Di Vincenzo Santo*
L’AJA (PAESI BASSI).. Umberto Rapetto, giornalista del Quotidiano del Sud, io non lo conosco.
Un suo recente articolo mi è stato inviato l’altro giorno dal titolo “Netanyahu sapeva del 7 ottobre? Una scusa per eliminare Gaza”. Una domanda a cui è seguita una certezza.
Insomma, con tutte le pieghe possibili nelle vicissitudini di quel Governo, lui vorrebbe che ci chiedessimo se Netanyahu sapesse del 7 ottobre e ci convincessimo di questa ipotesi.
Ci sta. Si vuole trasmettere un dubbio, un modo di tentare di fare uno scoop. Tuttavia, questa idea non è affatto cosa nuova, sia chiaro. Diciamo pure che il dubbio, o ipotesi, è venuta a galla già la sera stessa del 7 ottobre.
È infatti roba nota, trita e ritrita, l’ipotesi che sia stato una sorta di suicidio cercato, un casus belli per intenderci.
La storia ne racconta tanti. Ed è da tempo che l’oppositore Lapid ne ha parlato per la prima volta.
Quindi, non mi suscita alcun stupore. Così come non mi stupisco nell’apprendere che la Corte Penale Internazionale abbia spiccato un mandato di arresto per Netanyahu e per l’allora suo ministro della difesa, Gallant.
Ricordo che c’erano, per una ridicola par condicio, stesse richieste per Sinwar e Haniyeh, poi eliminati dall’IDF.
Il procuratore della Corte ne aveva fatta richiesta mesi fa, quasi in concomitanza con un’altra brillante decisione di un altro tribunale, la Corte Internazionale di Giustizia, che intimava a Israele di sospendere le operazioni a Rafah. Da non credere.
Quindi, Netanyahu sapeva e l’ha fatto accadere perché in questo modo si sarebbe creata un’insperata ma preziosa occasione per fare piazza pulita in Gaza? Può essere, e figuriamoci se ora mi metto a discutere se sia vero o falso. Esclamo solo, e sono crudo: “e chi se ne frega!”. Se la vedano gli israeliani e mettano su tutte le commissioni d’inchiesta che vogliono. Se poi sono come quelle nostrane … .
La sopravvivenza e con essa la sicurezza dei propri cittadini e della propria comunità – messa giornalmente a dura prova questa, e quella invece resa incerta e temporanea come fissato da sempre negli statuti terroristici dei due bracci armati di Teheran, Hamas e Hezbollah – è uno degli interessi di uno stato.
Come conseguirli e con che cosa dovrebbe avere poca importanza per l’osservatore esterno. Ma capisco l’ormai irrefrenabile spinta ciarlatana a vestire il ruolo moralizzante da parte di chi non si accontenta più del bancone del bar e quel bar lo vuole allargare.
Del resto, anche la carta stampata, o digitale, si è adeguata all’andazzo della comunicazione “a onde”, radio e televisione, per soddisfare un pubblico sempre più abituato a contenuti che richiedono un grado minimo, e spesso nullo, di rielaborazione. Una pericolosa passivizzazione che trasforma il lettore, potenzialmente in grado di interpretare con lettura e approfondimento, in semplice spettatore.
Una sorta di karaoke remoto che rende ricchi i tanti presunti esperti e anchormen e favorisce la socializzazione della chiacchiera da bar ovunque e nel peggior mondo possibile nella comunicazione via social. Tutti sanno tutti e uno vale uno. Una catastrofe.
E, tornando al tema, questi bar allargati si trovano quasi sempre al caldo, in comode poltrone e soprattutto ben lontani dall’angoscia quotidiana di imbattersi in un assassino. Offrendo dispute accattivanti sul giustificare decisioni ed eventi sfuggendo al livello superiore di comprenderne le motivazioni.
Privilegiando l’indignazione all’esercizio del pensiero.
Tanto per esemplificare, possiamo indignarci, ora per allora, per le due bombe atomiche sulle città giapponesi, atti ingiusti e immorali, cioè possiamo attribuirgli il peggio del peggio nella categoria morale, ma furono azioni risolutive e, probabilmente, sotto l’aspetto etico del “consequenzialismo” anche un bene.
Del resto, c’è altro modo di definire quanto un atto sia stato un bene per la moltitudine se non vedendone le buone conseguenze anche se non avrà prodotto la completa soddisfazione di una parte delle gente? In questo, prendo spunto dall’utilitarismo negativo.
Comunque, l’oscillare nel decidere cosa sia il bene e cosa sia il male ha impegnato stuoli di studiosi e filosofi e certamente non ci riuscirò io con queste righe nel dirimere i dubbi. Tuttavia, la cosa peggiore che si possa fare è trasporre a livello etico le nostre sensibilità morali, semplicemente con ciò che riteniamo sia giusto oppure iniquo.
Noi possiamo serenamente condannare Netanyahu per tutto ciò che fa e ha fatto – e mi piacerebbe vedere cosa farebbe lo stesso Yair Lapid al suo posto – ma il terrorismo palestinese ha passato il limite. E questo noi occidentali l’abbiamo scordato già la settimana dopo quel 7 ottobre, sin dal primo sparo israeliano.
Comunque, che un oppositore come Lapid abbia tirato fuori questa storia ci sta. Le democrazie hanno questo vantaggio. Gli oppositori di Hamas a Gaza farebbero ben altra fine, e dopo indicibili cicli di torture.
Ma all’inferno terroristico di Gaza occorreva porre fine.
Ed è una guerra, non una semplice operazione di polizia. Grande differenza che sfugge, anche pretestuosamente, a troppi.
Riuscirà Israele nell’aver ragione di quei terroristi una volta per tutte? Lo vedremo, ma due cose sono per me certe: l’inevitabilità di perdite umane e il battage mediatico che ne consegue non fanno altro che rinforzare il morale di questi assassini e il loro convincimento di essere vittime sostenute dal mondo intero, quando invece sono falsi eroi, falsi campioni e falsi martiri.
Che questa guerra si conduca in un contesto fortemente urbanizzato, in cui la società civile non riesce a sfuggire a quell’inferno, sembra non suggerire nulla sulla tragica condotta di un combattimento “porta a porta” a chi tenacemente e con doppi fini continua a puntare l’informazione su “conta e riporto” delle vittime civili, sempre donne e bambini, a causa del fuoco delle forze israeliane. Interventi che, secondo questa linea comunicativa, non mancano di usare come bersagli strutture “sensibili”, ospedali o centri di accoglienza vari.
Queste vittime ci sono, purtroppo, ma sono appunto inevitabili in quel contesto. E non scommetto sull’inesistenza di atti da condannare, laddove la mancanza di leadership in campo israeliano abbia talvolta consentito che la violenza si trasformasse per rabbia in crudeltà.
Gaza era ed è ancora un covo per terroristi e macellai. Una banda di assassini che tiene un intero popolo, il suo stesso popolo, gli arabi di Palestina, letteralmente ostaggio sacrificale e, allo stesso tempo, nel quotidiano terrore le comunità israeliane oltre confine.
Un popolo, quello degli arabi palestinesi, che è stato effettivamente illuso di poter avere uno stato e in questo fatto prigioniero dagli interessi dei vicini arabi e dagli stessi imperi occidentali. Ma anche ingannato nel fargli credere, nonostante gli eventi bellici, che l’emergere del “problema palestinese” sarebbe stato utile a soddisfare quella sua legittima ambizione, tacendo sul fatto che sarebbe rimasto per decenni solo quello, un problema.
Di tanto in tanto arricchito da belle parole e tante effusioni d’amicizia nei consessi internazionali, dalle risoluzioni delle Nazioni Unite ai vari riconoscimenti, perfettamente inutili, di uno Stato di Palestina.
Il più delle volte strumentalizzati per ragioni di politica interna. Un virus diffuso di proposito mascherando con favole belle e confortanti l’incapacità di ottenere una sintesi tra il diritto innegabile per i palestinesi di avere un proprio stato con il diritto irrinunciabile per gli israeliani di vivere in sicurezza. Un virus che in campo palestinese ha generato la certezza non solo di aver ragione ma di essere anche dalla parte del bene.
Morale mischiata all’etica. Una grande confusione!
Un popolo che, senza quel virus e senza le sanguinose vicissitudini che ne sono scaturite, con le inevitabili ripercussioni in termini di vendetta, sospetto e rivendicazione, ora potrebbe forse già godere di una sostanziale cittadinanza, senza generare gelosie sentimentali sacrali per quella terra e timori demografici.
Il background, all’osso, è questo. Ripeto, il fatto che Netanyahu lo sapesse e ne abbia approfittato mi lascia indifferente.
Anche Golda Meir, l’allora premier israeliano, ebrea ucraina, nel 1973 sapeva di un imminente attacco che gli arabi stavano per sferrare.
Ma non volle procedere come era avvenuto nel 1967, con un attacco preventivo, perché l’opinione internazionale non “avrebbe capito”. Si pensi un po’ a cosa sarebbe accaduto nell’immaginario collettivo, trascinato dalla consueta comunicazione, se questa volta Netanyahu avesse deciso invece di intervenire preventivamente.
Tuttavia, se l’obiettivo di Netanyahu è quello di crearsi un “Grande Israele” e se questo obiettivo strategico potrà domani sottendere un quadro di situazione più sicuro per il proprio popolo, ma anche per i palestinesi stessi, sta nelle cose tristi della storia dell’umanità.
Pur assistendo a gruppi di palestinesi che preferiscono migrare, magari per il timore di vivere con uno status “minoritario”, cosa che io francamente non posso escludere.
La demografia, purtroppo, ha le sue dinamiche e risvolti che possono essere spiacevoli quando subentrano sfiducia e paura.
Gli arabi hanno perso le guerre, nel 1948, nel 1967 e nel 1973, pur avendo tutta l’intenzione di annientare Israele.
E, da non dimenticare, gli arabi di Palestina non sono stati dei semplici osservatori privilegiati di quelle stesse guerre, vi hanno preso parte e per di più le hanno continuate a modo loro, utilizzando l’arma del terrorismo.
So che risulta di sicuro ruvido e anche duro da accettare per le nostre sensibilità ormai addomesticate a decenni di serenità e quieto vivere. Purtroppo, ciò che non riusciamo ad accettare, sebbene financo i nostri padri lo abbiano vissuto e raccontato, l’inevitabilità delle conseguenze fa parte del gioco delle parti e le guerre hanno conseguenze, sempre dolorose se sconfitti.
Le nostre sconfitte militari e le mortificanti perdite di territorio, con colonne di esuli che hanno dovuto abbandonare le proprie cose, le abbiamo dimenticate e, peggio, abbiamo scordato il motivo di quegli eventi. Sarebbe bello non ripetere quelle dolorose esperienze e non farle vivere a nessun altro, non c’è dubbio. Ma basterebbe non crearne le premesse.
E tuttavia, siamo riusciti nell’impresa di far scordare agli stessi palestinesi questa dura realtà, quella delle conseguenze di scelte sbagliate o comunque perdenti.
Gli abbiamo persino perdonato non solo le imprese terroristiche in giro per il mondo, non scordiamocelo, ma anche il loro appoggio a Saddam Hussein nella sua impresa di annettersi il Kuwait.
Di fatto avvalorando con quella invasione l’acquisizione di terra altrui a seguito di una guerra offensiva.
Contro tutte le norme internazionali che, nella questione della Palestina, sebbene la narrazione ci dica ripetutamente questo, Israele non ha affatto disatteso. Perché ciò che viene venduta come “occupazione”, lo è stata a seguito di una guerra difensiva. E, ancora oggi, data l’esperienza, la Cisgiordania garantisce la necessaria profondità strategica, un concetto militare tuttora irrinunciabile. Almeno sino a quando le condizioni di sicurezza non cambino.
Per inciso, non ricordo la medesima accusa rivolta, e sarebbe stata invece corretta, all’occupazione per quasi 20 anni da parte di Giordania ed Egitto rispettivamente di Cisgiordania e Gaza.
Grande Israele o grande Palestina araba? Entrambi, da sempre, ricercano la medesima cosa, se non altro le fazioni più irrazionali dei due fronti, ma sono queste che a tempi alterni hanno pilotato le rispettive partite. Il molto poco conosciuto “Ten Points Program” di Arafat ancora esiste, alla stessa stregua delle ambizioni territoriali dei più fanatici gruppi ebraici.
E il male-detto “from the river to the sea” ha migrato dalle labbra del Likud nei primi anni ’70 a quelle di Hamas, mettendo qui, nella gola dei terroristi, radici profonde. E su quelle dei tanti manifestanti, ignavi e ignari delle pieghe della martoriata storia di questa lunga vicenda.
Non mi stupirei più di tanto se una mattina nel leggere le notizie scoprissi che il Governo israeliano ha di fatto annesso tutta o parte della Cisgiordania e ripreso sotto controllo Gaza.
Non è una previsione, ovviamente, dico solo che non mi stupirei. Il motivo è che stiamo isolando Israele. Pericolosamente. E, come prima accennato, anche grazie a una giustizia internazionale che io credo non abbia il senso della realtà.
L’ordine di cattura per Netanyahu, spiccato dal Tribunale Penale Internazionale è comunque una ridicola inutilità ma anche pericolosa. La presunzione di poter assurgere ad arbitri del diritto umanitario “guerra durante”, quasi fosse un incontro di rugby, è per me aberrante e anche ipocrita. E si sa che l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio offre alla virtù.
Giustizia “viziata” da un approccio sbagliato nel voler mettere sullo stesso piano terroristi e rappresentanti di un governo democratico e liberale, incastonato in un’area sismica, soggetta a forti tensioni, strategiche e storiche. Comportamento autoreferenziale e anche sintomatico della superficialità di potersi fidare di prove ritenute sostanziali, ma fornite chissà da chi.
Questo ben al di là della giurisdizione reale ed effettiva di questa magistratura.
Un consesso voluto da Clinton e, paradossalmente, respinto subito dagli stessi americani che ne avevano correttamente fiutato la pericolosità nel dettare indirettamente l’opinione pubblica su chi avrebbe artatamente vestito il ruolo del “cattivo”.
Questi giudici sbagliano e non fanno altro che delegittimare completamente il loro stesso mandato di amministrare giustizia. Peggio, ma evidentemente non se ne rendono conto, concorrono a dare forza alla presunta legittimità della macelleria a cielo aperto del 7 ottobre. Di fatto processano un paese intero con la scusa di colpire un individuo. Ed è per questo che l’individuo, chiunque, se provato, va processato alla fine di un conflitto. Vero è che purtroppo la giustizia internazionale tende a premiare chi vince. Ma non è che con menzogne e formule pretestuose si arriverà mai a poterla applicare anche agli eventuali colpevoli della parte uscita vincitrice da una contesa.
Infine, se uno Stato membro non è convinto di questo atto, non lo esegue. Già accaduto. In più, dichiarazioni sul tema che coinvolgano rappresentanti istituzionali vanno evitate e le domande rispedite al mittente. Ma capisco la voglia irrefrenabile di “esserci”.
Il punto finale è se davvero noi crediamo possibile un momento di confronto con cui concretizzare una pacificazione tra le parti, inclusi Libano e Siria, dopo i drammi dal 7 ottobre in poi.
Con il dilemma (o paradosso) del prigioniero (quello della teoria dei giochi), che da sempre domina qualsiasi discorso utile a “trattare” in questo quadrante, dove la sfiducia ha generato fiumi di sangue, diviene francamente difficile sperarlo. Soprattutto, di poterlo fare con l’attuale regime teocratico a Teheran, che della questione palestinese ha fatto un puntello insostituibile della sua politica di potenza.
E anche crollasse, siamo sicuri che non subentri un altro attore, non arabo, forse anche più pericoloso per via del suo datato e forse consolidato legame con un’alleanza occidentale?
*Generale di Corpo d’Armata (ris) dell’Esercito
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