Libia: Caso del Generale libico Almasr, oggi il ministro Piantedosi riferisce al Senato. La decisione della Corte penale internazionale e la scelta incomprensibile dell’Italia

ROMA. Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, interverrà questo pomeriggio al question time al Senato della Repubblica.

Palazzo Madama, sede del Senato della Repubblica

 

Il titolare del Viminale risponderà a cinque interrogazioni a risposta immediata riguardanti: un episodio riguardante la scorta assegnata al presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni, i recenti disordini e alla sicurezza durante le manifestazioni di piazza, i rischi di fenomeni di sfruttamento della prostituzione in relazione all’uso di piattaforme digitali a pagamento, le comunicazioni e ai provvedimenti di competenza del ministero dell’Interno a seguito dell’arresto del Generale libico Almasr e il provvedimento del suo  rimpatrio.

Il capo del Governo Giorgia Meloni

A questo proposito, continuano le critiche a livello politico.

Tutto parte dal quello che è stato definito, dal Governo, un “errore procedurale” per rispedire in Libia Osama Najim, alias “Almasri”, capo della polizia giudiziaria libica e uomo ricercato dalla Corte Penale Internazionale (CPI) per crimini contro l’umanità.

E’ stato un arresto lampo, durato il tempo di un rigore mal calciato, che si è concluso con il rilascio e il rientro trionfale di Najim a Tripoli.

Il Generale libico Njeem Osama al-Masry

 

Anche l’opinione pubblica lo vede come un altro caso di giustizia made in Italy che conferma come le leggi internazionali e il diritto alla giustizia cedano il passo agli interessi politici e alla diplomazia spicciola.

L’Italia, uno dei Paesi fondatori della CPI e firmataria dello Statuto di Roma, avrebbe dovuto arrestare e consegnare Najim all’Aja, come richiesto dall’Interpol e dalla stessa Corte.

Invece, il Ministero della Giustizia ha optato per la scarcerazione immediata dell’uomo, invocando una presunta “irritualità dell’arresto”. Una scusa tanto debole quanto grottesca, che dimostra come la volontà politica abbia prevalso sulle procedure giudiziarie.

In primo luogo, parlare di un mancato coinvolgimento del ministro Carlo Nordio sembra un modo per lavarsene le mani.

È il Governo stesso che, a quanto pare, non ha alcun interesse a far rispettare gli obblighi internazionali quando questi potrebbero intralciare equilibri bilaterali con Tripoli.

In secondo luogo, l’idea che un errore burocratico possa giustificare la liberazione di un uomo accusato di torture, sparizioni forzate e detenzioni arbitrarie, responsabile di orrori documentati nel famigerato centro di detenzione di Mitiga, è una presa in giro della giustizia. Non è un caso che Amnesty International e le opposizioni parlamentari abbiano subito gridato allo scandalo.

Ma c’è qualcuno che protegge chi?

La vicenda solleva interrogativi inquietanti non solo sul ruolo dell’Italia, ma anche sulle priorità del Governo Meloni in politica estera.

È evidente che dietro il rilascio di Najim si celano questioni più grandi. La Libia è un partner strategico per l’Italia, soprattutto in materia di gestione dei flussi migratori e approvvigionamento energetico. Garantirsi il favore delle autorità libiche, anche a costo di calpestare i principi dello Stato di diritto, sembra essere la nuova linea guida di Palazzo Chigi.

Dopotutto, Najim non era in Italia per un meeting istituzionale o per partecipare a un convegno internazionale.

Si trovava a Torino per assistere a una partita di calcio, una circostanza che rende ancora più surreale la sua presenza nel nostro Paese. Eppure, il governo ha preferito chiudere un occhio – o entrambi – sulla gravità delle accuse, rimandandolo indietro come se nulla fosse accaduto.

Tutto questo provoca conseguenze.

In primo luogo, il rilascio di Najim rappresenta un colpo durissimo alla credibilità internazionale dell’Italia. Come può un Paese che si fa vanto di combattere il traffico di esseri umani e le violazioni dei diritti umani giustificare la liberazione di un criminale accusato di quegli stessi crimini?

In secondo luogo, la decisione italiana manda un segnale preoccupante alla Libia e al resto del mondo. Lasciar impunito Najim equivale a legittimare il sistema di violenze, abusi e soprusi che caratterizza le prigioni libiche. È un via libera alla cultura dell’impunità, che continuerà a mietere vittime tra migranti e rifugiati.

In terzo luogo, la vicenda espone il nostro Governo a critiche interne ed esterne, creando un precedente pericoloso.

Se un mandato della CPI può essere ignorato così facilmente, chi sarà il prossimo a beneficiare di un trattamento di favore?  ci si domanda.

Il timore, sollevato anche dalle opposizioni, è che l’Italia stia aprendo la strada a una politica di discrezionalità che potrebbe tornare utile in futuro per altri casi imbarazzanti.

Il caso Najim è l’ennesima prova di come l’Italia sia disposta a sacrificare principi fondamentali sull’altare della convenienza politica.

Non si tratta solo di un “errore procedurale”, ma di una scelta deliberata che denota la volontà di piegarsi alle pressioni di un partner strategico, ignorando le proprie responsabilità internazionali.

La giustizia, in questa vicenda, è stata calpestata senza scrupoli.

E mentre, a Tripoli, Najim può tornare a dirigere il suo regno del terrore, l’Italia conferma ancora una volta di essere uno Stato forte con i deboli e debole con i forti.

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