Di Fabrizio Scarinci
Roma. Come noto, alla fine ci si è riusciti: anche l’Italia, sulla scia di quanto già fatto da altri Paesi europei, si impegnerà ad avviare un graduale aumento delle proprie spese militari fino a raggiungere il traguardo del 2% del Prodotto interno lordo nel 2028.
E’ quanto stabilito nel compromesso tra il Presidente del Consiglio Mario Draghi e il leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte, che, anche per mezzo della mediazione del ministro della Difesa Lorenzo Guerini, sono riusciti ad evitare una crisi di governo e, fortunatamente, anche a rispettare, seppur non troppo celermente, le promesse fatte in sede NATO nell’ormai lontano settembre 2014.

Il Presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi
Presa soprattutto a seguito degli eventi connessi alla crisi ucraina, la decisione in questione rappresenta senza dubbio la svolta più importante dell’ultimo trentennio per la nostra politica di Difesa, e, considerando anche il particolare momento storico in cui arriva, nel medio termine essa potrebbe verosimilmente comportare dei profondi mutamenti anche per quanto riguarda il nostro approccio agli affari politici e alla realtà internazionale nel suo complesso.
Nondimeno, nell’attesa di comprendere in modo più dettagliato come questo aumento verrà effettivamente portato avanti (e, soprattutto, cosa esso comporterà per il nostro strumento militare), è importante anche che tutte le forze politiche (o almeno quelle più responsabili) capiscano di essere oggi chiamate a fare la loro parte al fine di rendere la nostra Repubblica maggiormente attrezzata per far fronte alle complesse sfide geopolitiche del prossimo futuro.
Per farlo, però, oltre che aumentare le spese militari, sarebbe anche auspicabile che la popolazione, la quale sarebbe in maggioranza contraria al progetto in questione, venisse aiutata a comprendere che il mondo in cui vive non è fatto solo di cooperazione, ma anche di competizione, e che quando si parla di competizione non si parla di lavoro, mercati o rapporti economici internazionali, ma di competizione per la sicurezza; ossia quella che da millenni porta le varie potenze a sfidarsi l’un l’altra e, molto spesso, anche a farsi la guerra.
Se gli italiani di oggi sembrano non rendersene pienamente conto è perché, in seguito alla traumatica sconfitta subìta nel corso del secondo conflitto mondiale, il nostro Paese è entrato a far parte (fortunatamente e piacevolmente) del sistema di alleanze a guida statunitense, che per molto tempo ha permesso a tutta l’Europa occidentale di godere di un accettabile livello di sicurezza nei confronti della minaccia sovietica spendendo cifre tutto sommato “normali” per le proprie Forze Armate (o per lo meno non da “quasi guerra”, come facevano in quel periodo russi e statunitensi).
Sotto l’ombrello nucleare americano si sarebbe, inoltre, sviluppata tra i vari Paesi europei e occidentali un’integrazione economica e commerciale sempre più forte, grazie alla quale almeno due generazioni hanno avuto modo di sperimentare una crescita economica senza precedenti e di conseguire livelli di reddito sempre più elevati.

Firma dei Trattati di Roma, da cui sarebbe scaturita anche la CEE, che rappresenta certamente il maggior esempio di integrazione economica e commerciale tra i vari Paesi europei negli anni della Guerra fredda
Tuttavia, il fatto che i cittadini europei siano diventati sempre più ricchi mentre altri (ossia gli americani) garantivano gli aspetti fondamentali della loro sicurezza ha avuto come “effetto collaterale” quello di eliminare la dimensione strategico-militare dal dibattito pubblico del vecchio continente, facendo in modo che le società civili di diversi Paesi rimuovessero a poco a poco l’idea di potersi trovare ad affrontare conflitti armati di grossa entità e iniziassero a vedere i loro Stati più come dei semplici enti preposti allo svolgimento di funzioni amministrative che come i soggetti deputati a perseguire i vari interessi politici (sicurezza in primis) delle collettività di cui erano emanazione.
Come deducibile da quanto scritto pocanzi, tra le nazioni maggiormente interessate da questo fenomeno (foriero, come vedremo, di numerosissimi problemi) figura, per l’appunto, l’Italia, che già a partire dagli anni 60 avrebbe iniziato a spendere per le sue Forze Armate percentuali di Pil decisamente inferiori rispetto a quelle dei suoi principali partner europei (tendenza parzialmente invertita solo negli anni 80) e che, in seguito al crollo del muro di Berlino, abbracciando in pieno l’idea secondo cui la Storia fosse sostanzialmente “finita” e che la competizione geopolitica tra potenze fosse ormai sul punto di essere archiviata, si sentì “libera” di ridurre ulteriormente il proprio bilancio militare e di non affrontare le “fatiche” connesse alla conduzione di una politica strategica di ampio respiro.
In tale contesto, tra l’altro, neppure le frequenti crisi internazionali in cui il nostro strumento militare sarebbe stato chiamato ad intervenire a partire dagli anni 90 avrebbero aiutato il Paese a cambiare il suo approccio.
Infatti, se da un lato la partecipazione alle operazioni di peace-keeping veniva generalmente vista come un valido strumento per aumentare il nostro prestigio a livello internazionale (cosa che, certamente, potrebbe far pensare alla volontà di migliorare la condizione strategica dello Stato nell’ottica di un quadro geopolitico ancora percepito come non privo di aspetti competitivi), dall’altro, proprio le dinamiche alla base dei conflitti che, di volta in volta, gli USA e i loro alleati si trovavano a dover sedare (connesse essenzialmente a fenomeni quali ribellioni, guerre civili o presenza di “Stati falliti”) non sembravano far altro che confermare l’ipotesi secondo cui nel resto del mondo fosse ormai sparito ogni possibile blocco di potere alternativo a quello occidentale che avesse la capacità di imporre una qualche forma di ordine alle aree più turbolente del pianeta (cosa che, indirettamente, poteva anche far pensare che non esistesse più alcuna seria minaccia neppure per la sicurezza della regione euro-atlantica).

Militari italiani impegnati nella missione UNIFIL, tipico esempio di operazione di peacekeeping
Anche per tale ragione, quindi, soprattutto in un Paese come il nostro (sconfitto prima e strategicamente “deresponsabilizzato” poi), i vari tagli operati nei confronti delle spese militari nel corso degli ultimi decenni (effettuati in parte anche al fine di rispettare i parametri di un’Area euro di certo non molto attenta alla questione) sono sempre stati accolti con un certo favore dalla maggioranza della popolazione, che, se da un lato appariva fiera di quanto fatto dalle nostre Forze Armate in molti dei teatri operativi in cui il Paese aveva deciso di intervenire, dall’altro sembrava piuttosto scettica sul mantenimento di capacità militari complesse, sposando l’idea secondo cui i conflitti tra Stati fossero divenuti quasi del tutto impossibili e immaginando che il nostro strumento di Difesa dovesse trasformarsi in una sorta di forza di polizia da inviare all’estero in caso di crisi (sempre, ovviamente, che i teatri in questione non fossero troppo incandescenti).
Inutile dire quanto queste continue decurtazioni di budget abbiano causato problemi alla prontezza operativa dello strumento militare. E se nel corso dell’ultimo trentennio le nostre Forze Armate sono comunque riuscite a portare avanti diversi programmi inerenti l’acquisto di nuove piattaforme e sistemi complessi (es. Eurofighter, F 35, Cavour, Trieste, Horizon, FREMM, PPA, Ariete etc.) lo si deve essenzialmente ai vari segmenti della nostra politica e delle nostre Istituzioni che, pur non avendo necessariamente sviluppato (o preservato) un approccio di tipo “strategico” riguardo alla gestione dei cosiddetti “affari di Stato”, sembrerebbero almeno riusciti a comprendere la straordinaria importanza che l’Industria della Difesa e il suo enorme indotto rivestono per il sistema economico del Paese.

Una coppia di caccia Eurofighter Typhoon dell’Aeronautica Militare
I problemi, però, non finiscono qui, poiché oltre ad impattare sul mondo militare, il fatto che una larga parte della nostra società si sia progressivamente adagiata su una visione marcatamente “post-storica” della realtà e abbia iniziato a sviluppare il proprio “pensiero collettivo” decidendo di non fare troppo caso alle dinamiche di tipo strategico, ha inevitabilmente avuto profonde ripercussioni anche con riferimento ad altri importantissimi settori, tra cui spicca, in modo particolare, quello dell’approvvigionamento energetico.
In tale ambito, infatti, oltre ad essersi ripetutamente espressa contro l’utilizzo del nucleare e a mostrare un crescente grado ostilità nei confronti dello sfruttamento dei giacimenti di gas presenti sotto il fondale dell’Adriatico, la popolazione italiana risulta generalmente contraria anche alla realizzazione di opere quali gasdotti, rigassificatori, depositi GPL e addirittura impianti eolici, che hanno spesso dato luogo a feroci dibatti su tematiche legate all’inquinamento ambientale, al paesaggio o agli eventuali rischi economici connessi alla loro realizzazione.
In seno a queste discussioni, tuttavia, nessuno, neanche per un nanosecondo, ha mai pensato di affrontare seriamente (e da un punto di vista prettamente strategico) il tema degli enormi rischi legati all’eccessiva dipendenza energetica del Paese e all’inefficace opera di diversificazione delle forniture portata avanti nel corso degli ultimi decenni, che, come ampiamente dimostrato dall’attuale crisi ucraina, possono esporci non solo a gravi shock inflazionistici, ma anche a pesanti imbarazzi sul piano diplomatico, dato che se il “fronte euro-atlantico” di cui comunque facciamo parte (e all’interno del quale vorremmo anche contare qualcosa) non è in grado di comminare sanzioni ancora più efficaci di quelle già poste in essere nei confronti di Mosca è anche a causa dell’eccessiva dipendenza del sistema produttivo italiano (così come di quello tedesco, a dire il vero) dal gas proveniente dalla Russia.

Un’immagine della Centrale nucleare di Caorso, non più in uso da quando il Paese ha scelto di abbandonare l’utilizzo dell’energia nucleare
L’attacco di Vladimir Putin nei confronti di Kiev ha dunque colto l’Italia nelle non certo ottimali condizioni appena descritte, a cui bisogna aggiungere anche svariati mesi di restrizioni dovute alla presenza del Covid-19 e un debito pubblico schizzato letteralmente alle stelle.
Purtroppo, però, la cosiddetta “operazione speciale” lanciata dal Cremlino ha anche avuto l’effetto di cambiare (forse anche più profondamente di quanto ora non si riesca ad immaginare) la Storia dell’intero continente europeo, con molti dei nostri vicini che hanno visto nel comportamento russo una minaccia piuttosto grave per la loro sicurezza e hanno scelto di tornare ad aumentare le proprie spese militari.
Nessun riarmo “ipermassiccio”, intendiamoci; il 2% per cento del Pil (o poco più, in certi casi) è comunque meno rispetto a quanto molti degli Stati di cui si sta parlando (Germania in primis) spendevano durante il periodo della Guerra fredda, e l’unico Paese che ha scelto di arrivare fino al 3% è, al momento, la sola Polonia, che si configura sicuramente come un’interessante realtà in crescita ma che di certo non sembrerebbe un colosso.
Tuttavia, oltre a rappresentare un segnale piuttosto forte nei confronti della Russia, questo generalizzato aumento di spesa potrebbe anche rischiare di ridare vigore ad altre dinamiche di tipo competitivo presenti sul continente; tanto più se, nel corso dei prossimi anni, gli USA si vedessero di nuovo costretti a riprendere la loro politica del “pivot to Asia”.
Ovviamente, allo stato attuale, l’eventualità che da tali dinamiche possano scaturire conflitti armati nel cuore dell’Europa appare piuttosto improbabile, dato che la NATO e la UE resterebbero verosimilmente dove sono e gli americani, tradizionali “bilanciatori esterni” delle relazioni tra i principali Paesi del vecchio continente, di certo non se andrebbero mai del tutto.
Questo però non significa che taluni fattori di natura strategica (quali, ad esempio, autonomia energetica, livello di prontezza in campo militare e capacità di mostrare una maggiore assertività in campo internazionale) non possano acquisire un valore molto più elevato rispetto a quello avuto finora in seno alla già esistente competizione tra Stati europei per il conseguimento di migliori posizioni nell’ambito delle informali (o semi-informali) gerarchie che caratterizzano loro relazioni reciproche.
In uno scenario come quello appena descritto, onde evitare di scivolare verso una condizione di sostanziale irrilevanza, qualsiasi Paese (in particolar modo se dotato di una certa massa critica capacitiva) potrebbe quindi essere portato a volersi rafforzare riguardo al possesso di tali fattori, e, stando alle recenti decisioni del governo in materia di budget militare, anche l’Italia, pur con tutti i suoi problemi, sembrerebbe aver optato per un percorso di questo tipo. Nondimeno, il lavoro da fare si prospetta ancora molto lungo e irto di ostacoli, dato che al fine di “crescere” sul piano geopolitico, qualsiasi collettività, e la nostra di certo non fa eccezione, dovrebbe essere in grado di muoversi in modo coeso e di concepire se stessa in termini strategici, riconoscendo i propri interessi e prendendo di volta in volta le proprie decisioni anche e soprattutto in base ad essi.
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