Ricostruzione di Gaza: parla l’architetto Jacopo Galli, responsabile scientifico del progetto UNDP e Università IUAV di Venezia. Come modello urbano si ragiona per elementi finiti alla scala del quartiere o della piccola città

VENEZIA. E’ pronto un progetto dell’UNDP (United Nations Development Programme) del Regional Bureau for Arab States – l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa del tema dello sviluppo nei 19 Paesi arabi) e dell’Università IUAV di Venezia per ricostruire Gaza.

Su questo tema Report Difesa ha intervistato l’architetto Jacopo Galli, professore associato in Composizione architettonica all’Università IUAV di Venezia e responsabile scientifico del progetto.

Un’immagine del bombardamento di Gaza

 

Architetto Galli, quali sono le strategie che avete ipotizzato per la ricostruzione di Gaza?

La ricostruzione deve innanzitutto essere affrontata come un processo e non come un progetto.

Non è immaginabile definire a priori una condizione fissa da raggiungere ma si può invece ipotizzare un modello urbano e cercare di mettere in campo gli strumenti concettuali e operativi perché tutti gli attori coinvolti possano muoversi verso un orizzonte condiviso.

Pensare alla ricostruzione in forma processuale consente di controllare progressivamente l’evoluzione della forma urbana e allo stesso tempo di agire su elementi fondamentali come la garanzia di lavoro diffuso per la popolazione locale, il controllo dei sistemi di produzione dei componenti edilizi o le forme di finanziamento.

Solo un sistema in grado di inserire tutte le variabili all’interno di un processo comune può pensare di avere un impatto significativo e di garantire una ricostruzione di qualità.

Un’immagine del progetto per la ricostruzione di Gaza

 

Dal punto di vista del modello urbano noi proponiamo di ragionare per elementi finiti alla scala del quartiere o della piccola città, le chiamiamo cellule urbane e le immaginiamo come brani di tessuto urbano omogeneo in cui siano presenti residenze, servizi pubblici, spazi commerciali e in generale tutte le funzioni necessarie.

La cellula urbana ha un enorme vantaggio: avendo una dimensione finita e quantificabile è possibile controllarne con un certo livello di efficacia lo sviluppo e avere tempi certi per la realizzazione oltre a un controllo dei costi.

È un passaggio fondamentale perché troppo spesso negli ultimi anni le ricostruzioni non sono state in grado di raggiungere una configurazione conclusiva e sono state abbandonate in corso d’opera portando a enormi sprechi economici e giganteschi problemi sociali che possono scatenare una ricorrenza dei conflitti.

Il 1° Ottobre 2023 la IUAV firmò un accordo quando con 19 Paesi arabi (l’ufficio di UNDP che rappresenta i 19 Stati arabi). Faranno parte anche loro del progetto? Saranno interessati anche altri Atenei e Centri europei?

Ad inizio ottobre 2023, dopo mesi di discussioni, abbiamo firmato un accordo con UNDP Regional Bureau for Arab States, l’organizzazione delle Nazioni unite che si occupa del tema dello sviluppo nei 19 Paesi arabi (un’area che si estende grossomodo dal Marocco all’Iraq).

Si è trattato di un riconoscimento della bontà delle idee che abbiamo sviluppato in più di dieci anni di ricerche.

La domanda che ci veniva posta era dare consulenza ai diversi uffici locali sui temi del progetto alle diverse scale.

 Dopo il 7 ottobre ci è stato richiesto immediatamente di ragionare sulla Palestina e siamo stati chiamati a presentare una ipotesi alla riunione annuale degli uffici nazionali di UNDP.

Qui abbiamo conosciuto i colleghi di PAPP (Programme of Assistance to the Palestinian People) e da allora collaboriamo strettamente con loro per fornire consulenza strategica sugli scenari di intervento riguardanti la Striscia di Gaza.

Oltre alla collaborazione con UNDP, in questi anni ,stiamo sviluppando una importante rete di contatti con le università del mondo arabo, andando a reinverdire una attitudine storica di Venezia come ponte tra Oriente e Occidente.

Abbiamo accordi e contatti diretti con Università importanti come l’American University in Beirut, la Lebanese American University, l’Università di Damasco, la Birzeit University, la Jordan University, la Qatar University e l’American University of Sharjah.

Pensiamo che il dialogo diretto con centri accademici locali sia una delle necessità principi per costruire strategie di intervento credibili e adatte.

 Sarà uno progetto solo di tipo architettonico o è supportato anche da schede di tipo sociologico? Da questo progetto che Gaza sarà per il futuro?

 La Gaza del futuro sarà decisa dai palestinesi, noi forniamo consulenza alle Nazioni Unite per individuare le scelte strategiche che riteniamo più adeguate: si tratta di considerazioni che vanno dall’assetto urbano all’allocazione delle risorse fino a soluzioni tecnologiche.

Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres

 

Spetterà poi all’ONU e alla sua rete, garantire la partecipazione delle comunità locali, che noi indichiamo come condizione fondamentale ma che chiaramente per questioni culturali e linguistiche non possiamo seguire direttamente.

La partecipazione non può però non partire da alcune considerazioni espresse in forma aperta e non impositiva che definiscono i confini operativi delle scelte possibili, noi cerchiamo di costruire queste ipotesi.

Un fattore fondamentale deve però essere chiarito: la ricostruzione non sarà e non potrà essere una operazione di ripristino delle condizioni pre-guerra, Gaza era già stata dichiarata invivibile ben prima del conflitto.

La Gaza del futuro dovrà quindi essere necessariamente molto diversa da quella del passato, alterando in maniera significativa il tessuto urbano, le densità e i tipi abitativi, le tecnologie edilizie e di approvvigionamento delle risorse.

Ovviamente alcuni elementi storici e di memoria dovranno essere preservati ma gran parte della Striscia dovrà passare per un radicale processo di rifondazione, un ripensamento completo.

 Nel progettare il tutto vi siete ispirati ad altri modelli post conflitto o post catastrofi naturali?

 Abbiamo studiato profondamente le ricostruzioni del passato e lo abbiamo fatto con il disegno, lo strumento principe degli architetti.

Abbiamo ridisegnato più di 100 città che hanno subito distruzioni e ricostruzioni di diversa natura (guerre, catastrofi naturali, etc.) e abbiamo visto che le cause influiscono in maniera molto parziale sulle strategie di intervento. Quello che conta è avere una ipotesi iniziale chiara e definire i suoi strumenti di applicazione.

Purtroppo questa gran mole di analisi ci ha svelato principalmente due cose: la prima è che gli strumenti concettuali con cui viene affrontato oggi il problema sono ancora gli stessi del periodo postbellico, in un mondo che è però radicalmente diverso.

La seconda è che gli esempi degli ultimi venti anni sono tutti negativi, la ricostruzione non ha saputo agire come garanzia della pace e anzi molto spesso è stata causa di ulteriore conflitto.

Esistono certamente delle “lezioni di pietra” da cui possiamo ancora imparare tanto, penso alla ricostruzione di Le Havre con la sua applicazione precisa di uno strumento tecnologico unificato che fa da misura per l’intero spazio urbano o ancora all’esperienza post-terremoto in Friuli, forse uno dei più grandi esperimenti di progetto partecipato della Storia.

Avete stimato un livello di danneggiamento dell’area? Quanti anni potrebbero essere richiesti per vedere una nuova Gaza?

 Il danneggiamento è approssimabile al totale, il dato di 70% di edifici distrutti di fatto ci mostra un luogo dove sono saltate tutte le reti di approvvigionamento (idrico, energetico, fognario, etc.) e dove anche i pochi edifici risparmiati sono in contesto di totale precarietà.

Purtroppo sfidiamo una delle industrie con il maggiore grado di innovazione, quella bellica, con una filiera edilizia a bassissimo contenuto innovativo e quindi a fronte di una capacità distruttiva, e soprattuto di una precisione, in continua crescita non abbiamo strumenti per il confronto immediato.

Definire una dimensione temporale chiara è pressoché impossibile, la stima per lo spostamento delle macerie dice 15 anni ma chiaramente bisogna costruire un processo in cui ricostruzione e smaltimento vadano di pari passo e possano beneficiare l’uno dell’altro.

Io non credo sia importante definire un traguardo temporale ma sia invece fondamentale iniziare un processo di trasformazione urbana che non deve necessariamente avere una data di completamento, l’importante è progressivamente garantire alloggi e servizi degni ad una fascia sempre più ampia della popolazione innescando un effetto moltiplicatore degli sforzi e degli interventi.

 Il vostro lavoro sarà inquadrato nel ruolo delle Nazioni Unite presenti a Gaza. Che tipo di apporto sarà dato?

 Noi agiamo come consulenti delle Nazioni Unite che a loro volta forniscono idee e progetti ai Ministeri dell’Autorità Palestinese oppure operano direttamente attraverso progetti finanziati da istituzioni nazionali.

Noi collaboriamo con entrambe le modalità e in generale cerchiamo di rispondere anche alle necessità immediate, quasi quotidiane, degli uffici di UNDP.

C’è un grande bisogno di tecnici che si sappiano confrontare con i colleghi delle istituzioni internazionali ed è per noi molto importante sviluppare un gruppo di lavoro con queste capacità.

 Chi pagherà il progetto? Che stima di spesa è stata fatta?

Non esistono stime di spese credibili si parla di 20 miliardi di dollari ma ci si riferisce al valore di quello che è andato distrutto, è un parametro poco veritiero perché la ricostruzione non seguirà le stesse forme e modalità e quindi i valori potranno essere alterati.

Pagheranno le istituzioni pubbliche e private di tutto il mondo attraverso donazioni o forme di prestito agevolato.

Il problema finanziario mi sembra secondario rispetto al gigantesco sforzo logistico e di coordinamento.

Un ruolo centrale lo dovranno e potranno giocare l’Europa e i Paesi arabi che potrebbero agire nell’ottica della costruzione della pace, la sfida è proprio questa scommettere sulla ricostruzione come garanzia di una pace duratura.

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