Di Paola Ducci*
PYRAMIDEN (NORVEGIA). A Pyramiden lo spazio liminale (liminal space) è in tutto ciò che l’occhio del visitatore può vedere: nei libri ancora aperti sui banchi, nelle mappe e nei disegni appesi alle pareti della scuola.

Negli sci ancora nei corridoi, nelle tazze sui tavoli delle cucine con i segni delle labbra, maglioni sul bordo di un letto, sullo schienale di una sedia in metallo.
Nei giochi dei bambini, intatti, Pyramiden è ancora piena di segni dell’uomo, ma abitata solo da manufatti umani. Come se, improvvisamente, tutti fossero scomparsi lasciando tracce del loro quotidiano, come in una evacuazione improvvisa o in una inquietante sparizione collettiva, risucchiati dal gelo come in un film distopico.
E, fuori dalle finestre, nel ghiaccio, il busto di Lenin, il Monte Pyramiden, gli orsi polari.
Il silenzio artico.
Pyramiden era un insediamento minerario sovietico nel cuore dell’Arcipelago delle Svalbard, a Nord della Norvegia a 1.000 kilometri dal circolo polare artico.
Fondata dalla Svezia nel 1910 e venduta all’Unione Sovietica nel 1927, Pyramiden fu trasformata in un modello di comunità socialista autosufficiente e per decenni è stato un simbolo di orgoglio socialista e di conquista artica.
Qui, nel nulla polare, i sovietici costruirono una vera e propria utopia: edifici moderni, la scuola, una piscina olimpionica (la più a nord del mondo), una biblioteca, un teatro, una serra per coltivare ortaggi freschi e persino il busto di Lenin che ancora oggi guarda verso il ghiacciaio Nordenskiöld.

Durante gli anni ’70 e ’80 Pyramiden visse il suo apice: oltre 1000 abitanti, perlopiù ucraini provenienti dal Donbass, vivevano qui in una comunità autosufficiente e ben organizzata.
La città era dotata di ogni comfort e la vita quotidiana era scandita dal lavoro nella miniera di carbone, gestita dalla Compagnia statale russa Arktikugol, ma anche da attività culturali e sportive che riflettevano l’ideale sovietico di una società armoniosa.
I bambini frequentavano la scuola, le famiglie partecipavano a concerti e spettacoli e il cibo arrivava regolarmente dalla Russia.
In un contesto così estremo e implacabile, dove l’inverno dura nove mesi e le temperature scendono sotto i -30°C, Pyramiden rappresentava un esperimento sociale vincente: dimostrare che il socialismo poteva prosperare anche ai confini del mondo.
Ma i tempi cambiano e così le utopie. I prezzi del carbone in calo e le difficoltà logistiche per approvvigionare un luogo così estremo resero difficile continuare nel progetto.
E un tragico, fatale incidente aereo in cui persero la vita 141 persone di cui molte dirette proprio a Pyramiden, nel 1998, impose la chiusura della miniera e decretò la fine della città nel ghiaccio.
Era il 10 ottobre di quell’anno quando l’ultimo residente lasciò la città artica, abbandonando tutto come era.
Nessuno di loro ha portato via da Pyramiden le proprie cose, oggetti, giocattoli, piccoli ricordi di una vita che è stata. Oggi a Pyramiden sono gli oggetti a raccontare la storia.
Il gelo artico e il tempo hanno fatto il resto. Qui tutto è rimasto intatto, trasformando Pyramiden in una città fantasma che ha oggi una nuova vita grazie ai turisti che desiderano visitarla. Visitatori, viaggiatori, curiosi.
Resta il mistero di un abbandono così rapido, così inusuale, e quello spazio liminale che si è creato fra il passato e il presente, come una crepa del tempo perfettamente conservata. Qui, nel silenzio del ghiaccio, le storie di chi vi ha abitato continuano a parlare.
*Editor per l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore della Difesa
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