Padova. Cosa c’è dietro al grande momento della Turchia nel Medio Oriente? Quali sono le intenzioni del Presidente turco Erdogan per prendersi una bella fetta di aree da controllare? Sono alcune domande a cui la stampa italiana non dà risposte, ferma com’è solo ad alcuni aspetti più “da immagini televisive” che da vero approfondimento.
Report Difesa ha interpellato Alberto Gasparetto, cultore di Scienza della Politica all’Università di Padova, considerato un buon conoscitore della Turchia. Ha svolto, tra l’altro, un periodo di ricerca ad Istanbul presso la Bilgy University. Ha presentato, in convegni nazionali ed internazionali, una serie di articoli sull’Iran e la Turchia. Ha pubblicato, tra l’altro, anche un libro sulla “Turchia di Erdogan e le sfide del Medio Oriente. Iran, Iraq, Israele e Siria” (Carocci Editore).
Dottor Gasparetto, qual è oggi veramente il ruolo che la Turchia sta avendo nel conflitto siriano?
Oggi la Turchia sta giocando un ruolo molto più attivo rispetto a quello dei primi anni dopo la rivolta popolare contro il regime di Assad. Lo scenario è sensibilmente cambiato quando, nell’estate 2016, Ankara ha ricucito i rapporti con Mosca, dopo il grave episodio dell’atterramento del jet il 24 novembre 2015. Con la progressiva ritirata degli Stati Uniti dal teatro medio orientale, già avviata con Barack Obama ed accelerata dalle mosse di Donald Trump, la Russia è la grande potenza esterna che sta esercitando il peso più significativo sui destini della Siria. A partire dal primo meeting ad Astana (Kazakhstan) con la compartecipazione dell’Iran (l’altro influente attore sulla vicenda siriana), l’accordo sulle zone di de-escalation per la riduzione del conflitto ha finora portato la Turchia ad auto-investirsi del compito di occuparsi più o meno direttamente della situazione nella zona settentrionale del Paese, immediatamente confinante e abitata dalla minoranza curda che nel frattempo ha creato una zona autonoma denominata Rojava. L’intenzione reale di Ankara, celata dall’ufficialità della lotta al terrorismo jihadista, è quella di sopprimere ogni velleità indipendentistica curda in Siria, che si presume rischi di fomentare quella interna al Paese, producendo conseguenze devastanti.
Questa è un’analisi politica. Passiamo a quella più prettamente militare. Cosa c’è dietro il movimento di truppe?
C’è la risposta agli sviluppi imminenti che coinvolgeranno la zona nord orientale della Siria. L’annuncio di Trump di voler procedere al ritiro delle truppe (circa 2 mila soldati) ha provocato un ulteriore scompaginamento delle carte nel già intricato teatro siriano. La riorganizzazione delle milizie curde in Siria, seguito all’intervento americano nel 2014 per combattere lo Stato islamico, ha creato una frattura piuttosto netta fra Ankara e Washington.
In che modo?
Ricordiamo che erano anni che la relazione bilaterale fra i due antichi partner strategici era sottoposta a tensioni, ma l’idea americana di armare i curdi in funzione anti-jihadista è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La Turchia, nella situazione di crisi della politica estera che stava vivendo dopo lo scoppio delle rivolte arabe, ha finito per cercare altri referenti geopolitici, trovandoli, per necessità di cose, proprio nella Russia e nell’Iran, storicamente due fra i più acerrimi rivali geopolitici. E’ così che si spiega l’avvicinamento di Erdogan a due storici rivali geopolitici dell’Alleanza atlantica. Sono in molti ormai a tratteggiare come strategici i rapporti di Ankara con Mosca e Tehran. Invero, si tratta nientemeno che di una necessità contingente che ha come comune denominatore la convergenza (ma sarebbe meglio dire, il compromesso) dei rispettivi interessi in Siria. Io preferisco parlare di “erdoganismo tattico” ed “opportunista”.
Ci spieghi meglio questo concetto…
Come ho già fatto notare altrove, non appena gli interessi strategici in Siria torneranno a divergere, la Turchia tornerà a bussare prepotentemente alle porte della NATO, da cui non è peraltro mai uscita, mentre gli Stati Uniti e l’UE, a loro volta, torneranno ad invocare un dialogo amichevole con Ankara. Nonostante il coordinamento degli sforzi con la Russia, decisi anche nel vertice del 29 dicembre, Ankara teme che l’avanzata delle Forze armate siriane nel nord della Siria in risposta all’appello lanciato dai curdi possa portare la Russia ad impedirle di avere le mani libere in un’area dove nel recente passato è già intervenuta due volte (Scudo dell’Eufrate, agosto 2016; Ramoscello d’Ulivo, gennaio 2018).
In parole semplici, Erdogan vuole eliminare definitivamente le milizie curde che combattono contro i jihadisti?
Credo che l’obiettivo di Erdogan, così come quello della maggioranza dei turchi, sia quello di vedere contenuta la minaccia militare che proviene dai gruppi curdi considerati terroristi. Erdogan e l’AK Parti non sono ideologicamente avversi ai curdi, anzi in una certa fase della politica turca, specialmente fra il 2009 e il 2013, il Presidente turco ha approcciato la questione curda puntando sulle comuni radici religiose, ponendo le basi per una nuova definizione del concetto di cittadinanza. La svolta nazionalista nel Paese avvenuta nel 2015, confermata dalle alleanze di governo che hanno permesso al Presidente turco di mantenere inalterata la presa sul potere ed, anzi, di rafforzarla grazie all’esito positivo ottenuto col referendum confermativo dell’aprile 2017, ha esasperato il rapporto coi curdi.
In Occidente, siamo portati a leggere ciò che accade in quelle lande attraverso schemi semplificati quali le dicotomie “nazionalismo turco” contro “nazionalismo curdo” e “islamismo” contro “laicità”. Queste linee di frattura, benché presenti all’interno della società turca vanno però contestualizzate e spiegate alla luce dei nuovi accadimenti. Erdogan è interessato a ripulire tutta la zona di confine con la Siria da eventuali infiltrazioni “terroriste”, qualunque natura esse abbiano. E’ evidente che, dopo la svolta nazionalista in patria, la politica di marginalizzazione dalla scena politica dei rappresentanti curdi, combinata con i summenzionati interventi militari oltre confine, hanno riscosso consenso interno. La ritirata delle truppe americane dalla zona nord orientale siriana, al momento, ha rallentato gli eventi in direzione di un terzo intervento militare. Non dimentichiamo che lo stesso Erdogan, in riferimento ad un’eventuale operazione militare, non manca mai di fare riferimento alla guerra contro gli jihadisti dell’ISIS. In ogni caso, bisognerà vedere quale sarà la reazione di Russia e Iran che sono interessate a presidiare quella zona.
Facciamo un esempio più da scenario esercitativo. Ma se la Turchia dovesse essere attaccata, potrebbe invocare l’applicazione dell’articolo 5 del Trattato NATO?
Formalmente sì, anche se ciò sarebbe superfluo almeno per la seguente ragione. Finora, nei due casi in cui la Turchia è intervenuta in Siria, lo ha fatto in maniera unilaterale (previa messa a conoscenza degli altri attori interessati, Russia in primis), quindi non avrebbe bisogno di legittimare ulteriormente una risposta ad un eventuale attacco. Tuttavia, l’uscita di scena delle truppe americane (che però pare non avverrà nel giro di trenta giorni, come inizialmente annunciato da Trump, ma in quattro mesi) e la contestuale avanzata delle forze armate del regime di Damasco a supporto delle milizie curde dello YPG potrebbe aprire un altro scenario, che però vedo di difficile attuazione.
L’invocazione del dispositivo previsto dall’articolo 5 del Trattato NATO potrebbe concretizzarsi nel caso in cui Russia e Iran pongano una sorta di veto all’intervento militare turco (e la Russia si è già detta contraria), allo scopo di veder mantenuta tranquilla la situazione. In tal caso, peraltro, si assisterebbe ad un’ulteriore evoluzione dei rapporti fra gli attori coinvolti nella questione siriana e si dischiuderebbe lo scenario che avevo annunciato in precedenza, cioè la Turchia tornerebbe ad essere considerata una valida e fidata alleata dell’Occidente in funzione anti-russa e anti-iraniana, cancellando con un colpo di spugna anni e anni di tensioni. Ma questa ipotesi, proprio perché pericolosissima, la vedo anche assai remota.
Si potrebbe rischiare un’escalation nell’area medio orientale?
Quesito arguto e suggestivo che mi permette di aggiungere qualcosa alla precedente risposta. Per quanto davvero remota sia questa ipotesi, poiché non rientra negli interessi della maggior parte degli attori, è assai probabile che ciò possa accadere nel caso in cui la Turchia andasse a ledere gli interessi strategici iraniani e russi. Fra l’altro, si tratterebbe di un assist servito su un piatto d’argento che un Paese come Israele sta attendendo da anni, desideroso di contrastare l’espansionismo iraniano in Medio oriente e, in particolare, in Siria. Questa ipotesi, per quanto suggestiva, sarebbe tuttavia anche esiziale per molti attori, compreso lo stesso Stato di Israele.
Le liquide alleanze nella regione assumerebbero una linea più definita rispetto a prima, mentre le intese tattiche finora sviluppatesi assumerebbero la forma di alleanze strategiche e si andrebbe verso quella guerra regionale preludio di una Terza guerra mondiale che in molti, dopo lo scoppio della rivolta in Siria, annunciano. Tuttavia, allo stato attuale delle cose, formulare siffatti scenari, oltre che improvvido mi sembra anche vicino alla fantascienza.
Ed allora, ora, dal punto di vista diplomatico cosa si potrebbe fare?
Da questo punto di vista, si può fare ancora molto, nonostante tutto. Una volta ridotta al minimo la minaccia jihadista (che è forse il denominatore maggiormente condiviso dai principali attori coinvolti nella vicenda siriana), si potrebbe procedere a stilare una nuova costituzione e a convocare elezioni generali, come auspicato anche da Putin, Merkel, Macron ed Erdogan al vertice quadrilaterale dello scorso ottobre ad Istanbul.
La geografia politica del Paese non avrà più i connotati di prima e certamente il problema curdo dovrà trovare una soluzione condivisa. Il Rojava potrebbe diventare una regione autonoma sulla scorta di quanto già esperito in Iraq con il Governo Regionale del Kurdistan sotto la presidenza Barzani. Insomma, accanto alla lotta ai rimasugli di gruppi jihadisti, la soluzione diplomatica è quella al momento preferibile, per evitare che tutte le tensioni che si concentrano nel Paese possano esplodere e produrre alcuni degli esiti infausti cui si è in precedenza accennato. Qualcosa, come visto è già stato fatto.
Ma alla diplomazia debbono accompagnarsi circostanze propizie. A livello di rapporti internazionali, non aiuta certo la decisione di Trump di ritirarsi dall’accordo sul nucleare iraniano, difficilmente siglato sotto la presidenza Obama, ma le esenzioni, come quella importante concessa alla Turchia rappresentano comunque un buon auspicio. Sempre per parlare di Turchia, i Paesi dell’Unione europea dovrebbero continuare a lavorare congiuntamente fra essi e con Ankara per ottenere un compromesso sulla questione dei rifugiati. Tale questione, ad esempio, fondata sullo scambio con i visti concessi ai cittadini turchi potrebbe aiutare a raggiungere altri risultati nella composizione degli interessi sul fronte siriano.
Per risolvere la questione siriana, personalmente penso ad un intervento dell’ONU stile Libano anni ’70-’80 con la presenza di caschi blu. Una mossa auspicabile?
L’eventualità di un intervento dell’ONU è legata alla circostanza che tutte le principali potenze coinvolte nel teatro siriano trovino un comune terreno d’intesa. Si tratta di una circostanza che sinora non si è mai prodotta, anche se esiste un piano delle Nazioni Unite per la nomina di un organo rappresentativo che lavori ad una nuova costituzione e preluda alla convocazione di libere elezioni.
Finora, la sicurezza nel Paese è stata demandata a liquide alleanze o intese tattiche createsi per interposta persona. Ormai vi sono degli equilibri che, per quanto delicati, sono difficili da smantellare poiché si sono consolidati nel tempo. Molto dipenderà dalle intenzioni che verranno messe sul tavolo dalla Russia, il principale sponsor internazionale di Assad (in questa posizione, per molti versi più influente dell’Iran stesso).
Pertanto, una missione militare di pace sotto l’egida dell’ONU potrà essere possibile dopo che la situazione sarà ritornata ad una relativa stabilità e dovrà servire quale presidio affinché, col consenso di tutti, la sicurezza nella nuova Siria non venga messa a repentaglio da nuovi focolai jihadisti né da reciproche schermaglie fra la Turchia e i curdi, né, ancora, come terreno di scontro ibrido e sotterraneo fra Iran e Israele. Un vero ginepraio.
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