Di Benedetta La Corte
ROMA. “Il recupero del senso del Dovere” è stato il titolo del convegno svoltosi, ieri, a Roma nella Sala della Protomoteca del Campidoglio, dedicato agli agenti della scorta di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
L’evento è stato patrocinato dal Ministero dei Beni Culturali, dal Comune capitolino, dall’Università La Sapienza, da Lazio Crea e dall’Osservatorio tecnico scientifico per la sicurezza, la legalità e la lotta alla corruzione della Regione.
Presente la presidente della Commissione antimafia Chiara Colosimo, che ha ricordato le due stragi di stampo mafioso, quella di Capaci, il 23 maggio 1992, cui bersaglio era il giudice Giovanni Falcone e quella di Via Mariano D’Amelio, avvenuta dopo 57 giorni, il 19 luglio, cui scopo era quello di eliminare il magistrato Paolo Borsellino.
Insieme a loro occorre ricordare chi facendo il proprio dovere ha perso la vita, perché “molto spesso ci si occupa più degli scortati che delle scorte, che non sono secondarie e non sono da sottovalutare per una serie di motivi fra cui il senso del dovere, ha affermato Colosimo, che ha proseguito “la stragrande maggioranza delle nostre Forze di Polizia che sceglie di fare la scorta sa che tutto quello che da quel momento in poi dovrà fare è quello di mettere la propria vita a scudo dalla vita di qualcun’altro.
È questo non possiamo dimenticarlo, oggi, esattamente come non lo possiamo dimenticare per gli anni passati facendo questo, adempiendo al proprio dovere, non come eroe, ma come persona che ha scelto consapevolmente di fare fino in fondo quello che doveva, oggi non c’è più e per questo li ricordiamo”.
“Noi tutti – ha detto Colosimo – possiamo recuperare proprio a quel senso del dovere decidendo di stare dalla parte del bene e facendo scelte che portino il nome della legalità”.
E proprio sul senso del Dovere è intervenuto l’assessore alla cultura del Comune di Roma, Massimiliano Smeriglio dicendo che tutti siamo chiamati a difendere nell’esercizio dei nostri ruoli e per questo è importante ricordare i caduti di quella stagione.
“La salute della democrazia si misura anche dalla capacità di contrastare le organizzazioni criminali”.
“La lotta alle mafie non è solo un problema di ordine pubblico ma riguarda tutte le istituzioni, la società civile ed ogni singolo cittadino – ha aggiunto -. La criminalità trova terreno fertile laddove ci sono questioni di disagio, di povertà e di fatica”.
L’assessore ha proseguito dicendo che “è compito della politica e delle istituzioni tutte quello di mettere in campo misure che riducano le disuguaglianze e la difficoltà di alcuni territori a volte lasciati soli.
È questa solitudine che dobbiamo combattere. Si muore quando si viene lasciati da soli dalle istituzioni”.
Di solitudine ha parlato il sopravvissuto alla strage di Capaci, Giuseppe Costanza, autista giudiziario che era in auto con il magistrato e la consorte, e che da 32 anni lotta per la verità e il suo riconoscimento come quello degli altri colleghi: “La mafia non è quella che ti spara ma quella ti emargina, ti lascia solo, fa affari ed utilizza la manovalanza per raggiungere i suoi scopi”

Giuseppe Costanza, autista di fiducia di Giovanni Falcone, sopravvissuto alla strage di Capaci il 23 maggio 1992
“ Si parlava della scorta come se non avessimo nome e cognome – ha spiegato Costanza – sono trascorsi 32 anni, e l’Associazione dei magistrati che avrebbe dovuto invitarmi nelle manifestazioni, che fa ogni anno in Tribunale ricordando Falcone, non lo ha mai fatto”.
Nonostante sia passato più di un trentennio, Costanza racconta quel periodo della sua vita come fosse ieri, e con emozione ricorda di essere stato scelto personalmente da Falcone: “Mi domandò se fossi disposto a guidare la sua macchina, per me era una domanda strana, mi sono reso conto dopo il perchè di questa domanda. Con noi non c’erano solo le 3 auto blindate previste, ma anche l’elicottero che dall’alto vigilava, da li mi sono dato una risposta, perché lui sapeva il rischio a cui andava incontro”.
“Non é stato facile, all’inizio la tensione era tanta – ha proseguito Costanza – ma pian piano ho iniziato a farci l’abitudine. Ho lavorato nella sua scorta dal 1984 al 1992. Non fu una mia scelta, mi scelse lui”.
“Per me la strage di Capaci è dovuta al fatto che qualcuno ha avuto tantissima paura della sua posizione da Procuratore capo da ordinare di farlo uccidere – ha proseguito Costanza – non a Roma, ma a Palermo. Avrebbero potuto ucciderlo nella Capitale ma non l’hanno fatto. L’esplosivo non è opera di un macellaio, né di un manovale, qui ci vogliono persone tecnicamente preparate per far quel tipo di lavoro. L’ordine è partito da Roma. Questo è un depistaggio bello e buono. Chi ha dato l’ordine a Totò Rina, a Bernando Provenzano di farlo uccidere? Loro hanno solo eseguito l’ordine”.
Il 23 maggio del 1992, nei pressi di Capaci (autostrada A 29) dove persero la vita insieme a Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, i componenti della sua scorta.
Il 27enne Vito Schifani, era l’agente di Polizia che guidava la prima delle auto che stavano scortando Falcone e la moglie.
La Fiat Croma bianca venne investita per prima dall’esplosione che lo uccise sul colpo.
Sposato con Rosaria, di 22 anni, che ricordiamo tutti al funerale del marito in un pianto disperato disse “Chiedo innanzi tutto che venga fatta giustizia. Ma io vi perdono se avete il coraggio di cambiare”.
A fianco di Vito c’era Antonio Montinaro, Assistente della Polizia e capo scorta di Falcone. Non aveva neppure 30 anni quando lasciò la moglie Tina Martinez, ora consulente della Commissione parlamentare antimafia e che con la sua frase “non ci avete fatto niente” ha fatto un altro pezzo di storia delle donne nella lotta alla criminalità organizzata.
Rocco Dicillo altro componente della scorta di Falcone, avrebbe dovuto sposarsi presto. Aveva poco più di 30 anni. Aveva lasciato l’Università dopo avere vinto il concorso in Polizia, perché voleva far parte delle scorte.
Già in quell’anno aveva rischiato di perdere la vita nell’attentato all’Addaura.

Gli agenti della scorta di Giovanni Falcone, uccisi insieme a lui e la moglie Francesca Morvillo il 23 maggio 1993
Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi e Claudio Traina erano invece, gli agenti affidati alla scorta di Paolo Borsellino.
Il magistrato, fraterno amico di Giovanni Falcone, fu ucciso il 19 luglio 1992 , all’altezza del numero civico 19 di via Mariano D’Amelio a Palermo.
Alle 16:58 del 19 luglio 1992 una Fiat 126 imbottita con 100 chili di tritolo, parcheggiata sotto l’abitazione della madre del magistrato, esplose, dilaniando il giudice i 4 uomini e l’unica donna presente della sua scorta.
I feriti furono 24.

Strage di via d’Amelio dove venne ucciso Paolo Borsellino il 19 luglio 1992. La sua scorta: Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina
Agostino Catalano, Assistente capo della Polizia, un veterano del Reparto di solito era assegnato alla protezione di altre personalità.
Ma per una fatalità quel giorno fu incaricato di proteggere Borsellino.
Era il suo giorno di ferie. Lasciò da soli i tre figli.
Sua moglie era, infatti, morta alcuni anni prima a causa di un tumore.
L’agente Walter Eddie Cosina nato in Australia era migrato in Italia nel dopoguerra.
Prestava servizio presso la Direzione anticrimine della Polizia di Stato.
Per scelta coraggiosa si spostò da Torino a Palermo, dove c’era più bisogno di personale da destinare alle scorte.
Nel capoluogo siciliano perse la vita. Aveva 31 anni.
Claudio Traina, era entrato in Polizia giovanissimo e nel 1990 fu destinato di scortare le personalità più a rischio. Aveva 26 anni e lasciò suo figlio Dario di appena 11 mesi.
Vincenzo Li Muli, nato a Palermo, amava le moto e le auto da corsa, il suo sogno era quello di entrare in Polizia, aveva 22 anni quando fu ucciso.
Emanuela Loi, fu la prima poliziotta in servizio di scorta a rimanere uccisa in una strage di mafia.
Aveva studiato per diventare un’insegnante.
Era stata trasferita a Palermo nel 1991 ed assegnata proprio alla scorta del giudice Paolo Borsellino solo dopo la strage di Capaci.
Non voleva fare questo mestiere, infatti ogni volta che andava in licenza, diceva a casa di voler smettere per farsi una famiglia.
Morì a soli 24 anni.
Il solo a salvarsi fu Antonino Vullo, perchè stava parcheggiando l’auto e si trovava distante dal luogo dell’attentato.
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA