Di Giuseppe Gagliano*
TRIPOLI (LIBIA). Si gioca, ancora una volta, una partita più grande della Libia stessa.
Una partita fatta di alleanze mobili, di basi militari trasformate in testate geopolitiche, e di un equilibrio regionale che assomiglia sempre più a una ragnatela pronta a spezzarsi.
Secondo fonti raccolte dall‘Agenzia Nova, la Russia starebbe pianificando l’installazione di missili a medio raggio nella base militare di Sebha, cuore del Fezzan controllato da Khalifa Haftar.

Il Generale Khalifa Haftar
Un piano militare, sì, ma con implicazioni strategiche profonde: puntare quei missili non verso il Sahel o il Mediterraneo orientale, ma direttamente verso l’Europa.
Sebha è più di una base.
È un crocevia.
A poco più di 1.000 chilometri da Lampedusa, a 900 da Tripoli, è l’hinterland strategico che consente a Mosca – per procura – di collocare un potenziale arsenale missilistico nel ventre molle del continente africano.
È la geografia che torna a farsi geopolitica, e che trasforma ogni angolo di sabbia del deserto libico in una minaccia potenziale.
Dietro l’apparente avanzata di Haftar verso Tripoli c’è molto di più di un tentativo di presa del potere.
C’è la ristrutturazione del rapporto di forza internazionale nel Mediterraneo, c’è la convergenza d’interessi tra Mosca e Minsk, ma anche l’ambiguità calcolata di Ankara e il silenzio degli Stati Uniti.
Il quadro che emerge è quello di un’architettura multipolare dell’instabilità, dove ogni attore recita la propria parte non per contenere il caos, ma per gestirlo a proprio vantaggio.
La Russia fornisce i sistemi missilistici e i mezzi antiaerei – come il Tor-M1, già visto a Bengasi – per blindare i propri investimenti militari.
La Bielorussia offre il supporto logistico, la Turchia addestra le truppe di Haftar, e Washington osserva, forse perfino avalla, attraverso intese informali e operazioni ibride che passano per i corridoi umanitari (o pseudo-umanitari) come quello, ancora oscuro, del possibile trasferimento di un milione di palestinesi da Gaza alla Libia.

Forze di terra israeliane operanti nella Striscia di Gaza
L’eventuale presenza di missili a medio raggio in territorio libico controllato dalla Russia sposta la frontiera della deterrenza.
Non siamo più nell’ambito della classica “proiezione di influenza” russa in Africa, come già visto in Mali, Sudan o Repubblica Centrafricana.
Qui si tratterebbe di una minaccia diretta verso l’Europa, che ricorderebbe più la crisi degli Euromissili degli anni ’80 che una banale base d’appoggio mercenaria.
Sebha diventerebbe, di fatto, una piattaforma missilistica avanzata, difficile da neutralizzare e facilmente difendibile, grazie alla combinazione tra protezione aerea locale e profondità geografica.
Uno scacco geopolitico potenzialmente destabilizzante, soprattutto in un momento in cui l’Europa è già sotto pressione per l’Ucraina, il Mar Nero e il Sahel.
Ma il dossier libico è ancora più complesso.
Si intreccia con il possibile esilio di Dabaiba a Istanbul, con la strategia a doppio binario di Erdogan che dialoga con Putin ma si offre come rifugio all’ex premier di Tripoli, con gli accordi petroliferi e marittimi che riemergono nella zona grigia tra diritto internazionale e pragmatismo commerciale.
La vera domanda è: chi governa davvero la Libia oggi? Haftar sembra sempre più un “gatekeeper”, un custode armato degli interessi altrui.
Al contempo, la Russia si muove come potenza intermediaria, dislocando assetti militari ma lasciando formalmente a Haftar la titolarità del comando.
È la strategia del “controllo senza occupazione”, dello “stato-satellite senza annessione”: una dottrina neo-imperiale che trova proprio in Sebha la sua incarnazione più moderna.
E poi c’è il nodo umanitario, che diventa rapidamente militare: il trasferimento forzato di popolazione palestinese da Gaza alla Libia e alla Siria.
È un progetto al limite della fantapolitica, ma già evocato da fonti statunitensi, smentito e poi rientrato sotto traccia.
In un Paese con appena 7,3 milioni di abitanti e già 800 mila migranti registrati, l’arrivo di un milione di nuovi cittadini significherebbe una trasformazione etno-demografica senza precedenti, oltre che una riformulazione totale degli equilibri di potere interni.

La Libia al centro della Geopolitica
Per Haftar, offrire cittadinanza significherebbe incassare una moneta geopolitica spendibile: più peso interno, più riconoscimento esterno, e – soprattutto – libertà d’azione sulle risorse del Paese.
Per gli altri attori, da Tel Aviv a Riad, sarebbe una “soluzione” al problema palestinese che sposta il fardello fuori dalla linea verde.
Alla fine, Sebha è solo un nome.
Ma dietro quel nome si muove un’intera ristrutturazione strategica del Mediterraneo allargato.
Una ristrutturazione in cui l’Italia, l’Europa e l’Occidente rischiano di essere spettatori disarmati, mentre nuovi attori – più cinici, più veloci, più spregiudicati – disegnano una mappa che non ci include più.
E quando un missile – vero o solo annunciato – viene puntato da Sud verso Nord, da Sebha verso Lampedusa, da Haftar verso Bruxelles, allora il Mediterraneo non è più il Mare Nostrum.
È un campo di battaglia senza fronti, senza legittimità, senza regole.
Ed è lì, nel deserto tra Fezzan e Tripolitania, che si misura il nostro smarrimento strategico. E forse, la nostra sconfitta.
*Presidente Cestudec (Centro Studi Strategici)
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