Di Cristina Di Silvio*
LOS ANGELES (STATI UNITI) – nostro servizio particolare. Da tre giorni, Los Angeles è teatro di un’operazione di contenimento militare che ha pochi precedenti nella storia recente degli Stati Uniti.
I disordini sono iniziati in seguito a una serie di raid dell’ICE (l’Agenzia federale per l’immigrazione) in quartieri a forte presenza ispanica, con l’obiettivo dichiarato di arrestare migranti irregolari.
La risposta non si è fatta attendere: manifestazioni spontanee, saccheggi, violenze isolate e tensioni etniche hanno acceso una spirale di caos urbano.

In risposta, l’amministrazione federale ha disposto il dispiegamento di 2 mila riservisti della Guardia Nazionale nella sola contea di Los Angeles.

Non si tratta solo di una misura eccezionale: si configura come il primo caso dal secondo dopoguerra in cui una città americana viene trattata, nei fatti, come una zona di crisi interna a matrice politica.
Al momento, cinque distretti urbani sono sotto coprifuoco, otto droni militari monitorano l’area e le Forze dell’Ordine hanno effettuato oltre 600 arresti.
I feriti accertati superano quota 90, di cui almeno 12 in gravi condizioni.
La crisi di Los Angeles segna un punto di svolta operativo: si passa dalla gestione civile della sicurezza a una logica emergenziale di tipo militare, prevista formalmente dall’Insurrection Act (1807), che consente al Presidente di impiegare le Forze Armate per il ripristino dell’ordine in casi straordinari.
Si tratta di una deroga esplicita alla Posse Comitatus Act (1878), pilastro del Diritto federale che proibisce l’uso delle Forze Armate per la repressione interna.
Nel XX secolo l’Insurrection Act è stato attivato solo in casi di gravità estrema: durante le rivolte di Detroit (1967), per l’integrazione scolastica forzata nel Sud, o nelle ore successive all’uragano Katrina.
Nemmeno dopo l’11 settembre o durante le rivolte di George Floyd nel 2020 fu ritenuto necessario impiegare l’Esercito.
Oggi, invece, la finestra politica e culturale per un suo utilizzo appare apertamente riaperta.
Los Angeles è una città da oltre 10 milioni di abitanti, con il 48% di popolazione ispanica e il 9% afroamericana.
Si tratta di uno dei nodi globali più complessi in termini di demografia, economia e interconnessione transnazionale.
Per questo la gestione della sicurezza urbana in tale contesto ha valenza non solo nazionale, ma geopolitica.
L’evento si inserisce all’interno di una dottrina più ampia, che potremmo definire di “centralizzazione strategica del potere”, nella quale l’immigrazione è trattata come minaccia asimmetrica e il dissenso interno come rischio di destabilizzazione.
È in questo quadro che la Casa Bianca ha rilanciato la promessa – politicamente identitaria – di deportare oltre 10 milioni di migranti irregolari, a fronte di una capacità operativa dell’ICE che attualmente consente di eseguire circa 150 mila rimpatri all’anno.
Il ricorso allo strumento militare, pertanto, appare funzionale a colmare tale gap operativo e simbolico.

La militarizzazione della crisi interna statunitense ha già avuto ripercussioni diplomatiche.
A Bruxelles, il Parlamento Europeo ha convocato una sessione straordinaria sulle “derive illiberali nelle democrazie occidentali”.

A Città del Messico, il Presidente López Obrador ha condannato l’operazione dell’ICE e chiesto garanzie per i cittadini messicani negli Stati Uniti.

Organizzazioni come Human Rights Watch e Amnesty International parlano apertamente di “violazioni sistemiche”.
In ottica militare, questo contesto riattiva il dibattito su un uso duale e permanente delle Forze Armate: da una parte il fronte esterno, che resta attivo sul piano convenzionale (Pacifico, NATO, Medio Oriente); dall’altra un fronte interno fluido, in cui la minaccia è ibrida, identitaria e sociale.
La proiezione internazionale dell’America rischia così di essere indebolita da un’instabilità domestica crescente, ma anche ridefinita in senso muscolare.
Il caso Los Angeles non rappresenta un episodio isolato, ma un precedente strategico. Introduce nel dibattito militare e geopolitico il concetto di “normalizzazione dell’eccezione”: la possibilità che strumenti emergenziali diventino pratiche ordinarie di governo.
Nel contesto attuale – segnato da polarizzazione interna, crisi migratoria strutturale e sfide globali alla leadership statunitense – la linea che separa l’ordine costituzionale dalla gestione autoritaria della sicurezza interna appare sempre più sottile.
Non si tratta più solo di come viene esercitato il potere, ma di quali strumenti si è disposti a legittimare per mantenerlo.
*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)
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