Sicurezza: il carcere come dispositivo di “Guerra ibrida”. Le prigioni sono l’anello debole ma fondamentale della catena securitaria

Di Cristina Di Silvio*

WASHINGTON D.C.  Nel contesto contemporaneo delle relazioni internazionali e delle strategie di sicurezza nazionale, le carceri hanno cessato di essere istituzioni marginali del Diritto penale per divenire veri e propri dispositivi bellici, strumenti funzionali alla gestione dell’instabilità interna e della minaccia diffusa.

L’immagine di un cella sovraffollata di detenuti

In un mondo in cui la guerra non è più dichiarata ma amministrata, dove il conflitto si dissolve nella governance e si riorganizza sotto forma di controllo preventivo, le prigioni rappresentano l’anello debole ma fondamentale della catena securitaria.

Non si tratta più di luoghi dove si esegue una pena, ma di laboratori permanenti di gestione del dissenso e di neutralizzazione del rischio sociale.

In questo spazio giuridicamente sospeso, si produce una nuova forma di violenza strutturale: quella invisibile, quotidiana, istituzionale.

Le democrazie che si proclamano garanti dei diritti universali hanno eretto regimi penitenziari che contraddicono apertamente gli obblighi previsti dal diritto internazionale.

L’articolo 7 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo vietano esplicitamente trattamenti inumani e degradanti.

Eppure, in decine di Stati formalmente democratici, la detenzione si configura oggi come una forma normalizzata di annientamento umano e di gestione biopolitica dei corpi superflui.

Non è solo un collasso del sistema penitenziario, è la manifestazione operativa di una strategia di contenimento.

Il caso dell’Egitto è emblematico: nelle carceri di massima sicurezza come Al-Aqrab, i prigionieri politici vengono sottoposti a isolamento totale, privazione della luce naturale, accesso negato a cure mediche e torture documentate da osservatori internazionali, in un quadro sistematico che configura veri e propri crimini di Stato.

Un carcere egiziano

Non si tratta di eccessi locali, ma di un modello transnazionale: a Gaza, i detenuti palestinesi rilasciati raccontano torture fisiche, umiliazioni, arresti arbitrari e condizioni disumane, mentre in Cina, milioni di uiguri vengono internati in centri di “rieducazione” che annientano l’identità individuale attraverso l’indottrinamento forzato, la sterilizzazione coatta e la sorveglianza totale.

In Turchia, dopo il tentato golpe del 2016, la carcerazione è divenuta uno strumento centrale di repressione politica, con arresti di massa, processi sommari e la dissoluzione del diritto alla difesa.

Un’immagine del golpe in Turchia nel luglio 2016

Gli Stati Uniti rappresentano il paradigma del carcere come industria: con un’economia carceraria da oltre 80 miliardi di dollari,  l’isolamento prolungato è applicato anche a minori, in violazione delle Convenzioni ONU, mentre le condizioni nei supermax prisons configurano un trattamento che la Corte Interamericana ha paragonato alla tortura.

In Brasile, le carceri sono domini extrastatali dove bande criminali esercitano sovranità armata e la Polizia pratica esecuzioni sommarie sotto copertura istituzionale.

Agenti della Polizia federale brasiliana

In Nigeria, si muore letteralmente di fame, in attesa di un processo che non arriverà mai.

In Grecia, le celle progettate per 12 persone ne ospitano 40, in un contesto sanitario che l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha definito “catastrofico”. In tutti questi scenari, la funzione giuridica della detenzione è evaporata.

Il carcere si configura come infrastruttura repressiva, come zona grigia della sovranità, dove la sospensione del diritto non è più l’eccezione ma la norma.

Il detenuto non è più soggetto di diritto, ma oggetto di amministrazione: una variabile da contenere, una presenza da annullare.

Questo assetto non è neutro, non è tecnico, non è casuale. È strategico.

È frutto di una precisa architettura del potere, che si difende isolando, che reprime prevenendo, che silenzia rinchiudendo.

Le carceri, nel loro stato attuale, costituiscono un vettore di destabilizzazione interna.

Gli alti tassi di recidiva, che in molti Paesi superano il 70%, le esplosioni di violenza, i suicidi, le sommosse e gli atti di autolesionismo non sono anomalie statistiche, ma effetti collaterali strutturali di un sistema che ha smesso di funzionare come istituzione giuridica per trasformarsi in una infrastruttura repressiva.

Nel cuore dell’Europa, nel cuore delle cosiddette democrazie mature, esistono luoghi dove lo Stato di diritto è sospeso, e dove la regola dominante è l’abbandono.

Se la difesa nazionale non comprende la tenuta sociale dei suoi margini, se la sicurezza interna non è anche coesione sociale, allora nessun satellite, nessun drone, nessun arsenale missilistico potrà mai garantire la stabilità.

Il carcere è oggi una breccia strutturale nella sicurezza. È un detonatore invisibile, pronto ad attivarsi. Ignorarlo non è solo miopia politica: è suicidio strategico.

E non si tratta di una denuncia morale: è una diagnosi sistemica.

Il carcere non è più solo una questione penale.

È un indicatore geopolitico, una cartina di tornasole del potere reale, uno specchio della tenuta democratica. La prossima rivolta, il prossimo morto, la prossima inchiesta, non saranno eccezioni.

Saranno l’inevitabile. Non servono proclami.

Serve una rifondazione strategica della detenzione, una nuova architettura giuridica e politica della pena.

In caso contrario, il progressivo slittamento verso un modello di internamento totalitario sarà completato, senza bisogno di colpi di Stato o guerre dichiarate. Il carcere è già oggi la nostra ultima trincea.

E ci stiamo voltando dall’altra parte. Come scriveva Michel Foucault: “Il carcere comincia molto prima della sua porta di ferro. Comincia quando una vita viene amministrata, classificata, punita ancor prima che abbia agito”.

E forse è proprio questo il nodo più oscuro: che il carcere non è più una risposta al reato, ma una previsione politica, un’arma preventiva contro il potenziale deviante.

*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)

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