Alessandria. In questi mesi di emergenza sanitaria, dovuta all’esplosione del COVID-19, abbiamo avuto modo di conoscere molte figure professionali impegnate, giorno e notte, nelle corsie degli ospedali a fianco dei contagiati.
Anche quelli con le stellette. Infatti, i medici e gli infermieri delle Forze Armate sono stati e sono in prima linea per curare ancora i contagiati (fortunatamente pochi).
Report Difesa, in occasione della Festa dell’Esercito che si celebra oggi, ha ascoltato le parole del Capitano (da pochi giorni) medico Gennaro Illiano, classe 1991, sul suo operato e quello dei suoi colleghi per la gestione delle emergenze delle scorse settimane.
Il dottor Illiano, dopo avere frequentato la Scuola Militare Nunziatella e l’Accademia Militare di Modena (192° Corso “Carattere”) è stato ufficiale medico presso il 34° Gruppo Squadroni AVES “TORO” in Venaria Reale (Torino).
Attualmente è dirigente del Servizio Sanitario del Reggimento “Nizza Cavalleria” (1°) in Bellinzago Novarese (Novara).
Dottore, la sua formazione universitaria ed i corsi effettuati con l’Esercito hanno fatto sì che lei potesse operare al meglio?
Trovarsi a lavorare in condizioni critiche, come è avvenuto per me durante questa emergenza, non è mai semplice. La mia formazione universitaria e ancora di più quella post-laurea, oltre le competenze acquisite in qualità di medico dell’Esercito Italiano, hanno fatto si che potessi affrontare al meglio questa situazione, sia dal punto di vista delle conoscenze acquisite sia da quello dell’organizzazione del lavoro.
Quali sono state le sensazioni che ha provato, una volta arrivato nella “zona rossa”?
Quando mi è stato detto che nell’ambito del dispositivo messo in campo dalla Difesa per contrastare l’emergenza COVID, sarei stato impiegato in ospedale ad Alessandria per ho provato un duplice orgoglio, quello di essere un militare e quello di essere un medico, pronto a dare una mano al mio Paese in queste due vesti.
Una volta arrivato in ospedale mi sono reso conto che, per quanto si possa immaginare quello che accade in un reparto COVID, trovarsi al suo interno dà sensazioni completamente differenti.
Ci si rende conto della difficoltà di gestire un grande numero di casi, che prima dell’emergenza era difficilmente prevedibile, con un’organizzazione che per forza di cose è stata stravolta per far spazio a nuovi reparti specializzati nel trattamento di questa patologia.
Ma in queste situazioni di difficoltà si realizza quanto sia importante fare di più, adattarsi alla situazione contingente, partendo dall’instaurare un rapporto con i pazienti anche in condizioni di anormalità; proprio questo rapporto è alla base del processo di diagnosi e cura, perché nel nostro lavoro non dobbiamo dimenticare che i numeri che leggiamo tutti i giorni in Tv o sui giornali corrispondono a persone, ognuno con la propria storia.
Dal punto di vista medico che cosa avete dovuto affrontare?
Ci siamo trovati di fronte ad una patologia nuova di cui tuttora si stanno acquisendo conoscenze sulle sue caratteristiche.
La pandemia COVID-19 ha chiesto un grande sforzo alla Difesa. In tale ambito, su indicazione del ministro Lorenzo Guerini, si è provveduto a riorganizzare la sanità militare riconvertendo alcuni reparti (il Celio ad esempio ha appena inaugurato un Covid Hospital con 150 posti) per la gestione dei pazienti e reclutando nuovo personale medico attraverso un concorso straordinario.
Ci si è trovati inizialmente a lavorare con un numerico ridotto di personale, molti medici, infermieri e operatori sanitari, nonostante siano state adottati tutti i presidi medici indicati dal Ministero della Salute,si sono ammalati nello svolgere il proprio lavoro.
Tutto questo ha aumentato la percezione di anormalità durante questa crisi sanitaria; ciò nonostante, noi militari siamo stati addestrati e abituati a lavorare in condizioni difficili ed è proprio in questi momenti che cerchiamo di dare il massimo, anche e soprattutto prendendo spunto da lezioni apprese nelle nostre esperienze in teatri operativi all’estero.
Com’è l’approccio, dal punto di vista medico e sanitario, con un paziente contagiato dal Coronavirus?
Quando ci si trova davanti ad un paziente COVID si percepisce la fiducia e la speranza che questo ripone nei confronti di noi medici, anche se siamo protetti dalla mascherina, dallo schermo della visiera, dalla tuta e da 3 paia di guanti.
Questo ci spinge a dover essere all’altezza di quelle speranze, a volte disperate, e ci fa trovare la forza di lottare con e per la persona che si ha davanti.
Inoltre, non bisogna mai dimenticare l’aspetto psicologico del paziente e mostrargli vicinanza, anche solo con uno sguardo, che, in questo frangente, è l’unico punto di contatto tra le due persone.
Come è la giornata tipo di un medico militare nella gestione del Coronavirus?
La Sanità Militare della Difesa, grazie alla forte sinergia tra il Ministero della Difesa, il Dipartimento della Protezione Civile, il Ministero degli Affari Esteri e della Salute, fornisce supporto all’emergenza con ufficiali medici e sottufficiali infermieri, messi a disposizione della Sanità civile sul territorio nazionale.
L’Ospedale Civile “Santi Antonio e Biagio e Cesare Arrigo” di Alessandria ha chiesto l’ausilio delle Forze Armate che hanno inviato i suoi team sanitari per fronteggiare la carenza del personale ospedaliero che si è ammalato nello svolgere il proprio lavoro, oltre che per far fronte all’aumento degli accessi di pazienti e dei conseguenti ricoveri. Ci siamo integrati con il personale ospedaliero nella gestione dei reparti e dei pazienti Coronavirus rientrando nelle turnazioni del personale civile e alleviando, con la nostra presenza, servizi che non di rado arrivano ad essere di 10-12 ore.
Abbiamo portato un po’ di respiro ai colleghi civili, che ci hanno ricambiato con un’esperienza professionalmente ed umanamente unica.
Quante missioni fuori area ha fatto?
Noi ufficiali medici dell’Esercito Italiano, così come quelli delle altre Forze Armate, siamo spesso chiamati a dover operare in missioni all’estero, in condizioni molto diverse da quelle a cui siamo abituati in Italia.
Nella mia esperienza sono stato impiegato in territorio turco, per le operazioni “Sagitta VI” e “Sagitta VII” nella più ampia operazione NATO chiamata “NATO support to Turkey”, in un’esperienza che mi ha insegnato molto di quello che poi ho applicato nel mio lavoro e che mi ha fatto crescere come persona e medico. E’ forse proprio in questa occasione, in cui ho ricoperto il ruolo di direttore del Role 1 di Kahramanmaras, ho avuto più esperienza della gestione sanitaria in emergenza.
Pur essendo situazioni molto differenti la pandemia odierna in ambiente ospedaliero e il contesto che mi sono trovato ad affrontare in Teatro Operativo hanno un elemento in comune: il lavorare in condizioni di anormalità, in ambienti che si conoscono poco, ma con la stessa tenacia, che in situazioni ostili è la chiave, assieme alla professionalità, per portare a casa un grande risultato: la pace nelle missioni all’estero, la salute e il ritorno alla normalità in questa pandemia.
A questo proposito, le volevo chiedere: quanto il costante addestramento è formativo per un medico militare?
Ogni medico ha il dovere di continuare a formarsi ed informarsi anche nel post-laurea, seguendo corsi di aggiornamento o di specializzazione.
Inoltre, un medico militare, proprio per il suo status di donna o di uomo con le stellette, ha il dovere di addestrarsi sia fisicamente che professionalmente, anche grazie alle opportunità che la Forza Armata e la Difesa gli offrono, in uno sforzo teso sempre al miglioramento personale e delle proprie competenze. Questo ha come scopo quello di poter rispondere nel migliore dei modi e prontamente ad ogni situazione critica in cui viene richiesto il nostro intervento.
© RIPRODUZIONE RISERVATA