Di Cristina Di Silvio*
WASHINGTON D.C. All’alba di oggi, un attacco com un drone israeliano ha colpito la chiesa cattolica della Sacra Famiglia, nel quartiere di al-Zaytun a Gaza City, l’unica parrocchia latina operante nella Striscia.
Tra i feriti, anche il parroco padre Gabriel Romanelli, figura centrale per la micro-comunità cattolica di Gaza, oggi ridotta a meno di 500 anime cristiani sfollati.
Il Patriarcato Latino di Gerusalemme ha riferito che si sono registrati 6 feriti di cui 2 in condizioni disperate. Non ci sarebbero vittime.
Tra i feriti, anche il parroco padre Gabriel Romanelli, figura centrale per la micro-comunità cattolica di Gaza, oggi ridotta a meno di 200 anime.
In un altro tempo, un evento simile sarebbe stato rubricato come effetto collaterale tragico, ma marginale.
Oggi, in una fase di transizione del conflitto israelo palestinese da guerra territoriale a conflitto identitario e simbolico, quel colpo ha un valore strategico. Non solo per ciò che distrugge, ma per ciò che comunica.
La chiesa non è solo pietra: è codice.
In un’area densamente popolata, dove le coordinate geospaziali di ogni edificio sono note ai sistemi ISR (Intelligence, Surveillance, Reconnaissance), dove ogni missione è pre-validata da algoritmi di discriminazione e confermata da catene di comando multilivello, il margine dell’errore si riduce statisticamente a frazioni di punto.
Colpire una chiesa – unica nel suo genere, nota per la sua funzione di rifugio per civili, sede di due scuole e di un ambulatorio – non è facilmente giustificabile come “danno collaterale”.
È, più probabilmente, l’esecuzione di una scelta operativa ad alto rischio e forte impatto semantico. In questo senso, l’attacco assume le sembianze di una Psy-op travestita da errore tattico.

La risposta internazionale non si è fatta attendere.
Il capo del Governo italiano Giorgia Meloni ha definito l’attacco “inaccettabile”, invocando il rispetto delle Convenzioni di Ginevra del 1949 e dei relativi Protocolli aggiuntivi, che vietano l’attacco a obiettivi civili non direttamente coinvolti nelle ostilità.

La IV Convenzione, in particolare, tutela le persone civili in tempo di guerra, comprese le strutture religiose, sanitarie ed educative, qualora non siano usate per scopi militari. Anche in assenza di prove formali di utilizzo militare della chiesa, l’onere della prova – secondo diritto internazionale umanitario – ricade su chi colpisce.
E Israele, pur difendendo il principio della necessità militare, non ha ancora fornito dati utili a escludere l’ipotesi di un attacco deliberato o di una violazione della “proporzionalità”.
Ma il caso della chiesa di Gaza non è isolato.
Già nell’ottobre 2023, un raid aveva distrutto parte della chiesa ortodossa di San Porfirio, causando la morte di 18 civili. All’epoca, come oggi, si parlò di “errore operativo”.
Ma la reiterazione di eventi simili, in un teatro di operazioni dove le regole di ingaggio sono definite con precisione chirurgica, solleva una domanda scomoda: è davvero errore, o è dottrina?
Ieri, solo 24 ore prima, Israele aveva colpito Damasco.
Raid mirati hanno devastato strutture militari strategiche: il Ministero della Difesa, il Quartier generale dell’Esercito siriano, aree limitrofe al palazzo presidenziale.
Fonti non ufficiali parlano di tre morti e trenta feriti.
Il pretesto operativo: proteggere la minoranza drusa nella provincia meridionale di Sweida, coinvolta in scontri interni con forze alawite e gruppi armati filoiraniani.

La vera posta in gioco è, però, più profonda: riaffermare la centralità strategica di Israele nella definizione dell’ordine regionale post-statuale, in un momento di fragilità siriana e di riconfigurazione delle alleanze arabo-persiane.
Gaza e Damasco: due fronti, una dottrina.
Tel Aviv non colpisce solo obiettivi militari. Colpisce simboli. Luoghi. Memorie.
Le bombe non cadono più solo su comandi nemici, ma su infrastrutture civili dal valore semiotico universale: ospedali, scuole, chiese.
Il principio è noto nei manuali di strategia militare: “shaping the battlefield”, plasmare il campo prima del combattimento.
Qui, il campo è la mente collettiva. L’attacco alla chiesa serve a disarticolare ogni potenziale piattaforma di coesistenza interreligiosa.
L’attacco a Damasco serve a riaffermare la deterrenza extraterritoriale.
In entrambi i casi, la finalità è dissuasiva, non immediatamente operativa. È guerra di percezione, non solo di posizione.
Il diritto internazionale, in questa nuova guerra, mostra le sue crepe.
Le Convenzioni di Ginevra, la Carta dell’ONU, persino le più recenti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sull’uso della forza, sono strumenti pensati per una guerra tra Stati, non per una guerra mista, ibrida, combattuta tra attori statuali, entità non riconosciute, milizie urbane e fronti religiosi.
La guerra moderna nel Levante è una guerra post-statale. E in essa, il diritto diventa – in molti casi – strumento di legittimazione, non più di protezione.
La dimensione religiosa è la faglia profonda del conflitto.
Israele, Stato a maggioranza ebraica in un contesto mediorientale musulmano, si scontra non solo con entità ostili sul piano geopolitico, ma con una visione del mondo alternativa e radicata in un Islam sunnita dominante, da cui discendono l’influenza saudita, qatariota e turca, e l’antagonismo permanente con le componenti sciite, cristiane, druse, alawite.
Il colpo alla chiesa cattolica non è, dunque, un episodio isolato: è il riflesso operativo di una guerra tra concezioni identitarie inconciliabili.
E come insegna la storia – dalle Crociate alla guerra civile libanese – le guerre religiose non conoscono tregue durature.

Il teatro mediorientale post-2025 appare come un campo minato semiotico. Le bombe distruggono, ma più ancora raccontano.
Chi colpisce una chiesa manda un messaggio al Vaticano, a Parigi, a Washington.
Chi bombarda Damasco parla a Mosca, a Teheran, ad Ankara. Ogni colpo è un paragrafo di una narrazione strategica globale. E ogni silenzio, una complicità.
Nel medio termine, gli effetti saranno molteplici.
La comunità cristiana di Gaza, già minoritaria e fragile, è sull’orlo dell’estinzione.
La diplomazia europea si trova schiacciata tra l’Alleanza atlantica e l’obbligo morale di difendere i simboli religiosi condivisi.
Le monarchie sunnite del Golfo, pur ostili a Hamas, iniziano a prendere le distanze dall’“eccesso” israeliano.
E Hamas, paradossalmente, guadagna consensi: non perché abbia vinto sul campo, ma perché l’ingiustizia percepita rafforza la sua narrazione di resistenza.
Il rischio strategico è chiaro. In un contesto già instabile, la guerra contro i simboli può produrre effetti inversi: radicalizzazione diffusa, legittimazione dei movimenti armati, crisi diplomatica sistemica.
La guerra di Israele, nata come guerra per la sicurezza, rischia di trasformarsi in una guerra per l’egemonia percettiva, dove il costo della vittoria potrebbe superare quello della sconfitta.
Così, sotto le macerie della Sacra Famiglia, non giace solo una chiesa.
Ma l’idea – fragile, mai del tutto realizzata – che in Medio Oriente la convivenza sia ancora possibile.
Se questo era l’obiettivo da abbattere, allora la missione è riuscita. Ma a quale prezzo?
*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)
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