Di Cristina Di Silvio*
WASHINGTON D.C. Nel settembre 1993, sul prato della Casa Bianca si consumò un’immagine destinata a segnare una svolta storica: il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e il leader palestinese Yasser Arafat si strinsero la mano sotto lo sguardo soddisfatto del Presidente americano Bill Clinton.

Quel gesto, coronamento degli Accordi di Oslo – negoziati riservati nella capitale norvegese – sanciva il principio di “Due Popoli, Due Stati”, una cornice politico-diplomatica che, per la prima volta, riconosceva ufficialmente Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) come interlocutori legittimi.
L’ambizione era radicale: realizzare, entro cinque anni, uno Stato palestinese indipendente affiancato a quello israeliano, ponendo fine a un conflitto che da decenni dilaniava il Medio Oriente.
Quel riconoscimento reciproco sembrava capace di riscrivere la mappa strategica della regione.
Tuttavia, a trent’anni di distanza, quell’orizzonte si è dissolto sotto il peso di contraddizioni strutturali, mutamenti geopolitici e dinamiche securitarie che hanno progressivamente eroso la legittimità del paradigma negoziale, spingendo a riflettere non soltanto sul fallimento tecnico degli accordi, ma sul collasso dell’intera architettura concettuale su cui essi si fondavano.
Gli Accordi di Oslo I (1993) e II (1995) rappresentarono una cesura nella tradizione diplomatica mediorientale: per la prima volta, Israele e l’OLP si impegnavano in un processo multilivello, articolato in fasi progressive, che avrebbe dovuto condurre alla pace.
L’accordo prevedeva la creazione di un’autonomia palestinese provvisoria formalizzata nell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), con competenza sulle Aree A e B della Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza, mentre le Aree C, che rappresentano circa il 60% della Cisgiordania e custodiscono le principali risorse strategiche, restavano sotto controllo israeliano.
Tuttavia, le questioni più sensibili – il futuro di Gerusalemme, i confini definitivi, il diritto al ritorno dei rifugiati, la sicurezza e la sorte degli insediamenti – furono rinviate a una data indefinita.
Questo rinvio, motivato dalla volontà di garantire stabilità nel breve periodo, si rivelò invece un fattore di disgregazione nel medio-lungo termine: l’assenza di vincoli giuridici stringenti e di un meccanismo di enforcement internazionale lasciò spazio ad ambiguità che svuotarono progressivamente il processo negoziale di ogni efficacia. Fondamentale fu inoltre l’asimmetria politica e militare tra le parti. Israele, Stato sovrano con capacità di deterrenza armata e forza diplomatica consolidata, si contrapponeva a un’entità – l’OLP – priva di controllo territoriale effettivo e riconoscimento internazionale pieno.
Questa disparità comprometteva la negoziazione paritaria, rendendo le concessioni israeliane reversibili e quelle palestinesi irrevocabili.
Senza una terzietà vincolante – né ONU, né Unione Europea, né Stati Uniti esercitarono un ruolo di garanti effettivi – il processo si arenò, mentre sul terreno si consolidava una realtà ben diversa da quella auspicata. Nel trentennio successivo, le dinamiche territoriali e militari si sono infatti evolute in modo antitetico rispetto agli obiettivi originari.

L’espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania è divenuta il principale vettore di destabilizzazione strategica: dai circa 100 mila coloni del 1993 si è passati a oltre 700 mila in questi mesi del 2025, distribuiti in una rete complessa di più di 200 insediamenti e avamposti, molti dei quali considerati illegali dal diritto internazionale.
Questa proliferazione ha frammentato irreversibilmente la continuità geografica del futuro Stato palestinese, rendendo logisticamente impraticabile qualsiasi ipotesi di sovranità autonoma. Parallelamente, la gestione della sicurezza ha assunto caratteristiche di un dispositivo di contenimento armato a bassa intensità.
La militarizzazione della Cisgiordania, le misure di sorveglianza costante, le restrizioni alla mobilità e l’uso frequente della forza configurano un sistema di controllo securitario che viola in modo sistematico il diritto internazionale umanitario e le risoluzioni ONU, con ripercussioni profonde sulla coesione sociale palestinese e la stabilità regionale.
Il caso della Striscia di Gaza è ancor più emblematico e tragico.

Dopo il disimpegno unilaterale israeliano del 2005 e la presa del potere da parte di Hamas nel 2007, il territorio si è trasformato in un’enclave assediata, sottoposta a un blocco totale via terra, mare e aria, interrotto solo da brevi tregue umanitarie.
Le successive operazioni militari – Piombo Fuso (2008-09), Margine Protettivo (2014), Spada di Gerusalemme (2021), Tempesta di Al-Aqsa (2023) – hanno consolidato uno scenario di conflitto intermittente ma ad alta intensità, caratterizzato da gravi perdite civili e danni infrastrutturali ingenti.
Gaza si configura così come un territorio sospeso, né Stato né entità autonoma, né sotto controllo israeliano diretto.
Un campo di battaglia permanente e una variabile strategica fuori scala, che sfugge ai codici classici della sovranità e della diplomazia. Il massacro sistematico che Israele sta compiendo a Gaza, con distruzioni su vasta scala e vittime civili innumerevoli, rappresenta un drammatico punto di rottura, sollevando inquietanti interrogativi sul rispetto del diritto internazionale umanitario e sulle responsabilità della comunità internazionale. La crisi si acuisce ulteriormente sul piano politico interno palestinese.

La frattura verticale tra l’ANP – percepita come élite inefficace e collusa, pur sostenuta dall’Occidente – e Hamas, isolato sul piano internazionale ma titolare del controllo operativo su Gaza, ha prodotto una paralisi istituzionale totale e l’assenza di un interlocutore politico unitario.
Questa disarticolazione delegittima ogni tentativo di iniziativa diplomatica seria e alimenta una retorica diffusa di irriformabilità, complicando ulteriormente la possibilità di un accordo duraturo.
Sul versante israeliano, la radicalizzazione politica e l’ascesa di forze religiose e ultranazionaliste, insieme alla stabilizzazione di un sistema securitario espansivo, hanno dato vita a una dottrina dello status quo armato.
Essa si configura come un conflitto congelato, sorvegliato militarmente, tollerato diplomaticamente e giustificato internamente come garante della sicurezza nazionale.
La strategia è stata ulteriormente consolidata dagli Accordi di Abramo del 2020, che hanno consentito a Israele di normalizzare le relazioni con diversi Stati arabi senza alcun vincolo negoziale sulla questione palestinese, relegando così la causa palestinese a un ruolo marginale nella strategia regionale.
Il mancato superamento di questa questione costituisce un vulnus strategico permanente per la stabilità dell’intera regione. In questo quadro complesso e drammatico si profilano tre possibili traiettorie strategiche per il futuro.
La prima, e più probabile, è la prosecuzione dello status quo, fondato sul controllo militare, la frammentazione amministrativa e una crisi umanitaria cronica, con il rischio di una radicalizzazione diffusa, instabilità prolungata e l’eventuale istituzionalizzazione di un regime di apartheid de facto.
La seconda ipotesi è quella dello Stato unico binazionale, scenario teoricamente rivoluzionario ma politicamente impraticabile nell’attuale contesto, poiché si scontra con la visione identitaria israeliana che percepisce l’integrazione paritaria come una minaccia esistenziale alla natura ebraica dello Stato.
La terza possibilità, forse la più auspicabile, è la costruzione di una nuova architettura multilaterale regionale, un processo negoziale ripensato e sostenuto da attori esterni in grado di esercitare una pressione sistemica, quali Stati Uniti, Unione Europea, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Turchia e Giordania.
Questo percorso dovrebbe articolarsi su tre pilastri fondamentali: la definizione negoziale di uno Stato palestinese funzionale, un piano di sviluppo economico e infrastrutturale ispirato al modello del Piano Marshall e un framework di sicurezza condivisa con garanzie internazionali vincolanti.
Solo un’architettura multilivello fondata su governance, deterrenza e cooperazione strutturata potrà aspirare a ricomporre una frattura divenuta ormai sistemica.
A 30 anni dagli Accordi di Oslo, ciò che resta non è un modello da riformare, ma una struttura da rifondare.
Il paradigma “Due Popoli, Due Stati” ha perso gran parte della sua legittimità operativa, sebbene rimanga un riferimento simbolico.
La sua sopravvivenza dipenderà dalla capacità del sistema internazionale di uscire dalla retorica della neutralità per adottare una nuova dottrina geopolitica, fondata sul multilateralismo vincolante, la co-responsabilità degli attori regionali e la ridefinizione delle priorità strategiche.
La questione israelo-palestinese non è più una semplice disputa territoriale, bensì il banco di prova della capacità del sistema globale di affrontare – o perpetuare – i conflitti strutturali del nostro tempo, sotto la spada di Damocle di una tragedia umanitaria senza precedenti nella Striscia di Gaza.
*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)
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