Di Attilio Claudio Borreca*
Roma. In occasione del 160° anniversario della proclamazione del Regno d’Italia, voglio parlare di un altro elemento che, unitamente al Tricolore, rappresenta il simbolo dell’amor di Patria in cui gli italiani si identificano e che rappresenta l’Italia dentro e fuori i confini dello Stato: l’Inno nazionale.
Il vero nome del nostro Inno non è “Inno di Mameli” o “Fratelli d’Italia” ma il “Canto degli Italiani”.
Fu scritto nell’autunno del 1847 dall’allora ventenne studente e patriota genovese Goffredo Mameli e musicato poco dopo a Torino da un altro genovese, Michele Novaro.
Il canto degli italiani nacque in quel clima di fervore patriottico che già preludeva alla guerra contro l’Austria.
L’immediatezza dei versi e l’impeto della melodia ne fecero il più amato canto dell’unificazione, non solo durante la stagione risorgimentale ma anche nei decenni successivi.
Non a caso Giuseppe Verdi, nel suo Inno delle Nazioni del 1862, affidò proprio al Canto degli Italiani – e non alla Marcia Reale – il compito di simboleggiare l’Italia, ponendolo accanto a “God save the Queen” e alla “Marsigliese”.
Fu quasi naturale, dunque, che il “Canto degli Italiani” divenisse l’inno nazionale della Repubblica Italiana.
Il Consiglio dei ministri del 12 ottobre 1946, presieduto da Alcide De Gasperi, acconsentì all’uso dell’Inno di Mameli come Inno nazionale della Repubblica Italiana.
Questo il testo del comunicato stampa che annunciava il provvedimento: “(…) Su proposta del Ministro della Guerra si è stabilito che il giuramento delle Forze Armate alla Repubblica e al suo Capo si effettui il 4 novembre p.v. e che, provvisoriamente, si adotti come inno nazionale l’inno di Mameli”.
Un breve cenno ora al poeta e al musicista che realizzarono l’inno.
Goffredo Mameli nacque a Genova il 5 settembre 1827 (figlio di Adele Zoagli, discendente di una delle più insigni famiglie aristocratiche genovesi, e di Giorgio, Cagliaritano, comandante di una squadra navale della flotta del Regno di Sardegna).
Studente e poeta precocissimo, di sentimenti liberali e repubblicani, aderì al movimento del Mazzini nel 1847, l’anno in cui partecipò attivamente alle grandi manifestazioni genovesi per le riforme, compose il “Canto degli Italiani”.
Da allora la vita del poeta-soldato fù dedicata interamente alla causa italiana: nel marzo del 1848, a capo di 300 volontari, raggiunse Milano insorta, per poi combattere gli austriaci sul Mincio col grado di Capitano dei Bersaglieri.
Dopo l’armistizio di Salasco, tornò a Genova per collaborare con Garibaldi e, in novembre, raggiunse Roma dove, il 9 febbraio 1849, venne proclamata la Repubblica Romana.
Nonostante la febbre, era sempre in prima linea nella difesa della città assediata dai francesi: il 3 giugno fu ferito alla gamba sinistra, che fu essere amputata per la sopraggiunta cancrena. Morì d’infezione il 6 luglio a soli ventidue anni.
Le sue spoglie riposano nel Mausoleo Ossario del Gianicolo.
Michele Novaro nacque il 23 ottobre 1818 a Genova, dove studiò composizione e canto.
Convinto liberale, offrì alla causa dell’indipendenza il suo talento compositivo, musicando decine di canti patriottici e organizzando spettacoli per la raccolta di fondi destinati alle imprese garibaldine.
Di indole modesta, non trasse alcun vantaggio dal suo inno più famoso, neanche dopo l’unità.
Tornato a Genova, fra il 1864 e il 1865 fondò una scuola corale popolare, alla quale avrebbe dedicato tutto il suo impegno.
Morì povero, il 21 ottobre 1885, e lo scorcio della sua vita fu segnato da difficoltà finanziarie e da problemi di salute.
Per iniziativa dei suoi ex allievi, gli venne eretto un monumento funebre nel cimitero di Staglieno a Genova, uno dei cimiteri monumentali più importanti d’Europa, dove oggi riposa vicino alla tomba di Giuseppe Mazzini.
Il testo dell’inno nazionale
Il testo è composto di 5 strofe (e non solo la prima, l’unica che solitamente si canta!!).
Di 8 versi senari (6 sillabe), intervallate da un ritornello di 3 versi sempre uguali, il cui 3° verso rima con l’ultimo verso di ogni strofa (creò: chiamò: suonò: bruciò, ecc.).
Iniziamo con la prima strofa:
Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta;
dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa.
Dov’è la vittoria? Le porga la chioma
ché schiava di Roma Iddio la creò.
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
L’Italia chiamò.
Questa strofa richiama gli Italiani alle glorie della romanità, come avevano già fatto Petrarca, Leopardi e tanti altri autori patriottici, glorie che saranno poi riprese e accentuate nel periodo del fascismo.
L’Italia, personificata, si e destata ed è pronta a combattere.
Ha indossato l’elmo del condottiero romano Publio Cornelio Scipione l’Africano (Scipio è il nominativo latino) il Generale che nel 202 a.C., durante la Seconda Guerra Punica, sconfisse a Zama, nell’attuale Algeria, il Generale cartaginese Annibale e determinò il definitivo declino di Cartagine quale potenza militare e politica nel Mediterraneo.
“Dov’è la vittoria”: la vittoria sarà di Roma, cioè dell’Italia.
Nell’antica Roma alle schiave venivano tagliati i capelli in segno di sottomissione e così anche la vittoria dovrà porgere la sua chioma affinché sia tagliata perché la vittoria, anche per volere divino, è schiava di Roma che sarà appunto la vincitrice.
Il ritornello: “stringiamci”, imperativo o congiuntivo esortativo, “a coorte” ultimo riferimento esplicito alla potenza di Roma.
Infatti la coorte era una unità di combattimento, decima parte della legione romana. In termini numerici possiamo paragonarla oggi a un battaglione di circa 600 unità.
“Siamo pronti alla morte” siamo pronti a morire perché la Patria chiama al dovere delle armi. Nel ritornello finale, dopo “l’Italia chiamò”, nelle esecuzioni cantate odierne, si sente spesso un si!
Che non è stato scritto da Mameli ma sembra sia stato aggiunto dal musicista Novaro.
E passiamo ora alla seconda strofa:
Noi siamo da secoli calpesti, derisi
perché non siam popolo, perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:
di fonderci insieme già l’ora suonò.
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
L’Italia chiamò.
In questa strofa, così come nella successiva, l’autore esorta gli italiani affinché, dopo essere stati calpestati e derisi per secoli, si uniscano insieme.
E lo fa con un linguaggio tipicamente risorgimentale e mazziniano (che a sua volta attingeva dal linguaggio religioso.
Vedasi per esempio nella precedente strofa, il termine “fratelli”, come siamo tutti in quanto figli di Dio, oppure “Iddio la creò” cioè l’unità d’Italia è favorita dal volere divino. Notare la parola “popolo”: oggi viene utilizzata in tono prevalentemente ironico (il popolo degli sms, il popolo del web, il popolo milanista …) ma per il Mazzini aveva un significato ben preciso e cioè di comunità strettamente unita, con ideali comuni.
Così anche il termine “raccolgaci” è caratteristico della lingua poetica dell’ottocento.
Questo raccolgaci diventerebbe oggi ci raccolga, cioè ci deve raccogliere, tenere insieme. Ma cosa ci deve raccogliere e tenere insieme?
Una bandiera, il tricolore ovviamente creato pochi decenni prima (di cui ho parlato ampiamente nella conferenza del 7 gennaio scorso) e una speme, altra parola letteraria e arcaica, largamente usata dai poeti dell’epoca, che significa speranza.
Quando il Mameli scrisse l’Inno, nel 1847, l’Italia era divisa ancora in 7 stati (il Regno di Sardegna, il Ducato di Parma e Piacenza, il Granducato di Toscana, lo Stato della Chiesa, il Regno delle Due Sicilie, ecc) e il testo dice che è giunta l’ora di pervenire finalmente all’unità nazionale.
E ora analizziamo la terza strofa:
Uniamoci, amiamoci; l’unione e l’amore
rivelano ai popoli le vie del Signore.
Giuriamo far libero il suolo natio
uniti, per Dio, chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
L’Italia chiamò
In questa strofa, in particolare nei primi due versi, Mameli, convinto mazziniano e repubblicano, traduce pienamente il disegno politico del creatore della Giovine Italia e della Giovine Europa (basti pensare che i motti dei due movimenti erano “Dio e popolo” e “unione, forza e libertà”) inoltre aumenta anche il linguaggio cristiano: la frase “le vie del Signore” potrebbe ricordare la via che il Dio degli ebrei indicò a Mosè per fuggire dalla schiavitù millenaria in Egitto.
L’espressione “per Dio” può essere interpretata in un duplice modo.
E’ un francesismo e quindi significa in nome di Dio oppure per volere di Dio, nessuno potrà mai vincerci.
Certo è, però, che in italiano “per Dio” può essere anche una imprecazione, una esclamazione piuttosto forte o addirittura una bestemmia.
Cosa avrà mai voluto intendere Goffredo Mameli con questa espressione?
Siccome aveva appena venti anni, è divertente pensare che abbia voluto lui stesso giocare sul doppio senso (in fondo i suoi rapporti con il Vaticano non erano buonissimi, tant’è vero che morì proprio a Roma dove combatteva per la repubblica romana contro i francesi intervenuti in difesa del papa)
La quarta strofa ripercorre sette secoli di lotta contro il potere straniero.
Dall’Alpe a Sicilia dovunque è Legnano;
ogn’uom di Ferruccio ha il core e la mano;
I bimbi d’Italia si chiaman Balilla;
il suon d’ogni squilla i Vespri suonò.
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
L’Italia chiamò.
L’autore cita esempi di ribellioni patriottiche che hanno dimostrato come gli italiani, se si uniscono sanno combattere e vincere i dominatori stranieri.
Anche di questo tema c’è stato un certo sfruttamento da parte del fascismo che si presentò agli italiani come il continuatore, il suggellatore della riscossa del Risorgimento, con la vittoria della 1^ Guerra Mondiale, e le successive pretese di espansioni ulteriori in Albania, in Corsica, in Africa ecc.
Notare l’uso costante dell’antonomasia cioè l’impiego di nomi propri, geografici e di persona, per indicare eventi di carattere generale.
Iniziamo dal primo verso “dall’Alpi a Sicilia”: cioè in tutta Italia, in analogia a quanto scrisse il Manzoni nella sua ode il 5 maggio: “dalle Alpi alle piramidi, dal Mazzanarre al Reno”. Come detto il Mameli cita esempi di ribellioni contro l’oppressione straniera, e allora vediamo quali sono.
“Ovunque è Legnano”: la battaglia di Legnano fu combattuta il 29 maggio 1176 nei dintorni dell’omonima città lombarda.
Fu la battaglia cruciale nella lunga guerra con cui il sacro romano impero germanico tentava di affermare il suo potere sui Comuni dell’Italia settentrionale; questi però avevano messo da parte le loro reciproche rivalità per unirsi e, con il giuramento di Pontida, diedero vita alla lega lombarda presieduta da Papa Alessandro III.
L’imperatore Federico Barbarossa cercò di usare la forza per sottomettere i Comuni ma fu sconfitto appunto dalla Lega Lombarda.
Tutto ciò per indicare che ogni località dell’Italia può diventare teatro di una battaglia vittoriosa della riscossa contro i barbari.
Grazie a questa storica battaglia, Legnano è l’unica città, oltre a Roma, ad essere citata nell’inno nazionale italiano.
“Ogn’uom di ferruccio, ha il core, ha la mano”: ogni italiano ha il cuore e la mano di Ferruccio: ma chi era questo Ferruccio? In realtà il cognome è Ferrucci.
La “o” finale è stata aggiunta solo per fare rima con il verso precedente e successivo.
Francesco Ferrucci, Capitano dell’Esercito fiorentino che a Gavinana, un paese dell’Appennino pistoiese, si oppose all’invasione della Toscana da parte dell’imperatore francese Carlo V.
La battaglia di Gavinana si combatté il 3 agosto 1530 nel quadro dell’assedio di Firenze fra 3500 armati al soldo dei fiorentini comandati appunto da Francesco Ferrucci e una forza preponderante di imperiali di Carlo V che contava oltre 9000 uomini al comando di vari condottieri italiani al soldo straniero (Fabrizio Maramaldo, Alessandro Vitelli, Niccolò Bracciolini).
Tutta la forza imperiale era sotto il comando di Filiberto di Chalons, principe d’Orange.
Nella battaglia perirono entrambi i comandanti. Il contingente fiorentino fu distrutto e quando la notizia giunse a Firenze il governatore Malatesta Baglioni trattò la resa.
Ciò significò la fine della Repubblica Fiorentina e il ritorno al potere della famiglia dei Medici.
Celebre fu l’uccisione di Francesco Ferrucci.
Dopo lo scontro, il Ferrucci ferito fu catturato e, condotto nella piazza di Gavinana, fu riconosciuto da Fabrizio Maramaldo il quale incoraggiò i suoi uomini a finire il Ferrucci per vendicare le numerose sconfitte patite durante l’assedio di Volterra.
Ma nessuno dei suoi uomini aveva il coraggio di uccidere un ferito.
Allora Maramaldo gli si avvicinò tenendo in mano il suo pugnale e Ferrucci gli avrebbe urlato contro la celebre frase d’infamia “vile, tu uccidi un uomo morto!” (frase che i giovani ormai non conoscono più).
E allora il comandante mercenario lo finì colpendolo alla gola (da qui il verbo maramaldeggiare, usato da alcuni giornalisti sportivi, per indicare una squadra che stravince la partita e per di più infierisce sull’avversario troppo inferiore).
Il corpo del principe Filiberto di Chalons fu recuperato tra i caduti e condotto in Francia, dove fu sepolto con gli onori militari, mentre il Ferrucci e i suoi uomini furono sepolti in una fossa comune vicino alla chiesa del paese.
Nella piazza di Gavinana si può ammirare una bella statua equestre realizzata in onore appunto dello sfortunato condottiero.
“I bimbi d’Italia si chiaman balilla”: sebbene non accertata storicamente, la figura del balilla rappresenta il simbolo della rivolta popolare di Genova contro la coalizione austro-piemontese.
Nel dicembre 1746 Genova è invasa dalle truppe austriache. Soldati tedeschi (o forse italiani mercenari al servizio dell’esercito imperiale) stanno trasportando un pezzo di artiglieria nel quartiere di Portoria.
Stanchi, si fermano e con la forza vogliono costringere i passanti a liberare il cannone impantanato nel fango.
E’ il 5 dicembre e qui, leggenda vuole che un bambino, Giovan Battista Perasso, denominato balilla (in dialetto genovese significa piccola palla, pallina ed era un appellativo che si dava ai bambini), al grido di «che l’inse», (chi inizia?) avrebbe tirato il primo sasso che sarebbe diventata subito dopo, una fitta sassaiola che costrinse i malcapitati soldati all’abbandono del pezzo e ad una fuga precipitosa.
In una situazione di tensione, nella quale il popolo mal sopportava la presenza degli Austriaci, l’episodio fu solo la goccia che fece traboccare il vaso, dando origine a diversi disordini che si protrassero per almeno cinque giorni dentro le mura della città, dopo i quali gli invasori furono costretti a ritirarsi.
Così il 10 dicembre la città fu liberata dalle truppe di occupazione.
La reale identità del balilla è rimasta dubbia, come il suo ceto sociale, alcuni parlano di lui come un popolano, anche se in un celebre dipinto eseguito a pochi anni di distanza della rivolta, viene raffigurato con sfarzosi abiti aristocratici.
Forse potrebbe venire il dubbio che questi ultimi commissionarono il quadro per potersi prendere il merito della sommossa, ma questo non lo sapremo mai.
In ogni caso in lui viene identificato il giovane da cui, il 5 dicembre 1746, partì la rivolta popolare contro gli occupanti dell’impero asburgico.
Nel quartiere di Portoria è stato realizzato un monumento in ricordo del balilla e della rivolta del 1746.
Ecco quindi il significato de “i bimbi d’Italia si chiaman balilla” il Mameli in pratica dice che tutti i bimbi italiani possono diventare ribelli contro la tirannia.
La parola “balilla” fu presa poi alla lettera anche dal fascismo, come ben sapete, per il quale tutti i bambini erano chiamati “balilla” (la macchina “giovane” della Fiat di quei tempi fu chiamata balilla, e così il calciatore Meazza, che a 20 anni giocava già in nazionale).
“Il suon d’ogni squilla i vespri suonò”: ogni campana (squilla è il sinonimo germanico di campana) d’Italia può annunciare la rivolta.
Il riferimento è ovviamente ai vespri siciliani del 1282, l’insurrezione del popolo di Palermo contro i francesi di Carlo d’Angiò.
Tutto ebbe inizio mentre si era in attesa della funzione del vespro del 31 marzo 1282, lunedì di Pasqua, sul sagrato della chiesa dello Spirito Santo, a Palermo.
A generare l’episodio fu – secondo la ricostruzione storica – la reazione al gesto di un soldato dell’esercito francese, tale Drouet, che si era rivolto in maniera irriguardosa ad una giovane nobildonna accompagnata dal consorte, mettendole le mani addosso con il pretesto di doverla perquisire.
A difesa di sua moglie, lo sposo riuscì a sottrarre la spada al soldato francese e a ucciderlo. Tale gesto costituì la scintilla che dette inizio alla rivolta.
Mi avvio a concludere con la quinta e ultima strofa
Son giunchi che piegano le spade vendute;
già l’aquila d’Austria le penne ha perdute.
Il sangue d’Italia e il sangue Polacco
bevè col Cosacco, ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
L’Italia chiamò.
Questa strofa si riferisce all’attualità di quel tempo, cioè alle ultime rivolte contro l’impero austriaco. “Le spade vendute”: con questa frase il Mameli indica le truppe mercenarie al servizio dell’invasore straniero, che sono deboli e si piegano al vento come giunchi, come canne da palude.
“Già l’aquila d’Austria le penne ha perdute”: l’Austria è in declino e l’autore con una metafora rappresenta “l’aquila d’Austria” (con due teste), che sta perdendo le sue penne a causa delle rivolte in Italia e in Polonia (qui Mameli sembra anticipare i moti del 1848 che dilagarono in tutta Europa).
“Il sangue d’Italia, il sangue polacco, beve’ col cosacco”: l’Austria alleata con la Russia (il cosacco) aveva bevuto il sangue polacco, cioè aveva diviso e crudelmente smembrato la Polonia così come stava opprimendo l’Italia.
“Ma il cor le bruciò”: ma il sangue bevuto dei due popoli oppressi ha bruciato, ha avvelenato il cuore della nera aquila d’Asburgo, cioè degli oppressori.
Dunque, in questa strofa, la storia viene messa al servizio dell’attualità di quel tempo ed è utilizzata come esortazione.
Versi sbocciati dal cuore di un poeta ventenne, Goffredo Mameli, in quei fatidici anni risorgimentali, tutti contornati di malinconia e di ardore e direttamente ispirati dal lirismo del Foscolo e dagli ideali mazziniani.
E Michele Novaro, maestro dei cori del Teatro Regio, che ne rimase tanto commosso e subito si apprestò a musicarli in quel 14 novembre 1847.
Ed ecco nascere la musica ispirata e solenne, così aderente allo spirito e alle parole dell’inno che, dopo pochi giorni, già correva lungo la penisola, suscitando in tutti i cuori italiani quell’orgoglio guerriero e quei supremi ideali di libertà e di amor di Patria libera.
*Generale di Divisione Esercito (Ris)
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