subito dopo, contingenti dell’Esercito libanese e caschi blu ONU sono entrati in queste zone “liberate” per bonificare l’area (rimozione di barriere di terra e ordigni inesplosi) e per impedire vuoti di sicurezza.
Israele ha dunque rispettato in larga parte l’accordo sul ritiro, ma ha fatto esplicita eccezione per cinque siti strategici lungo la Linea Blu (la linea di demarcazione ONU tra Israele e Libano).
In questi cinque avamposti – colline o posizioni sopraelevate cruciali per controllare il territorio circostante – rimane il presidio israeliano.
Katz ha dichiarato il 18 febbraio che “a partire da oggi, le IDF rimarranno in una zona cuscinetto in Libano in cinque avamposti strategici” e continueranno a far rispettare con la forza la tregua.
Ciò conferma la volontà di Israele di considerare quei cinque punti come non negoziabili nel breve termine, una sorta di rete di osservazione avanzata e deterrenza.
La giustificazione ufficiale fornita da Gerusalemme è duplice.
Da un lato, tali posizioni servono a vigilare sul rispetto dell’accordo da parte di Hezbollah: l’IDF le userà per monitorare che i miliziani non ritornino furtivamente a Sud del Litani e per intervenire immediatamente in caso di violazioni.
“Le forze israeliane faranno rispettare con la forza l’accordo di cessate il fuoco in Libano e agiranno contro qualsiasi minaccia di Hezbollah”, ha dichiarato Katz, mettendo in guardia che ogni violazione da parte di Hezbollah sarà repressa “senza compromessi”.
Dall’altro lato, Israele sostiene che queste posizioni sono un mezzo di pressione affinché l’altra parte ottemperi pienamente ai suoi obblighi: il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar ha definito gli avamposti come “alture strategiche necessarie per la nostra sicurezza“, precisando però che la presenza israeliana è concepita come “temporanea“ e sarà mantenuta solo fino a quando “il Libano non implementerà completamente la sua parte dell’accordo”.
In sostanza, Sa’ar indica che Israele sarebbe disposto a ritirarsi da quei punti solo se il Governo libanese e l’UNIFIL riusciranno davvero a tenere Hezbollah lontano dal confine e a disarmarlo nell’area meridionale.
Questo linguaggio diplomatico (“temporaneamente, fino all’implementazione libanese“) serve anche a mitigare le critiche internazionali, presentando Israele non come un occupante permanente ma come un attore che rispetterà gli accordi quando l’altra parte farà lo stesso.
Dal punto di vista militare, l’IDF considera la zona cuscinetto come un’estensione difensiva del proprio territorio.
Nei cinque avamposti rimangono unità all’incirca di livello compagnia (100-150 soldati ciascuna), quindi in totale alcune centinaia di soldati in territorio libanese.
Questo è un numero relativamente ridotto, pensato per presidiare il terreno senza impegnare troppi uomini su posizione fissa vulnerabile.
Tuttavia, va notato che alle spalle di queste compagnie vi è uno schieramento ben più ampio di truppe israeliane immediatamente a ridosso del confine (sul versante israeliano): migliaia di militari, fino a 10-15 mila secondo le stime, pronti a intervenire “a seconda delle circostanze” qualora la situazione dovesse degenerare.
In pratica Israele mantiene una riserva strategica mobile poco oltre la frontiera, in grado di supportare o evacuare gli avamposti se fossero attaccati, o di lanciare operazioni offensive nel Sud del Libano qualora Hezbollah rompesse la tregua in maniera grave.
Questa configurazione a doppio livello (piccolo presidio fisso + forza consistente di reazione immediata) rivela la volontà israeliana di minimizzare i rischi: evitare un’occupazione capillare di grandi territori (come fu negli anni ’80 e ’90), ma al contempo non lasciare sguarnito il confine.
A livello politico interno, la decisione di mantenere la zona cuscinetto gode di un consenso piuttosto ampio nelle istituzioni di Governo, sebbene non manchino divergenze di sfumature.
L’Esecutivo ldi unità nazionale formato durante la guerra (che include esponenti sia della coalizione di destra di Netanyahu sia dell’opposizione moderata) ha approvato con 10 voti favorevoli su 11 l’accordo di cessate il fuoco con Hezbollah, segno che vi era un’intesa condivisa sull’uscita dal conflitto.
Alcuni ministri però hanno espresso riserve: ad esempio, il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir (ala destra radicale) si era detto contrario a qualsiasi tregua che non garantisse il pieno ritorno degli sfollati israeliani nel Nord e dubitava della capacità dell’esercito libanese di arginare Hezbollah.

Il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir
Ben-Gvir invocava apertamente la necessità per Israele di mantenere “una nostra cintura di sicurezza“ in Libano come condizione per ritirarsi.
Questa posizione più oltranzista ha fatto da contrappeso all’ala moderata che invece avrebbe preferito rispettare alla lettera la scadenza del ritiro.
La soluzione finale – lasciare solo 5 postazioni presidiate anziché un’intera fascia disabitata – è stata un compromesso: Israele non ottiene una zona cuscinetto completamente sgombra da civili libanesi su larga scala (come chiedevano i sindaci locali e i falchi del governo), ma mantiene comunque una presenza strategica minima per “mettere un piede” oltre confine.
La comunicazione pubblica del Governo tende a sottolineare l’aspetto difensivo e provvisorio: Netanyahu e i suoi ministri continuano a ripetere che qualsiasi futura violazione da parte di Hezbollah sarà affrontata con forza e che la sicurezza dei cittadini del nord è prioritaria, ma al contempo lasciano intendere che se il Libano rispettasse pienamente gli impegni (dispiegando efficacemente l’Esercito e disarmando Hezbollah nel Sud), Israele non avrebbe bisogno di restare.
In pratica, la posizione israeliana è: “ce ne andremo quando voi – Libano e comunità internazionale – avrete garantito che Hezbollah non tornerà; fino ad allora, resteremo”.
Implicazioni per Hezbollah e per il Governo libanese
La decisione di Israele di mantenere truppe sul suolo libanese ha conseguenze profonde sia per Hezbollah sia per lo Stato libanese. Hezbollah, in particolare, si trova davanti a un cambiamento di scenario rispetto alle sue aspettative.
Da un lato, l’organizzazione sciita può vantare di aver resistito all’assalto israeliano (il conflitto è terminato senza una resa formale di Hezbollah) e potrebbe cercare di proclamare una sorta di “vittoria”.
Dall’altro lato, però, la presenza continuativa di soldati israeliani in Libano del Sud rappresenta per Hezbollah un’evidente sconfitta strategica parziale: significa che Israele non è stato costretto a un completo ritiro e che una porzione, seppur piccola, di territorio libanese resta occupata dal nemico.
Questo intacca la narrativa di Hezbollah come “difensore del Libano” che libera la patria dagli occupanti – ruolo che il movimento rivendicò con orgoglio dopo il ritiro israeliano del 2000.
Adesso, con avamposti IDF nuovamente presenti, Hezbollah vede riaprirsi il dossier della “Resistenza”: la sua ragion d’essere (la lotta contro Israele) torna attuale finché anche l’ultimo soldato israeliano non sarà andato via. In sostanza, la scelta israeliana offre a Hezbollah una giustificazione per non disarmare e per mantenere vivo l’apparato militare: potranno dire che la resistenza deve continuare finché c’è un’occupazione, seppure limitata, del suolo libanese.
Va sottolineato che il conflitto 2023-2024 ha inflitto a Hezbollah perdite durissime, dalle quali il movimento sta ancora cercando di riprendersi. Israele sostiene di aver “riportato Hezbollah indietro di decenni” in termini di capacità militari, avendo eliminato molti dei suoi combattenti esperti, distrutto gran parte dei lanciarazzi e depositi nel Sud e smantellato infrastrutture chiave vicino al confine.
In particolare, un evento spartiacque è stato l’uccisione del Segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, colpito da un raid aereo israeliano a Beirut a fine settembre 2024.

Il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah
Nasrallah guidava l’organizzazione da oltre 30 anni ed era il simbolo stesso di Hezbollah; la sua morte ha rappresentato uno shock per il movimento e per i suoi sostenitori, oltre a creare un vuoto di leadership non facilmente colmabile.
Oggi Hezbollah è guidato (almeno formalmente) da Naim Qassem, storico vice di Nasrallah, che ha assunto la Segreteria generale approvando il cessate il fuoco a nome del gruppo.
La perdita del leader carismatico, unita alle ingenti perdite materiali, ha indebolito Hezbollah sia militarmente sia moralmente.
Questo spiega in parte perché, nonostante la retorica infuocata, Hezbollah non abbia cercato lo scontro immediato per cacciare gli israeliani rimasti: il gruppo ha bisogno di tempo per riorganizzarsi, addestrare nuovi quadri e ricostituire le scorte di armi (processo che dipende anche dall’aiuto iraniano). Attualmente Hezbollah è quindi cauto – evita azioni su larga scala che potrebbero dare a Israele un pretesto per riprendere la guerra, preferendo denunciare politicamente la presenza nemica e attendere.
Sul piano formale, Hezbollah e i leader politici a esso vicini hanno definito la presenza israeliana come una violazione inaccettabile della sovranità libanese.
Tutte le principali autorità di Beirut, anche quelle filoccidentali, si sono espresse in questi termini: il Comandante dell’Esercito (ora eletto Presidente della Repubblica) Joseph Aoun, insieme al premier Najib Mikati e ad altri esponenti, hanno dichiarato che ogni soldato israeliano sul suolo libanese equivale a una “occupazione” e hanno chiesto il ripristino immediato dell’integrità territoriale.
Hezbollah ovviamente enfatizza questa posizione, accusando Israele di non rispettare gli accordi e mantenendo alta la tensione verbale.
È probabile che nelle comunicazioni interne e verso la base dei sostenitori, i dirigenti di Hezbollah presentino la zona cuscinetto come una sfida da affrontare con pazienza: l’organizzazione può rivendicare di aver ottenuto il ritiro israeliano dalla maggior parte del sud (compresi tutti i centri abitati) e che ciò che resta è un piccolo “strascico” dell’occupazione che dovrà essere eliminato attraverso la pressione politica e, se necessario, la guerriglia nel lungo periodo. In pratica, Hezbollah potrebbe sfruttare questa situazione per legittimare il mantenimento di uno stato di allerta militare: pur avendo accettato di spostare i propri uomini a nord del Litani per ora, non abbandonerà la capacità di colpire e potrebbe prepararsi per scaramucce future volte a logorare il nemico finché esso non si ritira del tutto.
Per il Governo libanese le implicazioni sono complesse.
Il Libano ufficiale – già provato da una grave crisi economico-politica interna – si trova tra l’incudine e il martello.
Da un lato, deve fronteggiare l’erosione della propria sovranità: la presenza di forze straniere non autorizzate (le truppe israeliane) sul proprio territorio è di per sé una violazione del diritto internazionale e uno smacco all’autorità statale.
Ogni Governo libanese, a prescindere dal colore politico, è tenuto a chiedere la cessazione di tale occupazione per motivi di dignità nazionale di fronte alla propria opinione pubblica.
Dall’altro lato, però, il Governo di Beirut dipende dalla comunità internazionale (USA, Francia, ONU) per gestire la situazione, non avendo né la forza militare né l’influenza diplomatica per cacciare Israele autonomamente.
L’Esercito libanese (LAF), pur schierando 5 mila effettivi nel Sud come previsto, non può realisticamente scontrarsi con l’IDF, che è molto più potente e avrebbe immediato supporto americano in caso di conflitto diretto.
Inoltre, le LAF ha storicamente evitato di scontrarsi anche con Hezbollah, sia per la disparità di forze sia per evitare una guerra civile interna: molti soldati e ufficiali simpatizzano o almeno tollerano il “Partito di Dio” come forza di resistenza.
Ciò significa che Beirut non ha strumenti coercitivi efficaci su nessuna delle due parti, né può disarmare Hezbollah facilmente, né può cacciare Israele.
Il Governo dunque punta sulla via diplomatica: ha accolto con favore il cessate il fuoco di novembre 2024, sperando che aprisse la strada a una pace duratura e al ritorno dei profughi nelle loro case.
Ora che Israele rimane in cinque posizioni, Beirut affida le proprie speranze alla pressione di Washington, Parigi e dell’ONU affinché sia solo una permanenza temporanea.
Ogni dichiarazione ufficiale libanese insiste sul completo ritiro israeliano come condizione per stabilizzare il Paese.
Nel frattempo, il Libano cerca di mettere in sicurezza il proprio Sud con i mezzi disponibili.
L’Esercito libanese sta progressivamente dispiegando posti di osservazione e pattuglie nelle zone abbandonate da Israele, spesso fianco a fianco con i peacekeeper internazionali.
Questo ha un duplice scopo: rassicurare la popolazione locale che lo Stato è presente (dopo anni in cui di fatto Hezbollah era l’unica forza a Sud del Litani), e allo stesso tempo assicurare a Israele e ONU che Hezbollah non torna nei villaggi di confine.
In questi primi tempi dopo la tregua, le autorità libanesi hanno addirittura impedito ai civili di rientrare immediatamente in alcuni villaggi liberati finché i genieri non avranno bonificato le aree e verificato che non vi siano miliziani o armi nascoste.
Si tratta di misure precauzionali che indicano la volontà del Governo di collaborare al mantenimento della tregua, evitando qualsiasi incidente che possa dare pretesti a Israele.
D’altra parte, il governo sa anche che spingersi troppo oltre nel limitare Hezbollah potrebbe essere pericoloso: Hezbollah è parte integrante del tessuto politico (ha rappresentanti in Parlamento e ha alleati in posizioni chiave, come il Presidente del Parlamento Nabih Berri) e soprattutto gode ancora dell’appoggio di una fetta significativa della popolazione sciita.
Un tentativo forzato di disarmo o di spingere Hezbollah fuori dal sud con la forza rischierebbe di spaccare le Forze Armate e destabilizzare ulteriormente il Paese.
Pertanto, Beirut deve mantenere un equilibrio delicato: mostrare impegno nel far rispettare l’accordo, ma senza apparire come schierato contro Hezbollah in modo da non provocarne la reazione interna.
In definitiva, per il Libano la situazione attuale comporta sia rischi che opportunità.
Tra i rischi: il protrarsi della presenza israeliana potrebbe alimentare tensioni popolari (i cittadini del Sud vedono truppe straniere sui loro monti) e fornire carburante alla propaganda di Hezbollah, mantenendo il Paese in uno stato di belligeranza latente. Inoltre, finché c’è questa situazione, investimenti e aiuti per la ricostruzione del Sud potrebbero tardare ad arrivare per l’incertezza della sicurezza.
Tra le opportunità: se il cessate il fuoco regge e la calma viene preservata, il Libano potrebbe beneficiare di un periodo di stabilità relativo per concentrarsi su riforme interne e misure economiche).
La presenza dell’Esercito libanese nel Sud – con l’assistenza ONU – potrebbe gradualmente rafforzare l’autorità dello Stato in aree dove storicamente era debole, a patto che si eviti lo scontro con Hezbollah e che quest’ultimo accetti di restare defilato.
Insomma, il governo libanese cammina su un filo sottile, cercando di trarre il meglio da una situazione imposta: deve tenere a bada Hezbollah perché Israele lasci il Libano, ma anche tenere a bada Israele perché non colpisca di nuovo Hezbollah – il tutto cercando di preservare la fragile unità nazionale.
Il ruolo degli attori internazionali: Stati Uniti, Francia, Nazioni Unite e Iran
La crisi libanese-israeliana coinvolge attivamente diversi attori internazionali, ognuno con proprie priorità ma in parte convergenti sull’obiettivo di evitare una guerra più ampia.
Stati Uniti: Washington è stato l’attore esterno più influente nella mediazione del conflitto.
Gli Stati Uniti, sotto l’amministrazione Biden, hanno investito notevoli risorse diplomatiche per fermare l’escalation sul fronte nord, preoccupati che un conflitto aperto Israele-Hezbollah (e dunque Israele-Iran per procura) potesse infiammare l’intero Medio Oriente.
Il cessate il fuoco del 27 novembre 2024 porta la firma americana: funzionari USA (in particolare l’inviato Amos Hochstein) hanno negoziato intensamente sia con esponenti israeliani sia con i rappresentanti libanesi (incluso il presidente del parlamento Nabih Berri, emissario ufficioso di Hezbollah) per raggiungere un accordo.
L’esito è stato salutato da Biden come un successo diplomatico che avrebbe “posto fine alle ostilità in modo permanente”.
1\\Nell’ambito di questo accordo, gli Stati Uniti hanno assunto il ruolo di garanti e supervisori: guidano infatti il Meccanismo di Monitoraggio incaricato di verificare il rispetto della tregua e di dirimere eventuali violazioni.
Un comitato di coordinamento a guida USA esamina le denunce di infrazione (da parte israeliana o libanese) e, con l’ausilio delle capacità di intelligence americana, determina i fatti e sollecita eventuali correzioni.
Questo impegno diretto riflette l’intento di Washington di prevenire la ripetizione degli errori post-2006, quando la comunità internazionale – compresi gli USA – dopo qualche mese distolse l’attenzione, permettendo ad Hezbollah di riarmarsi. Ora gli USA stanno segnalando che terranno alta la guardia almeno finché la situazione non sarà stabilizzata in modo duraturo.
È nell’ambito di questa leadership statunitense che si inserisce il tacito assenso alla zona cuscinetto israeliana.
Quando Israele ha espresso la volontà di mantenere cinque avamposti, ciò poteva apparire in contrasto con l’accordo appena firmato. Tuttavia, Katz ha affermato pubblicamente che gli Stati Uniti hanno dato “luce verde” alla permanenza israeliana oltre il 18 febbraio.
In pratica, durante le consultazioni riservate, Israele avrebbe fornito a Washington una mappa dettagliata con l’indicazione dei cinque siti strategici e le ragioni della loro importanza, convincendo gli americani che senza quel minimo dispiegamento l’IDF non avrebbe avuto fiducia nel cessate il fuoco.
L’Amministrazione Biden, pur restia a sancire qualsiasi nuova occupazione, ha probabilmente considerato preferibile concedere questa eccezione limitata piuttosto che rischiare il fallimento del cessate il fuoco.
Di conseguenza, gli USA di fatto accettano la presenza israeliana nella zona cuscinetto come misura temporanea legata alla sicurezza, aspettandosi però che Israele collabori pienamente col meccanismo di monitoraggio e si astenga da azioni unilaterali eclatanti. Fonti indicano addirittura l’esistenza di una “lettera laterale” USA-Israele (non pubblica) che garantirebbe a Israele un certo margine di manovra militare in caso di violazioni di Hezbollah, ad esempio continuando ricognizioni aeree su alcune zone del Libano. Questo per rassicurare Israele che la sua autodifesa non sarà sacrificata sull’altare della diplomazia.
Allo stesso tempo, gli USA stanno anche incentivando il Libano a fare la sua parte: il Congresso americano potrebbe vincolare futuri aiuti all’Esercito libanese alla serietà con cui esso applicherà i termini dell’accordo (cioè tenere Hezbollah lontano dal confine).
In sintesi, Washington gioca su due tavoli: asseconda Israele nelle sue esigenze di sicurezza immediata (fino a un certo punto), ma mantiene la pressione su Beirut perché dimostri di saper controllare il proprio territorio, con la prospettiva che se il Libano riuscirà a farlo, allora la giustificazione per la presenza israeliana verrà meno.
L’obiettivo strategico USA è dunque stabilizzare il Libano meridionale senza la guerra, contenendo l’influenza iraniana (via Hezbollah) e proteggendo Israele, il tutto evitando di dover impegnare proprie truppe (Washington ha chiarito che non invierà forze di combattimento americane in Libano).
In ultimo, non va trascurato l’orizzonte politico più ampio: gli Stati Uniti erano impegnati in delicate trattative di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita prima che la guerra di Gaza e Libano interrompesse tutto. Porre fine alle ostilità a nord e garantire la sicurezza di Israele era anche propedeutico a riprendere quel dossier di pace regionale.
Biden – che a gennaio scorso ha terminato il suo mandato – auspicava di lasciare una regione pacificata, o perlomeno in tregua, così da poter rilanciare il dialogo israelo-arabo (oltre a concentrare l’attenzione su altri dossier come l’Ucraina e l’Indo-Pacifico).
Francia: Parigi ha giocato un ruolo di primo piano accanto agli Stati Uniti nella crisi libano-israeliana.
La Francia, legata al Libano da storici rapporti (il Libano fu mandato francese nel XX secolo) e guida tradizionale della componente europea di UNIFIL, ha agito sia per proteggere la stabilità libanese sia per affermare la rilevanza diplomatica europea in Medio Oriente.

L’ex Presiente USA, Biden con quello francese Macron
Il Presidente Emmanuel Macron si è speso personalmente: ha coordinato con Biden le mosse per il cessate il fuoco e ha annunciato entusiasta la conclusione dell’accordo, definendolo “il coronamento di sforzi durati mesi in stretta collaborazione con Stati Uniti, Israele e Libano”.
La Francia era tra i cinque mediatori firmatari dell’intesa del 27 novembre 2024 e ha successivamente mantenuto un contatto costante con le parti per garantirne l’attuazione.
Un episodio curioso testimonia sia l’impegno francese sia le sue linee rosse: inizialmente Parigi aveva fatto dichiarazioni molto dure contro Israele per i bombardamenti in Libano (arrivando a ipotizzare, in un momento di tensione, azioni legali internazionali contro leader israeliani), ma poi ha corretto il tiro e si è concentrata su un ruolo costruttivo.
L’inclusione ufficiale della Francia come mediatore è avvenuta proprio dopo che tali incomprensioni sono state chiarite.
La posizione francese sulla zona cuscinetto ricalca il principio della tutela della sovranità libanese.
La Francia sostiene che l’autorità nel Sud del Libano debba essere esercitata solo dall’Esercito libanese e dall’UNIFIL, in linea con la risoluzione 1701.
Qualsiasi presenza di forze armate straniere non autorizzate (quindi anche quelle israeliane) è vista con preoccupazione a Parigi, poiché rischia di vanificare il senso della missione di pace e di innescare reazioni violente.
Per questo, la Francia – pur non avendo potuto impedire l’intesa USA-Israele sui 5 avamposti – si aspetta che sia davvero temporanea.
Fonti ONU hanno riferito che a fine febbraio, allo scadere del periodo di ritiro, i francesi insieme alle Nazioni Unite hanno espresso rammarico per il fatto che Israele non avesse completato il ritiro totale, definendo “non auspicabile” questo ritardo e ricordando che costituisce una violazione della risoluzione 1701.
Il linguaggio è diplomatico, ma tradisce l’insoddisfazione francese verso la scelta israeliana di restare oltre il termine pattuito.
Parallelamente, la Francia ha cercato di promuovere soluzioni alternative alla presenza diretta israeliana.
In colloqui con esponenti israeliani, anche tramite l’Italia, Parigi ha sostenuto un piano per potenziare l’UNIFIL e l’esercito libanese in modo da rassicurare Israele sul fatto che il sud sarebbe rimasto tranquillo.
Il concetto proposto (dal ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani in visita a Tel Aviv, con l’avallo francese) era quello di creare una “zona cuscinetto UNIFIL” più robusta, estesa dalla frontiera fino al fiume Litani, con più Caschi blu e regole d’ingaggio rafforzate, dietro alla quale schierare l’Esercito regolare libanese, e solo più a Nord lasciare spazio a Hezbollah.

I caschi blu italiani.di UNIFIL pattugliano il Sud del Libano
In pratica, una zona cuscinetto “internazionalizzata” anziché occupata da Israele.
Questa proposta ha trovato orecchie attente in alcuni ambienti israeliani, ma sul momento della tregua non era logisticamente realizzabile dispiegare ulteriori forze ONU.
Resta però sul tavolo come soluzione auspicata dalla Francia (e dall’Europa): l’efficacia di UNIFIL e l’elezione del Presidente Maggiore Generale Joseph Aoun, considerato ben visto sia da Parigi che da Washington.

Il Generale Joseph Aoun
Ebbene in questo caso, Parigi potrebbe tornare a insistere per il ritiro israeliano completo in cambio di una presenza internazionale più incisiva.
Da notare che la Francia ha a cuore anche la sicurezza del proprio contingente: durante i combattimenti, diverse basi UNIFIL (incluse quelle italiane e francesi) si sono trovate in mezzo al fuoco e ci sono stati incidenti.
Tajani ha ottenuto da Netanyahu e da Katz rassicurazioni che Israele farà di tutto per non mettere a rischio i peacekeeper.
La collaborazione sul terreno tra IDF e UNIFIL è fondamentale: ad esempio, si segnala che le operazioni di ritiro israeliano dai villaggi sono avvenute in coordinamento con UNIFIL proprio per evitare fraintendimenti o scontri accidentali.
In conclusione, la Francia svolge un ruolo di guardiano diplomatico: sostiene il Libano nei consessi internazionali, pungola Israele sul rispetto degli impegni, ma al contempo lavora pragmaticamente affinché la tregua tenga (anche per proteggere i propri soldati in UNIFIL e i civili libanesi).
L’obiettivo ultimo francese è un Libano stabile e neutro, libero sia da milizie incontrollate sia da truppe straniere: un traguardo che richiederà tempo e una fine negoziata dell’attuale situazione transitoria.
Nazioni Unite (UNIFIL e ONU): Le Nazioni Unite sono coinvolte in prima linea attraverso la missione UNIFIL, presente in Libano fin dal 1978 e rafforzata dopo il 2006.
Il cessate il fuoco del 2024 ha riaffermato centralmente il ruolo di UNIFIL come forza di interposizione e verifica. Il piano prevedeva infatti che i Caschi blu ONU si dispiegassero assieme all’Esercito libanese man mano che Israele arretrava, in modo da prendere possesso delle aree evacuate e garantire che né combattenti di Hezbollah né elementi irregolari vi rientrassero.
Questo effettivamente è avvenuto in molti villaggi: colonne di veicoli UNIFIL sono entrate nelle località da cui l’IDF usciva, spesso già presenti nelle vicinanze con basi avanzate.
La UNIFIL (attualmente sotto comando del Generale spagnolo Lázaro) ha inoltre facilitato il coordinamento tecnico quotidiano tra le parti, mantenendo aperti i canali di comunicazione per prevenire incidenti. Anche durante le ostilità, la missione ha svolto un ruolo importante evacuando civili e fornendo osservazioni neutrali.
L’ONU per voce del Coordinatore Speciale per il Libano e del Segretario Generale, Antonio Guterres ha salutato con favore l’accordo di tregua come un passo essenziale verso la pace.

Il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres
In una dichiarazione congiunta con la stessa UNIFIL, l’ONU ha sottolineato che occorre “consolidare i risultati raggiunti” attraverso azioni concrete delle parti, invitando sia Israele che il Libano a rispettare integralmente i termini concordati. Tuttavia, la perseveranza di Israele nel rimanere in quei cinque siti oltre la scadenza è stata registrata dall’ONU con preoccupazione.
Nel comunicato del 18 febbraio scorso, la coordinatrice ONU e il comando UNIFIL hanno espresso che “ulteriori ritardi in questo processo non sono ciò che speravamo accadesse” ed hanno implicitamente ricordato che la Risoluzione 1701 del 2006 chiedeva il ritiro totale di Israele. In pratica, l’ONU considera la presenza israeliana continuativa come una violazione della sovranità libanese e delle risoluzioni vigenti, benché sul terreno non abbia mezzi per imporre il ritiro.
Il ruolo dell’ONU si concentra dunque su tre fronti:
1) monitoraggio e segnalazione: UNIFIL e gli organi ONU documentano ogni incidente o violazione.
Ad esempio, nei primi due mesi di tregua sono stati riportati decine di episodi: l’ONU ha contato oltre 50 violazioni attribuite a Israele (perlopiù sorvoli non autorizzati e alcuni colpi esplosi, che hanno causato anche vittime civili e il tragico incidente dell’uccisione di un ufficiale dell’Esercito libanese) e alcune violazioni minori da parte di Hezbollah (movimenti di miliziani a sud del Litani o spari isolati).
Ogni violazione viene discussa nella commissione di cessate il fuoco guidata dagli USA, ma è UNIFIL sul campo spesso a rilevarla per prima;
2) interposizione: I Caschi blu fungono da cuscinetto umano tra israeliani e libanesi in certe zone critiche.
Ad esempio, quando i soldati libanesi si sono affacciati per la prima volta nei villaggi di confine liberati, erano accompagnati da UNIFIL mentre l’IDF si ritirava, e questo :ha aiutato a prevenire conflitti diretti.
Ora UNIFIL pattuglia le aree adiacenti alla Linea Blu per dissuadere entrambe le parti da avanzare oltre;
3) assistenza umanitaria e di stabilizzazione: l’ONU e le sue agenzie forniscono aiuti ai civili sfollati (che pian piano stanno rientrando nel Sud) e supporto tecnico alle autorità libanesi per ripristinare servizi di base nelle zone devastate dalla guerra.
C’è anche uno sforzo di sminamento in corso per rimuovere le bombe inesplose e riparare strade danneggiate.
In termini di posizione politica, l’ONU mantiene fermo il principio che una soluzione duratura si avrà solo applicando completamente la Risoluzione 1701: cioè con un Libano meridionale libero da milizie (disarmo di Hezbollah) e con Israele fuori dal Libano.
Il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres e membri chiave del Consiglio di Sicurezza (Francia in primis) restano ufficialmente impegnati su questa linea.
Tuttavia, l’ONU è anche pragmatico e riconosce le difficoltà sul terreno: sa che Hezbollah non sarà disarmato dall’oggi al domani e che Israele non se ne andrà finché non avrà fiducia del tutto. Quindi, nel breve termine, l’ONU si accontenta di gestire la situazione riducendo i rischi di incidente e mantenendo vivo il dialogo.
Ad esempio, UNIFIL potrebbe cercare di ampliare le proprie operazioni nella zona cuscinetto per dimostrare a Israele che può sorvegliare efficacemente quell’area, magari conducendo pattugliamenti congiunti con l’esercito libanese vicino agli avamposti israeliani (se le parti acconsentono). Inoltre, l’ONU sta incoraggiando i progressi politici interni in Libano – come la già citata elezione presidenziale – nella speranza che un Governo libanese più stabile possa affrontare meglio la questione di Hezbollah.
In sostanza, l’ONU funge da mediator equilibrato: condanna le violazioni (sia quelle israeliane che quelle di Hezbollah) e chiede a entrambe moderazione, cercando di tenere vivo lo spirito dell’accordo.
Iran: La Repubblica Islamica dell’Iran è il patrono principale di Hezbollah e ha un interesse strategico di primo ordine negli sviluppi al confine libanese-israeliano.
Per Teheran, Hezbollah rappresenta sia un strumento di influenza regionale sia una sorta di “polizza assicurativa” deterrente nei confronti di Israele.
Infatti, i razzi di Hezbollah puntati su Israele erano visti dall’Iran come un contrappeso a eventuali attacchi israeliani contro il suo territorio (ad esempio, contro le installazioni nucleari iraniane). Quando nell’ottobre 2023 Hezbollah è entrato in guerra contro Israele, l’Iran ne ha appoggiato la decisione dichiarando solidarietà alla “resistenza” e al popolo palestinese. Col protrarsi del conflitto e i crescenti costi per Hezbollah, Teheran ha dovuto calibrare attentamente il proprio coinvolgimento.
Va notato che l’Iran ha accolto favorevolmente il cessate il fuoco mediato dagli USA, per quanto possa sembrare sorprendente.
In una dichiarazione ufficiale, Teheran ha espresso sostegno alla tregua raggiunta in Libano.
Ciò indica che l’Iran, pur retoricamente duro contro Israele, in quel frangente ha preferito fermare l’escalation.
Le ragioni sono comprensibili: Hezbollah stava subendo perdite pesanti (inclusa, come detto, la morte di Nasrallah) e rischiava di essere seriamente decapitato; inoltre un conflitto più lungo avrebbe potuto costringere l’Iran stesso a intervenire più direttamente, con esiti imprevedibili.
Dunque, il cessate il fuoco ha permesso all’Iran di preservare quel che resta di Hezbollah per il futuro.
Non a caso, la propaganda iraniana ha enfatizzato come Hezbollah sia riuscito a “sopravvivere” e a mantenere intatta la capacità di minacciare Israele nonostante la ferocia dell’attacco nemico – un messaggio rivolto sia al fronte interno iraniano sia ai nemici esterni.
Per quanto riguarda la zona cuscinetto e la presenza israeliana in Libano, l’Iran la condanna apertamente.
Fonti vicine al Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC) hanno definito l’occupazione dei cinque punti nel sud Libano una continuazione dell’aggressione sionista e hanno lodato Hezbollah per la sua fermezza nel non cedere su questo punto. L’Iran sostiene diplomaticamente le richieste libanesi all’ONU per un completo ritiro israeliano, accusando gli USA di doppio standard (per aver dato copertura a Israele malgrado la violazione della sovranità libanese).
Allo stesso tempo, però, Teheran adotta un approccio prudente sul campo: non vuole rompere la tregua per prima.
L’Iran sa che Hezbollah necessita di tempo per riorganizzarsi e riarmarsi, e questo è possibile solo se la situazione rimane relativamente calma.
Pertanto, è probabile che l’Iran stia consigliando ai leader di Hezbollah di non attaccare direttamente gli avamposti israeliani nell’immediato e di limitarsi eventualmente a proteste simboliche o a incidenti minori non rivendicati (nel caso intendano esercitare pressione). Teheran, insomma, preferisce una guerra a bassa intensità per ora, piuttosto che rischiare un’altra offensiva israeliana che potrebbe annientare definitivamente la sua preziosa milizia alleata.
Parallelamente, l’Iran quasi certamente ha già avviato gli sforzi per ricostituire l’arsenale di Hezbollah. Potrebbe cercare di inviare forniture di missili e droni attraverso la Siria (dove mantiene una forte presenza militare) o via mare, sfruttando la rete di contrabbando. Tuttavia, questi tentativi dovranno evitare i controlli internazionali e la sorveglianza israeliana, che sarà altissima dopo la guerra. La pressione di Israele sul confine (zona cuscinetto) rende più arduo per Hezbollah ricevere armamenti pesanti a sud; probabilmente i rifornimenti iraniani saranno stoccati più a nord, nel Bekaa o oltre, almeno per ora.
Un aspetto importante è che l’Iran collega la situazione libanese all’insieme della cosiddetta “Asse della Resistenza”.
Durante la guerra, ci sono stati attacchi minori anche da milizie filo-iraniane in Siria e in Iraq contro interessi americani e israeliani, coordinati in qualche misura come pressione multilaterale.
Ora, con la tregua, Teheran potrebbe aver ottenuto garanzie tacite che Israele non allargherà le operazioni alla Siria (Katz ha menzionato una zona cuscinetto anche al confine siriano, sul Monte Hermon, segno che Israele sorveglia da vicino pure i movimenti iraniani/Hezbollah in Siria).
In cambio, l’Iran tiene a freno quelle milizie per evitare provocazioni eccessive.
Resta comunque una retorica bellicosa: per il pubblico interno e per i propri alleati, Teheran continua a dichiarare che “la resistenza libanese ha sventato i piani sionisti” e che la lotta non è finita finché ogni soldato israeliano non sarà andato via.
Questo linguaggio serve anche a mantenere alto il morale dopo la perdita di Nasrallah, presentando il successore Qassem come colui che completerà l’opera di liberazione.
In conclusione, l’Iran svolge il ruolo del regista nell’ombra: condanna l’occupazione israeliana e supporta politicamente Hezbollah, ma allo stesso tempo per ora avalla una tregua contenitiva.
Teheran vigilerà attentamente sugli sviluppi: se percepisse che la presenza israeliana si cementa in qualcosa di permanente, potrebbe spingere Hezbollah a intensificare la resistenza; se invece intravede spiragli diplomatici (per esempio un cambio di amministrazione USA più favorevole o pressioni internazionali su Israele), potrebbe puntare su quelli per liberarsi degli avamposti israeliani senza combattere.
In ogni caso, l’Iran continuerà a essere il principale sponsor della capacità militare di Hezbollah, ritenendo quell’alleato indispensabile per i propri interessi strategici nella regione.
Impatto sulla stabilità regionale e sulle relazioni di Israele con i Paesi arabi
La scelta di Israele di mantenere una presenza militare nel Libano meridionale ha effetti contrastanti sulla stabilità regionale.
Da un lato, il cessate il fuoco mediato a fine 2024 – pur imperfetto – ha evitato un’allargamento catastrofico del conflitto: se le ostilità tra Israele e Hezbollah fossero proseguite o intensificate, avrebbero potuto coinvolgere anche la Siria e l’Iran, incendiando il Medio Oriente. L’attuale tregua, per quanto tesa, ha riportato un relativo calma sui confini settentrionali di Israele.
Ciò ha permesso a decine di migliaia di civili sfollati, sia libanesi che israeliani, di iniziare a rientrare nelle proprie comunità in condizioni di sicurezza.
In questo senso, la situazione attuale – con l’ONU sul campo e un meccanismo di monitoraggio attivo – è più stabile rispetto ai mesi di guerra aperta. I vicini del Libano (come la Giordania e la Siria) traggono sollievo dalla fine dei bombardamenti e dall’assenza di un conflitto maggiore alle porte.
Dall’altro lato, però, la decisione di Israele di non ritirarsi completamente mantiene aperto un focolaio di tensione che potrebbe riaccendersi.
La zona cuscinetto israeliana è percepita da molti attori arabi come una ferita aperta: costituisce una violazione dell’integrità araba e un ricordo dell’occupazione passata. Finché anche un solo soldato israeliano resterà in Libano, Hezbollah (e non solo) avrà motivo di agitare la bandiera della resistenza. La stabilità attuale potrebbe dunque rivelarsi fragile e temporanea.
Basta un incidente grave – un attacco di Hezbollah che uccida soldati israeliani in un avamposto, o al contrario un eccesso di forza israeliano che faccia vittime civili libanesi in area ONU – per far precipitare di nuovo la situazione verso lo scontro armato. Le parti sono al momento dissuase dall’escalation (dopo aver toccato con mano il costo della guerra), ma la presenza ravvicinata di forze ostili incrementa sempre il rischio di errori di calcolo.
Ad esempio, a fine novembre, appena iniziata la tregua, c’è stato un episodio in cui l’IDF ha aperto il fuoco su un gruppo di giornalisti in Libano, ferendo dei reporter, e ciò è stato immediatamente segnalato come violazione preoccupante. Incidenti del genere, se ripetuti, possono alimentare rancore locale e pressioni su Hezbollah per reagire.
Per quanto riguarda le relazioni diplomatiche di Israele con i Paesi arabi, l’effetto della vicenda libanese è in prevalenza negativo, anche se con alcune sfumature.
Nel mondo arabo c’è una forte solidarietà verso il Libano come nazione aggredita: sia i Paesi con posizioni ostili a Israele (come Siria, Yemen, Algeria) sia quelli più moderati e vicini all’Occidente (Egitto, Giordania, Arabia Saudita) hanno condannato duramente la campagna militare israeliana in Libano durante il 2024, definendola un uso sproporzionato della forza contro un Paese sovrano.
In particolare, l’Arabia Saudita – che stava dialogando con Israele per un possibile accordo di normalizzazione – ha dovuto congelare tali contatti e unirsi al coro di critiche: Re Salman e il principe ereditario Mohammed bin Salman dell’Arabia Saudita hanno pubblicamente denunciato le vittime civili in Libano e Gaza, chiedendo un immediato cessate il fuoco.

Il Principe ereditario saudita Mohammed bin Salman
Ora che le armi tacciono, i Paesi arabi chiedono che Israele rispetti pienamente gli accordi e ritiri tutte le sue forze dal Libano. In seno alla Lega Araba probabilmente è stata approvata una risoluzione di sostegno al Libano e di richiesta di applicazione della risoluzione ONU 1701.
Anche Nazioni del Golfo come Qatar e Emirati Arabi, che pure hanno rapporti ufficiosi con Israele, non possono politicamente avallare un’occupazione, per quanto limitata, in terra araba.
Detto questo, esistono differenze sottili nelle reazioni. I Paesi arabi che temono l’Iran (come l’Arabia Saudita, gli Emirati e in parte l’Egitto) vedono con preoccupazione sia l’azione di Israele sia, soprattutto, il rafforzamento di Hezbollah.
Alcuni analisti ritengono che, in privato, diverse monarchie del Golfo abbiano sperato che Israele indebolisse drasticamente Hezbollah, considerato un braccio dell’Iran che minaccia la stabilità regionale. Da questa prospettiva, l’idea di una zona cuscinetto che tenga Hezbollah lontano da Israele potrebbe non dispiacere del tutto ad alcuni Governi arabi, se ciò significa meno capacità offensiva per il gruppo sciita.
Ad esempio, Paesi come gli Emirati o il Bahrain – che hanno normalizzato i rapporti con Israele con gli Accordi di Abramo – sono probabilmente contenti che Hezbollah sia uscito ridimensionato dal conflitto.
Tuttavia, nessuno di loro lo ammetterebbe pubblicamente: ufficialmente, l’unità araba sul sostegno al Libano prevale.
Persino l’Arabia Saudita, che con l’Iran ha ristabilito relazioni diplomatiche nel 2023, deve mantenere un equilibrio: non vuole che Hezbollah (alleato dell’Iran) diventi troppo forte da destabilizzare il Libano o minacciare interessi sunniti, ma nemmeno può permettere che la popolazione araba la accusi di essere complice di Israele.
Quindi, Riyadh mantiene una linea di denuncia verbale di Israele unita a un pressing discreto su Washington perché si arrivi presto a una risoluzione completa della crisi.
Per Israele stesso, la vicenda ha congelato se non fatto arretrare i suoi progressi diplomatici nel mondo arabo.
Prima dell’ottobre 2023, Israele era impegnato in un significativo sforzo di normalizzazione, con gli occhi puntati su un possibile storico accordo con l’Arabia Saudita, dopo quelli raggiunti con Emirati, Bahrain, Marocco e Sudan.
Lo scoppio della guerra con Hamas e Hezbollah ha messo in pausa tali sviluppi: l’attenzione mondiale si è concentrata sul conflitto e molti Paesi arabi hanno dovuto prendere le distanze da Israele per ragioni di opinione pubblica.
Ora che la situazione a Gaza e in Libano è più calma, c’è spazio per riannodare quei fili diplomatici, ma la presenza militare in Libano rimane un ostacolo.
Finché Israele è impegnato in operazioni oltre confine e c’è il rischio di nuove fiammate con Hezbollah, sarà difficile per i leader arabi giustificare apertamente una riconciliazione.
In particolare, l’Arabia Saudita porrà certamente come conditio sine qua non il rispetto della sovranità libanese e la prosecuzione della tregua, se mai dovesse riprendere il dialogo di normalizzazione con Israele.
Un riaccendersi del conflitto a Nord azzererebbe completamente queste prospettive nel breve termine.
Sul piano regionale più ampio, la contrapposizione blocco pro-Iran vs blocco filo-occidentale è influenzata dagli esiti del conflitto.
L’indebolimento di Hezbollah e la presenza israeliana, paradossalmente, possono aver rassicurato Paesi come gli Emirati o la stessa Turchia (anch’essa contraria all’espansionismo iraniano) che l’Iran è stato contenuto.
Tuttavia, la Turchia – che ambisce a un ruolo di mediatrice – ha criticato Israele per le sue azioni in Libano e potrebbe cercare di aumentare la propria influenza offrendo supporto al governo libanese e facendosi sostenitrice di un ritiro israeliano completo. In generale, tutti i Paesi arabi – sia amici che rivali di Teheran – convergono su un punto: il rispetto delle frontiere e la fine di ogni occupazione sono principi fondamentali dell’ordine regionale.
Quindi la permanenza dell’IDF in Libano, se protratta a lungo, rischia di isolare diplomaticamente Israele in sede ONU e nei consessi internazionali non occidentali, alimentando nuove critiche e risoluzioni di condanna (che Stati Uniti e occidentali dovrebbero eventualmente bloccare con veto, creando altre spaccature).
Infine, c’è l’effetto sulla stabilità del Medio Oriente nel suo insieme. Se la situazione in Libano rimanesse congelata – né guerra né pace definitiva – il Medio Oriente conviverebbe con un ennesimo conflitto latente, un po’ com’è avvenuto a Gaza tra il 2021 e il 2023 prima dell’ultima guerra.
Questo impedirebbe un pieno clima di fiducia e cooperazione regionale. Invece, se grazie agli sforzi internazionali si arrivasse nelle prossime settimane o mesi a sciogliere il nodo (ad esempio con Israele che dichiara compiuta la missione e ritira le truppe e con garanzie rafforzate sul disarmo di Hezbollah nel Sud), allora la stabilità ne gioverebbe enormemente: il Libano potrebbe iniziare una fase di ricostruzione e riconciliazione interna, e Israele potrebbe tornare a concentrarsi sul dialogo con i Paesi arabi senza il fardello di un conflitto attivo. Al momento, però, questo scenario ottimistico appare lontano; più probabile è che la regione debba gestire una pace fredda e precaria lungo la Linea Blu, sperando che col tempo la tensione si allenti.
Conseguenze militari e dinamiche sul campo
Sul terreno, la decisione israeliana di mantenere una zona cuscinetto si traduce in una prolungata situazione di “né guerra né pace” al confine Israele-Libano, con possibili scosse improvvise.
Attualmente, l’IDF controlla cinque avamposti strategici appena oltre la frontiera settentrionale.
Queste posizioni – presumibilmente colline o alture che dominano villaggi e vallate circostanti – sono state fortificate durante il conflitto e ora fungono da basi avanzate.
In ciascun avamposto rimane un’unità di circa una compagnia (100-150 soldati) equipaggiata per l’osservazione (droni, sensori) e la difesa ravvicinata. Intorno a loro, per un raggio non specificato ma probabilmente di qualche centinaio di metri, gli israeliani manterranno patrol permanente e zone interdette.
Già allo scattare del cessate il fuoco, l’IDF aveva avvertito i civili libanesi di non avvicinarsi alle aree dove si trovavano ancora soldati israeliani, minacciando di aprire il fuoco in caso di ingresso non autorizzato. Di fatto, questo crea piccole aree off-limits nel territorio libanese meridionale, dove né civili né forze libanesi possono entrare liberamente.
Ciò complica il ritorno alla normalità per alcune comunità locali (ad esempio, i terreni agricoli prossimi ai posti israeliani restano inaccessibili ai proprietari) e costituisce un potenziale punto di attrito quotidiano.
Le operazioni militari israeliane nella zona cuscinetto consisteranno prevalentemente in attività difensive e di sorveglianza.
L’IDF svolgerà pattugliamenti a corto raggio intorno agli avamposti, monitorerà i movimenti con sistemi elettronici e probabilmente effettuerà sporadiche puntate di ricognizione oltre i propri perimetri per assicurarsi che non vi siano infiltrazioni. È verosimile che unità speciali israeliane, magari in borghese o con droni, continueranno a raccogliere informazioni ben oltre il Litani, per tenere d’occhio l’eventuale riassetto di Hezbollah (questo tipo di attività di intelligence in profondità era segnalato anche prima della guerra, e potrebbe proseguire).
Dal cielo, Israele manterrà una presenza di droni e velivoli: già nelle prime settimane di tregua ha condotto voli di ricognizione che il Libano ha denunciato come violazioni (ma Israele li considera essenziali per prevenire imboscate). La marina israeliana, inoltre, sorveglia la costa libanese meridionale per scongiurare infiltrazioni via mare.
Per quanto riguarda Hezbollah, la sua presenza a sud del Litani è ufficialmente nulla (ha dovuto ritirare uomini e arsenali a nord). In realtà, è probabile che piccoli nuclei di Hezbollah in borghese rimangano nel sud come “occhi sul campo”. Potrebbero trattarsi di simpatizzanti locali o di cellule dormienti incaricate di monitorare i movimenti israeliani e segnalare eventuali opportunità o pericoli.
Finché l’accordo di tregua è in vigore, Hezbollah eviterà di schierare apertamente armi pesanti a sud del fiume, ma potrebbe comunque mantenere depositi nascosti di armi leggere ed esplosivi, utile per un’eventuale campagna di guerriglia a bassa intensità. La storia del conflitto 1985-2000 insegna che Hezbollah sa sfruttare il terreno e il supporto di parte della popolazione locale per colpire le forze di occupazione con tattiche mordi-e-fuggi.
Non è da escludere che, se la situazione dovesse stagnare, vedremo emergere episodi di attacchi asimmetrici: ad esempio, ordigni esplosivi improvvisati (IED) contro pattuglie israeliane, colpi di cecchino sparati da lunga distanza, oppure tiri di mortaio sporadici verso gli avamposti.
Già durante la fase di implementazione della tregua ci sono stati alcuni scontri minori: in un caso, Hezbollah ha lanciato un paio di colpi di mortaio contro una base israeliana (nella zona di Mount Dov, vicino alle Shebaa Farms), e Israele ha reagito con un fuoco di artiglieria di avvertimento.
Sebbene questi incidenti non siano degenerati, testimoniano che il fronte resta attivo a livello tattico.
Un altro esempio: a dicembre, un soldato israeliano è rimasto ferito da un colpo di arma da fuoco al confine, e in risposta l’aviazione israeliana ha effettuato un sorvolo minaccioso sopra alcune località del sud Libano (eventi del genere sono riportati nelle statistiche ONU sulle violazioni).
In generale, ci si può aspettare un periodo di tensione latente: entrambe le parti cercheranno di evitare il conflitto aperto, ma testeranno continuamente i limiti. Israele con la sua politica di tolleranza zero – Katz ha promesso di reagire immediatamente a qualsiasi provocazione di Hezbollah – e Hezbollah con la sua resistenza nell’ombra, pronta a cogliere ogni segno di debolezza.
La presenza costante di mediatori (USA, UNIFIL) fungerà da valvola di sfogo per gli incidenti minori.
Ogni volta che avviene uno scambio di colpi o un’intrusione, il comitato di monitoraggio si riunisce e cerca di disinnescare l’escalation. Finora, questo approccio ha retto: le violazioni sono state contenute e non si è tornati alla guerra aperta. Tuttavia, militari sul campo sanno per esperienza che non sempre i conflitti si possono contenere.
Se ad esempio un attacco di Hezbollah (o di una sua cellula sfuggita al controllo) causasse morti tra gli israeliani, l’IDF reagirebbe probabilmente in maniera molto dura, con raid aerei mirati o perfino un’operazione di terra puntuale, dicendo di agire in self-defense. Questo rischierebbe di far collassare l’accordo.
Allo stesso modo, se un’azione israeliana colpisse per errore truppe libanesi o peacekeeper ONU, la pressione sull’Esercito libanese e su Hezbollah affinché reagiscano crescerebbe enormemente.
La comunicazione e il coordinamento sono quindi essenziali ogni giorno per evitare che un evento tattico diventi strategico.
Un altro aspetto sul campo è la gestione delle armi e infrastrutture di Hezbollah nel Sud.
L’accordo prevede che Hezbollah smantelli ciò che resta delle sue postazioni a sud del Litani. In pratica, durante la guerra molte installazioni (basi, bunker, lanciatori) sono state distrutte dai bombardamenti israeliani, ma potrebbero esserci depositi segreti o tunnel ancora integri.
Squadre del Genio libanese, supportate eventualmente da UNIFIL, potrebbero scoprire e neutralizzare alcune di queste risorse.
Hezbollah ha interesse a nascondere il più possibile ciò che aveva: ci sono segnalazioni che i suoi stessi combattenti abbiano distrutto o rimosso equipaggiamenti prima di ritirarsi, per non lasciarli nelle mani dell’esercito o dell’ONU (ad esempio potrebbero aver fatto esplodere magazzini o portato via hard-disk con informazioni).
Sul terreno quindi si assiste anche a una gara silenziosa: da un lato l’IDF, con droni o Forze speciali, cerca eventuali residui dell’apparato militare di Hezbollah nel Sud; dall’altro lato,
Hezbollah prova a cancellare le tracce o a passare equipaggiamenti al sicuro a nord. Questa dinamica influirà sulle capacità future di Hezbollah di tornare a operare a sud.
È importante considerare anche le condizioni logistiche delle forze sul terreno. L’IDF, tenendo quei posti fissi, deve organizzare rifornimenti, rotazione delle truppe e mantenimento delle difese in un territorio ostile.
Durante l’occupazione decennale del passato, i convogli di rifornimento israeliani erano bersaglio di imboscate; oggi la situazione è più circoscritta e l’IDF può probabilmente rifornire gli avamposti via terra attraverso percorsi protetti (o, se insicuri, via elicottero).
Resta il fatto che ogni giorno di presenza comporta un costo – non solo economico ma in termini di stress per i soldati, esposizione a pericoli, ecc. Nel breve termine, l’esercito israeliano è motivato e preparato a sostenere questo costo, considerando il trauma di ottobre 2023; col passare dei mesi, però, se la situazione rimarrà relativamente calma, l’opinione pubblica israeliana potrebbe iniziare a chiedersi perché i propri ragazzi debbano ancora stare “di là” a rischiare la vita.
Già in passato, il perdurare di una guerriglia in Libano causò cali di morale e proteste (movimento delle “Quattro madri” negli anni ’90), contribuendo alla decisione di ritirarsi nel 2000
Oggi, il Governo cerca di evitare quel pantano mantenendo un impegno limitato, ma se Hezbollah riuscisse a orchestrare anche pochi attacchi efficaci, la pressione interna su Israele aumenterebbe. È una situazione da tenere d’occhio: la tenuta della zona cuscinetto dipenderà anche dalla sua sostenibilità in termini di perdite.
Finora, dopo la tregua, non si registrano caduti israeliani, il che rende politicamente accettabile la presenza; qualora questo cambiasse, il dibattito in Israele si riaprirebbe.
Dal lato libanese, la popolazione del sud vive sentimenti contrastanti. C’è sollievo perché i bombardamenti sono finiti, ma frustrazione nel vedere che alcune zone sono ancora militarizzate e off-limits.
Molti villaggi sono distrutti a metà e devono essere ricostruiti, ma finché ci sono truppe israeliane a pochi chilometri, alcuni sfollati esitano a tornare stabilmente.
Questo tessuto civile provato può diventare terreno fertile per il risentimento: ogni giorno in più di presenza IDF è vissuto come un affronto, e col tempo ciò potrebbe tradursi in nuove reclute per Hezbollah o anche in atti di protesta spontanea.
Non va dimenticato che a metà febbraio, quando l’IDF non ha lasciato quei 5 siti, in Libano c’è stata rabbia ma non manifestazioni di massa, probabilmente perché la gente era stremata e anche scoraggiata. Ma se nei mesi successivi nulla cambia, potrebbero esserci proteste popolari, magari gruppi di abitanti che provano simbolicamente a avvicinarsi agli avamposti con bandiere libanesi.
L’IDF dovrebbe gestire con cautela tali situazioni per non provocare tragedie (basterebbe un civile ucciso e i titoli sui giornali arabi infiammerebbero di nuovo gli animi).
In conclusione, sul campo ci aspetta un periodo di fragile equilibrio armato.
Le dinamiche militari saranno caratterizzate da: presenza di forze contrapposte a breve distanza; intervento costante di intermediari internazionali per evitare scontri; qualche episodico atto ostile ma calibrato per non oltrepassare la soglia critica. Israele cercherà di congelare lo status quo finché gli converrà – cioè finché riterrà Hezbollah non in grado di riprendersi.
Hezbollah, dal canto suo, giocherà sul tempo: userà la tregua per leccarsi le ferite e aspetterà un momento più favorevole per tornare a premere.
La vera incognita è se questo status quo può reggere abbastanza a lungo da trasformarsi in qualcos’altro (ad esempio in un accordo politico più solido) o se imploderà sotto il peso delle contraddizioni.
Molto dipenderà dall’azione diplomatica parallela e dalla volontà delle potenze di tenere entrambe le parti in riga.
Per ora, l’attenzione resta alta: ogni giorno senza combattimenti è un giorno guadagnato per la pace, ma la pace definitiva rimane appesa a un filo sottile al confine tra Israele e Libano.
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