Di Giuseppe Gagliano
TEHERAN. L’Iran non smette mai di sorprendere.
Tra le sanzioni internazionali, le tensioni geopolitiche e una rete di stratagemmi degni di un romanzo di spionaggio, Teheran continua a tessere la sua tela per mantenere viva la propria economia petrolifera, nonostante il cappio delle restrizioni occidentali.
L’ultimo capitolo di questa saga si svolge in un luogo improbabile: i Tribunali di Panama, dove l’Iran sta cercando di reclamare le sue petroliere, pezzi chiave di quella che viene ormai chiamata la “flotta fantasma”.
È una Storia che mescola diritto internazionale, sotterfugi economici e la disperata necessità di aggirare l’isolamento imposto dagli Stati Uniti.
E, come spesso accade quando si parla di Iran, nulla è semplice come sembra.
Tutto inizia nel gennaio 2021, quando le Guardie Costiere indonesiane sequestrano due navi, la MT Horse, battente bandiera iraniana, e la MT Freya, registrata a Panama, nelle acque territoriali del Paese.

Nave MT Horse
L’accusa è chiara: le due petroliere, colte sul fatto alle 5:30 del mattino del 23 gennaio scorso, stavano effettuando un trasferimento illegale di petrolio, una pratica vietata dalle leggi marittime internazionali.
La MT Horse, una Very Large Crude Carrier (VLCC) di proprietà della National Iranian Tanker Company (NITC), era quasi piena, con una capacità di circa 2 milioni di barili di greggio.
La MT Freya, gestita dalla cinese Shanghai Future Ship Management Co, era invece quasi vuota, segno evidente di un’operazione di trasbordo clandestino.
Entrambe le navi avevano disattivato i loro sistemi di identificazione elettronica, non mostravano bandiere e ignoravano le richieste radio delle autorità indonesiane.
Un comportamento che grida “colpevole” da lontano.
Ma la vicenda non si ferma al sequestro. Dopo essere state scortate al Porto di Batam, le due navi sono diventate il centro di una contesa legale che si sposta a migliaia di chilometri di distanza, nei Tribunali di Panama.
Qui entra in gioco un intreccio di società fittizie, registrate a Hong Kong, che sostengono di essere le legittime proprietarie di tre petroliere, tra cui, presumibilmente, la MT Freya.
Queste entità, collegate alla compagnia di navigazione statale iraniana, sembrano essere parte di una strategia più ampia: mascherare la proprietà delle navi per eludere le sanzioni americane e continuare a smerciare petrolio sui mercati internazionali, soprattutto verso la Cina, che assorbe il 95% delle esportazioni iraniane di greggio.
La “flotta fantasma” iraniana non è una novità.
È un’armata di vecchie petroliere, spesso acquistate tramite intermediari oscuri, che navigano sotto bandiere di comodo – Panama, Liberia, Isole Marshall – per trasportare il petrolio di Teheran verso destinazioni compiacenti.
Queste navi, che compiono pochi viaggi all’anno, garantiscono profitti enormi ai loro proprietari, nonostante i rischi.
Il caso della MT Horse e della MT Freya è emblematico: l’Iran, con le sue raffinerie private che comprano greggio a prezzi scontati (10-12 dollari in meno rispetto al benchmark globale), usa queste operazioni per aggirare il sistema di sanzioni, pagando in yuan cinese invece che in dollari e proteggendo così le transazioni dalla longa manus di Washington.
Ma perché Panama? La risposta sta nel suo registro navale, noto per la sua flessibilità e per essere un rifugio per chi cerca discrezione.
L’Iran sta sfruttando i Tribunali panamensi per tentare di riottenere il controllo delle sue navi, appoggiandosi a una rete di prestanome e società di facciata.
È un gioco di specchi, dove la verità si perde tra documenti falsi e giurisdizioni compiacenti.
Le autorità indonesiane, nel frattempo, si trovano a gestire un caso che va ben oltre le loro acque territoriali, coinvolgendo potenze globali e interessi miliardari.
Questa vicenda ci dice molto sull’Iran di oggi.
Schiacciato dalle sanzioni, ma mai domo, il regime degli ayatollah ha perfezionato l’arte della sopravvivenza.
La flotta fantasma è solo uno degli strumenti con cui Teheran sfida l’Occidente, un’arma tanto economica quanto simbolica.
Eppure, c’è un’ironia amara: mentre l’Iran lotta per mantenere in vita il suo commercio petrolifero, il prezzo del greggio rischia di salire, colpendo proprio quei Paesi che vorrebbero isolarlo.
E gli Stati Uniti? Per ora osservano, incapaci di fermare del tutto questo traffico clandestino senza la collaborazione della Cina, che non ha alcun interesse a interrompere un affare tanto vantaggioso.
La MT Horse e la MT Freya sono ancora ferme, in attesa di un verdetto.
Ma la loro storia è già un simbolo: dell’astuzia iraniana, della fragilità delle sanzioni e di un mondo dove il diritto internazionale è spesso solo un’arma da usare nel grande gioco della geopolitica. Teheran, come sempre, gioca la sua partita.
E non è detto che perda.
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