Strage di Via d’Amelio e Gaza: lo stesso odore di polvere e vigliaccheria

Di Cristina Di Silvio*

WASHINGTON D.C. Oggi, l’Italia ha ricordato la strage di  Via D’Amelio, a Palermo (19 luglio 1992).

Una macchina trasformata in bomba, un boato squarciò Palermo, con un magistrato, Paolo Borsellino, fatto a pezzi insieme ai suoi cinque agenti di scorta.

La strage di Via D’Amelio, a Palermo (19 luglio 1992)

Non fu solo un attentato. Fu un atto di guerra. Lucido, tecnico, spietato.

Un messaggio chiaro della mafia allo Stato: vi possiamo colpire dove fa più male.

Anche se siete preparati. Anche se siete giusti.

Sono passati 33 anni. Eppure quell’odore – di polvere, di metallo bruciato, di vigliaccheria – aleggia ancora.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in una foto storica

Perché oggi, mentre puliamo targhe e depositiamo corone d’alloro, altrove lo stesso tipo di morte avviene in silenzio.

A Gaza, in fila per un sacchetto di farina, si muore senza clamore.

Nessun ordigno sotto un’auto, ma un colpo netto, mirato, a volte da un drone, a volte da un cecchino.

Distruzioni a Gaza

Nessun avviso. Nessun allarme. Solo spari. Solo corpi per terra. Nel sud della Striscia, in un’area già straziata da mesi di assedio, trenta civili palestinesi sono stati uccisi mentre cercavano di raggiungere un punto di distribuzione alimentare.

Le ONG parlano chiaro. Le immagini sono limpide. I testimoni non vacillano. Il mondo sì. Quello che accadde a Palermo e quello che accade oggi a Gaza non sono eventi isolati. Sono due capitoli di una stessa logica operativa: colpire chi non può difendersi, eliminare ciò che è fragile ma simbolico.

Nel 1992, la mafia volle dimostrare che lo Stato era vulnerabile, che nemmeno la toga bastava a proteggere.

Oggi, nel conflitto israelo-palestinese, un altro potere manda un messaggio simile: anche chi aspetta il pane può diventare bersaglio.

Nessuno pagherà. Non è un paragone morale, è una diagnosi strategica. Paolo Borsellino non era solo un giudice. Era un uomo che conosceva la struttura mentale del nemico, un analista che applicava alle indagini logiche da guerra non convenzionale. Capiva che la prima trincea era la solitudine: quella solitudine operativa che ti costringe a scegliere tra arrendersi e restare.

Borsellino scelse di restare. Sapeva che lo Stato non lo avrebbe protetto. Sapeva che molti sapevano. Eppure continuò. Perché il coraggio, come lui stesso disse, non è l’assenza di paura, ma la capacità di gestirla.

Oggi, nei quartieri assediati di Gaza o Jenin, si ripropone la stessa dinamica. Solo che al posto della toga c’è la fame. Al posto del tritolo, un colpo da remoto.

Famiglie di palestinesi a Gaza

Il risultato non cambia: l’eliminazione sistematica dell’inerme. E allora viene da chiedersi dove siano finite le regole d’ingaggio, che valore abbia oggi il principio di proporzionalità, quando esattamente si smette di colpire un nemico e si inizia a normalizzare l’eliminazione del vulnerabile. La guerra asimmetrica ha certamente reso tutto più sfumato, ma qui non si tratta di sfumature.

Si tratta di corpi che non possono difendersi, né con le armi né con le parole.

Uomini, donne, bambini che aspettano una razione alimentare e che diventano numeri in un rapporto: eventi collaterali, errori di targeting, danni inevitabili.

È in questo punto che il caso Borsellino ci riguarda. Non solo come italiani. Ma come persone, come cittadini, come professionisti che operano nella giustizia, nella sicurezza, nella comunicazione.

Perché quando un sistema sacrifica consapevolmente ciò che è vulnerabile, perde il suo scopo primario: proteggere.

E quando chi dovrebbe proteggere diventa il primo problema, allora quel sistema è già collassato. Borsellino questo lo sapeva. E non si nascose. Continuava a lavorare “con cura” — una parola che oggi può sembrare debole, ma che invece rappresenta la più alta forma di resistenza. Curare la propria funzione, curare le persone, curare la propria coerenza. Non per moralismo. Ma per rigore. Per disciplina. Perché senza cura, la difesa diventa barbarie.

E la comunicazione, complicità. A Gaza oggi ci sono uomini e donne che vivono con cura.

Resistono come possono, senza alcuna istituzione che li protegga. Camminano. Si mettono in fila. Mangiano quando possono. Muoiono quando tocca.

Lo fanno senza strategia, senza scudi, senza garanzie. Ma con dignità. E allora, a chi oggi invoca giustizia solo nel ricordo cerimoniale, a chi separa Palermo da Rafah, Via D’Amelio da Salah al-Din Street, viene da domandare quale parte dell’essere umano riteniamo ancora degna di protezione.

Davvero crediamo che l’uomo solo di Via D’Amelio e il bambino affamato di Gaza siano mondi distanti? Davvero pensiamo che il dolore abbia confini, o che il sangue valga meno a seconda della latitudine? Se lo crediamo, non è la realtà a essere confusa. È la nostra coscienza a esserlo.

Il sangue, quello vero, che cade nei vicoli o nei mercati, non è mai astratto. Non è mai narrativo. Ha un peso specifico che nessuna dottrina, nessun algoritmo, nessun forum internazionale riuscirà mai ad alleggerire. Paolo Borsellino morì per ciò che era giusto.

Non per ciò che era conveniente.

E chi oggi uccide, autorizza o silenzia lo sterminio dei civili disarmati dovrebbe farsi la stessa domanda: sono al servizio della sicurezza… o semplicemente del silenzio?

*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Torna in alto