SPECIALE GRANDE GUERRA. 4 novembre 1918. L’Italia non sarà più come prima

Di Marco Pugliese

Bolzano. Nulla sarà più come prima, quel 4 novembre del 1918 cambiò per sempre il nostro Paese. Ma occorre andare con ordine. L’Italia negli anni ’10 del secolo scorso era un Paese giovane, con soli cinquanta anni e spicci dall’Unità, con il che portò il Risorgimento nelle teste degli italiani.

Nel 1915 l’ Italia entrò in guerra dopo essersi tolta il cappio della Triplice, alleanza militare costruita per ingabbiare Roma, la quale unità dette molta noia agli “Imperi Centrali”.

La giovane Italia s’imbarcò nel 1912 nella guerra di Libia (con Benito Mussolini arrestato come antimilitarista ed il poeta Giovanni Pascoli convinto colonialista) conquistandosi il “posto al sole”. Nonostante tutto i nostri comandi temevano una guerra europea contro eserciti potenti ed inquadrati come quello austriaco ad esempio.

In realtà però battaglie alla mano, fino a Caporetto l’Italia non sfigurò. Lo spartiacque fu la tragedia di Caporetto che vide un giovane Erwin Rommel infilare le nostre linee come il burro. Vi furono responsabilità enormi, i nostri comandi sbagliarono tempi, valutazioni ed azioni e non bastò il coraggio delle nostre truppe, al solito costrette ad una copertura di ritirata che costò prigionieri e vittime.

Vienna quasi pregustò i fegatini alla veneziana, la città veneta infatti rientrò per qualche tempo come obiettivo militare austriaco. Ma quando tutto sembrò perduto, con austriaci e tedeschi dilaganti in Friuli e parte del Veneto, il morale sotto i tacchi, la sfiducia dei soldati, il Paese ebbe un sussulto.

L’esempio venne anche dal sovrano, il Re volle star vicino ai suoi soldati, facendo impazzire lo Stato Maggiore, che non mollarono la presa sul Piave. Fatto nuovo per paese, istituzioni e popolo insieme a combattere, dopo le decimazioni ingiuste di Raffaele Cadorna, l’ottusità dei comandi e molto altro. I nostri militari fecero qualcosa di non prevedibile, resistettero ad oltranza, gli Arditi, mezzi nudi, si tuffavano nel fiume attaccando il nemico in avanzata con bombe e coltelli. Il Paese, per la prima volta unito dopo secoli d’ umiliazioni disse “No”, da Nord al profondo Sud l’Italia ebbe un sussulto d’orgoglio dai tempi di Cesare. Il Paese di Maramaldo divenne seguace di Ferrucci.

Il 24 ottobre 1918, giorno dell’inizio dell’offensiva finale dell’Esercito italiano nella Grande Guerra, il Generale Armando Diaz schierava dal Passo dello Stelvio al mare un complesso di forze costituito da 57 Divisioni di Fanteria e 4 Divisioni di Cavalleria si scagliò contro le linee austriache (e tedesche) che non ressero l’urto.

Generale Armando Diaz

Il 4 novembre la conclusione di un percorso nato nell’inferno di Caporetto. Il nostro Paese da quel momento credette di poter vincere la Grande Guerra, Diaz inoltre ebbe il merito di far fiatare la truppa, nonostante il mancato arrivo dei soldati Usa richiesti.

La Vittoria arrivò da un colpo di reni, quello del popolo italiano, arrivato dopo immani sacrifici e più di 600 mila ragazzi deceduti. Oltre la questione militare fu una Vittoria di popolo, l’Italia, se sconfitta avrebbe cessato d’esistere e sarebbe tornata ad essere “quell’espressione geografica” che Metternich descrisse con una certa ironia il secolo precedente.

“O il Piave, o tutti accoppati” fu scritto su quel “brandello di muro” (Giuseppe Ungaretti) un rudere che rappresentò il cuore italiano spezzato a Caporetto e ricomposto a Vittorio Veneto.

L’Italia dal 1918 fu più consapevole dei propri mezzi, gli italiani poterono finalmente stringersi intorno ad un Paese vincente, cementato da una Vittoria insperata.

Da Caporetto a Vittorio Veneto

 

Questo spirito non abbandonerà più il Paese, anzi riaffiorerà nel secondo dopoguerra, ove lo sforzo bellico sarà sostituito da quello civile e d’ingegno che portò il paese tra i primi sette Paesi al mondo dopo una guerra persa.

La nostra nazione è stata accantonata per molto tempo, per paura di rigurgiti, ma oggi i tempi sono cambiati e a distante di cento anni è propria ora di raccontare agli italiani quanto debbano esser fieri di quei 600 mila e più giovani che si sacrificarono per donarci uno spirito nuovo, che ha contribuito a costruire il Paese in cui vivete.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Autore