Terrorismo e mafie. Parla il comandante del ROS, Generale di Brigata Pasquale Angelosanto: “Le nostre attività non hanno evidenziato tangenze significative tra la criminalità organizzata ed il terrorismo”

Roma. Il 3 dicembre 1990, nel quadro di un programma di potenziamento della struttura anticrimine, fu costituito per l’Arma dei Carabinieri un Raggruppamento a livello Brigata con compiti d’intervento sul territorio nazionale nell’attività di contrasto alla criminalità organizzata, dipendente alla Divisione Unità Mobili e Speciali “Palidoro” di Roma.
Oggi, le funzioni operative del ROS (Raggruppamento Operativo Speciale) si sviluppano in interventi immediati, in concorso con gli organi territoriali, in materia di criminalità eversiva e terroristica, sequestri di persona a scopo di estorsione, per lo sviluppo dell’attività investigativa ed in interventi autonomi di perfezionamento e completamento delle indagini e conseguente valutazione concettuale nelle materie di competenza delle singole aliquote funzionali.

I Carabinieri dei ROS in un’operazione

Al comando del ROS c’è il Generale di Brigata, Pasquale Angelosanto. In questa intervista rilasciata a Report Difesa, il comandante del Raggruppamento fa il punto sull’evoluzione del terrorismo interno ed internazionale, ma anche dell’evoluzione della criminalità mafiosa.

Il comandante del ROS, Generale di Brigata Pasquale Angelosanto

Generale, seppure oggi meno evidente anche sulla stampa, possiamo ancora parlare di terrorismo interno? Ci può dare una descrizione anche dei fenomeni ad esso collegati?

Sebbene le attuali manifestazioni del terrorismo e dell’eversione interni siano lontane dal raggiungere il livello di pervasività ed offensività delle formazioni di stampo brigatista protagoniste della stagione lottarmatista, il composito fronte dei gruppi di ispirazione anarco-insurrezionalista rappresenta una minaccia, seppur attenuata, da non sottovalutare, alle Istituzioni democratiche del Paese e al legittimo esercizio delle loro funzioni e prerogative.

In seno alla galassia anarco- insurrezionalista, le compagini che aderiscono alle progettualità della FAI (Federazione Anarchica Informale) costituiscono la frangia più radicale e pericolosa. Queste formazioni, attraverso una costante attività di propaganda e proselitismo, che si avvale soprattutto delle nuove tecnologie di comunicazione, diffondono messaggi mirati ad istigare azioni violente contro i cosiddetti simboli del “dominio” e del “capitale” secondo consolidate modalità di attacco, come l’invio di plichi esplosivi. L’attuale attivismo di tali aggregazioni contribuisce, insieme al vasto repertorio dei possibili obiettivi, a rendere particolarmente insidiosa la minaccia ad essi correlata.

Molteplici sono le campagne di lotta che sovente trovano ambiti di sovrapposizione tra di loro. Tra queste, la lotta antimilitarista costituisce uno dei momenti di aggregazione trasversale, atteso che nella specifica tematica convergono ulteriori questioni, quali l’antimperialismo, la difesa dell’ambiente, la militarizzazione del territorio, la riduzione di fondi in danno del welfare ed il tema della repressione. Negli ultimi anni, si è assistito alla diffusione di una copiosa pubblicistica di settore che, in alcuni casi, si è concretizzata in una preventiva attività d’inchiesta sugli obiettivi prescelti, con evidente finalità istigatoria e nella realizzazione di iniziative propagandistiche tese ad estendere l’uditorio di riferimento anche a favore di ambienti meno radicali.

 

Molto importanti le intercettazioni dei Carabinieri

A tutto ciò si affianca la campagna di lotta contro la repressione ed il carcerario. Le attività di sostegno e solidarietà a favore dei militanti anarchici detenuti costituiscono il collante ideologico – programmatico delle formazioni anarco-insurrezionaliste che individuano nelle Forze dell’Ordine, nella Magistratura e negli organismi del sistema penitenziario gli obiettivi privilegiati degli attacchi. Rientrano in tale ambito di lotta anche le mobilitazioni contro le strategie di gestione dei flussi migratori, nonché le politiche securitarie e di controllo condotte nei confronti delle diverse forme di marginalità sociale. Costante impegno si registra in ordine alla campagna di lotta anti-tecnologica ed anti-civilizzazione, contro le cosiddette nocività. Rientrano in tale fronte di protesta, l’opposizione al nucleare, all’ingegneria genetica, alle nano e biotecnologie, allo sviluppo dell’industria degli OGM in campo agro-alimentare e alla ricerca e sperimentazione sugli animali finalizzate alla produzione di farmaci e cosmetici.

Per quanto riguarda i circuiti di matrice marxista-leninista, l’esame delle più recenti dinamiche dell’area rivela una situazione di sostanziale stasi operativa e l’assenza di segnali che accreditino la ripresa di una fase di riorganizzazione delle cosiddette “forze rivoluzionarie”. Da ciò ne consegue una valutazione della minaccia che tende a escludere che progettualità di cambiamento radicale della società in chiave marxista-leninista possano oltrepassare il campo della mera elaborazione teorica per concretizzarsi in una coordinata ripresa di pratiche lottarmatiste.

Rivolgendo l’attenzione verso i gruppi più consistenti e strutturati della destra radicale, emergono i settori principali cui tale area si rivolge tra cui la lotta contro l’immigrazione, la difesa della casa, della famiglia tradizionale, l’anti-mondialismo e il rifiuto delle politiche comunitarie. Il tema dell’immigrazione è sempre più centrale nell’attività di propaganda delle compagini dell’estrema destra. Alle istanze xenofobe e razziste declinate in chiave identitaria – che hanno costituito cornice ideologica, nel cui ambito sono state organizzate specifiche iniziative di piazza – si sono poi sovrapposti sentimenti islamofobici, legati al diffuso allarme di attacchi jihadisti.

In tale quadro, l’attenzione verso la destra radicale permane elevata poiché esiste il rischio di un’intensificazione di manifestazioni o la realizzazione di azioni isolate, anche a carattere violento, contro cittadini extracomunitari perpetrate da singoli soggetti o gruppi marginali, mossi da esaltazione ideologica. È interessante a tal proposito rammentare l’episodio del ferimento con arma da fuoco di sei cittadini extracomunitari avvenuto a Macerata, nel mese di febbraio 2018, ad opera di Luca Traini, gravitante nell’area dell’estrema destra locale.

Esiste se così si può dire, un’identica matrice dei cosiddetti gruppi antagonisti?

Se per antagonismo definiamo comunemente quella forma dell’agire politico, individuale e collettivo, che si manifesta secondo schemi non convenzionali ovvero totalmente o parzialmente alternativi al circuito istituzionale, rientra nel suo ambito un panorama molto ampio e diversificato di gruppi, associazioni, individui, interpreti di un patrimonio ideologico-culturale marcatamente eterogeneo che possono, in alcune fasi, condividere lotte, mobilitazioni, istanze, rivendicazioni. Quindi, senza criminalizzare i movimenti popolari di dissenso, può accadere che tali spazi di socialità politica possono rappresentare privilegiato bacino di reclutamento per l’avvio di percorsi individuali connotati in chiave spiccatamente antagonista o finanche eversiva. Tale valutazione rende chiaro che nell’attuale panorama antagonista non esiste una matrice comune, considerando i differenti presupposti ideologici che storicamente hanno ispirato le varie componenti dell’area.

Il terrorismo di matrice islamica preoccupa tutto il mondo. Finora cosa hanno dimostrato le vostre indagini?

L’esperienza maturata dall’Arma e in particolare dal ROS sul complesso settore fornisce elementi utili a comprendere l’evoluzione della minaccia che allo stato, come largamente condiviso dagli analisti, tiene conto delle ridotte capacità da parte delle organizzazioni terroristiche nel porre in essere attacchi complessi su larga scala, coordinati su più livelli e con un elevato numero di vittime. Tali caratteristiche appartengono ad una superata epoca dello jihadismo globale che, attraverso modalità operative articolate, ha visto il suo acme negli attentati dell’11 settembre 2001. Oggi ci troviamo di fronte a una minaccia che prende forme sempre diverse, forse più subdole e difficili da contrastare.

A differenza di quanto ritenuto da larga parte dell’opinione pubblica, le operazioni di polizia sino ad oggi svolte hanno sottolineato come il numero di attacchi in cui gli attentatori conservano un contatto – anche se solo indiretto – con il gruppo terroristico, costituisca la maggioranza tra quelli condotti negli ultimi anni in Occidente. Tale dato deve essere tenuto in considerazione nella predisposizione di uno strumento di contrasto adeguato.

La traiettoria evolutiva del fenomeno ci porta ragionevolmente a pensare che alla perdita di territorio da parte dello Stato Islamico conseguirà una sempre maggiore spinta verso la dimensione virtuale del Califfato. Questa entità, il Califfato Virtuale, già sulla scena globale da tempo, sfrutterà il web. In questo modo verrà ancora di più accentuato il concetto di imprenditore virtuale del jihad, con il quale ci si riferisce allo jihadista che, intraneo allo Stato Islamico e operativo nei territori del Califfato, da remoto è in grado tramite la rete Internet di etero-dirigere il radicalizzato presente in Occidente.

In un recente convegno, a Napoli, dedicato a sicurezza e legalità, a proposito della criminalità organizzata è stato coniato il termine di “borghesia mafiosa”. Fermo restando che la criminalità dei “colletti bianchi” fa parte, ormai da anni, di studi, oggi che tipo di analisi sulle mafie può essere fatto?

L’analisi non può che essere variegata, esattamente come lo è la stessa criminalità organizzata mafiosa, che non costituisce un’entità monolitica nei contenuti ed immutabile nel tempo.

Le varie organizzazioni assommano a connotati comuni (il carattere predatorio, la tensione all’accumulazione di ricchezze economiche e di potere) caratteristiche distinte, dovute alla tradizione criminale e alle radici culturali dei territori di riferimento: strutture organizzative, strategie operative, aggressività, capacità di infiltrarsi nel tessuto economico o istituzionale variano decisamente a seconda che si parli di cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra o criminalità organizzata pugliese.

E quelle caratteristiche cambiano anche nel tempo, per meglio soddisfare gli interessi criminali. In linea con un tale mutevolezza, si possono dare varie letture anche al concetto di “borghesia mafiosa”.

Quali?
La definizione in sé non è una novità: coniata già a fine ’800, discussa più volte negli ultimi decenni, ha via via ampliato le sue possibili declinazioni.
Di “borghesia mafiosa” si è diffusamente parlato a proposito di quella cosiddetta “area grigia”, è questa la definizione data dal prof. Rocco Sciarrone, che annovera ambienti che, pur estranei a un sodalizio, stabiliscono con i suoi esponenti contatti, collaborazioni o forme di contiguità più o meno strette.
Decenni di indagini e processi hanno ormai conclamato l’esistenza di un blocco sociale mafioso che comprende tecnici, esponenti della Pubblica Amministrazione, professionisti, imprenditori e politici, i quali interagiscono con le mafie in una rapporto di sinallagma fondato sulla difesa di interessi comuni.
Ma per “borghesia mafiosa” si può intendere anche altro, come ha fatto il Procuratore Aggiunto della Direzione Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo. Giovanni Russo, proprio nel corso della “Conferenza nazionale su sicurezza e legalità” di Napoli, quando ha sottolineato come la figura stessa di “mafioso” stia progressivamente abbandonando lo stereotipo del soggetto emarginato, in favore di profili sempre più acculturati e professionali.

Si parla molto anche delle mafie “etniche”. Ed in particolare di quella nigeriana e turca. Può darci qualche informazione maggiore sul loro modus operandi, sui collegamenti nazionali ed internazionali ed anche sulla loro effettiva capacità di agire sul nostro territorio nazionale?

In Italia, la criminalità di matrice nigeriana si è manifestata a partire dagli anni ’80, in concomitanza dell’arrivo di grandi flussi migratori provenienti dal continente africano. Insediatisi inizialmente nel Piemonte, i gruppi delinquenziali nigeriani si sono diffusi in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, per poi interessare la Campania, in particolare il litorale domitio, le Marche, l’Abruzzo, la Capitale, la Sicilia e, infine, il restante territorio nazionale.

Le indagini svolte negli anni hanno dimostrato come i sodalizi nigeriani abbiano raggiunto un elevato livello criminale, a cominciare dalla struttura interna, che si basa su una rigida organizzazione verticistica che prevede la presenza di capi internazionali, nazionali e locali: questi ultimi, pur autonomi nella conduzione di attività illecite sui territori di propria influenza, perseguono politiche criminali condivise, mantenendo contatti operativi con le strutture-madri presenti in Nigeria.

I principali settori di interesse sono il narcotraffico internazionale, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e la tratta di esseri umani finalizzata allo sfruttamento della prostituzione, gestiti con metodi mafiosi. Questi sodalizi non disdegnano i reati contro il patrimonio, il falso documentale, la clonazione e l’indebito utilizzo dei mezzi di pagamento e il traffico di valuta contraffatta.

I profitti illeciti vengono trasferiti in Nigeria attraverso corrieri, operazioni di money-transfer o sistemi finanziari di tipo fiduciario; è invece residuale il riutilizzo dei proventi in Italia, sotto la copertura di attività di importazione e commercio di prodotti etnici.
Tali organizzazioni, grazie anche alla elevata compattezza interna garantitagli dalla comune provenienza etnica dei membri, hanno acquisito una capacità operativa tale da permetter loro di intessere, nell’ambito del traffico di stupefacenti, rapporti anche con la criminalità organizzata italiana (lo dimostrano vari sequestri di hashish proveniente dal Marocco, destinato a consorterie di ‘ndrangheta e camorra) e con clan albanesi.

La criminalità di matrice turca, invece, è da sempre considerata implicata nel narcotraffico (essendo la Turchia la principale “porta d’accesso” in Europa dell’eroina proveniente dall’Afghanistan) e nel traffico dei migranti, attraverso la cosiddetta rotta balcanica terreste o la rotta marittima del Mediterraneo orientale (utilizzate per entrare illegalmente nell’UE).

In Italia, l’esiguità della comunità turca stanziale non ha favorito il radicamento di sodalizi criminali capaci di operare sul territorio nazionale; non a caso, non risultano contestazioni di reati associativi di tipo mafioso a carico di cittadini turchi.

La stampa italiana mette in relazione l’immigrazione con la criminalità organizzata ed il radicalismo religioso. C’è del vero in questo?

Le attività svolte dal ROS non hanno evidenziato tangenze significative tra la criminalità organizzata e il terrorismo. Tale valutazione, condivisa anche in ambito internazionale con collaterali organismi di polizia, considera i contatti tra le due aree come estemporanei e derivanti da occasionali situazioni di necessità che, in special modo, singoli lone terrorists o vere e proprie micro cellule possono tentare di soddisfare ricorrendo ai circuiti di criminalità comune o organizzata, allorquando strade alternative non risultano percorribili.

In ambito internazionale è stato documentato come le organizzazioni terroristiche abbiano utilizzato “la rotta balcanica” per far entrare clandestinamente in Europa i loro “combattenti”. È il caso dei due attentatori suicidi dello Stade de France, Ahmad Almohammad e Mohammad Almahmod, che hanno raggiunto la Francia “mischiandosi” ad altri rifugiati siriani. La medesima rotta è stata utilizzata per rientrare in Europa anche da Abaaoud Abdelhamid, “mente” degli attacchi terroristici di Parigi del novembre 2015, deceduto il 18 novembre 2015, in un’operazione antiterrorismo nel comune di Saint-Denis (Parigi). Abaaoud Abdelhamid era a capo della cellula di Verviers, smantellata nel gennaio 2015 in Belgio, il cui obiettivo era quello di condurre attacchi armati in Belgio, contro stazioni di polizia ed agenti.

Parliamo di relazioni internazionali tra il ROS con quelli delle Forze di Polizia europee ed extra-europee. Come sono strutturate queste collaborazioni?

La collaborazione del ROS con le Forze di Polizia europee ed extra europee si basa su canali di cooperazione consolidati e formali che si sviluppano attraverso gli ufficiali di collegamento di Interpol e gli esperti della sicurezza della Direzione Centrale per i Servizi Antidroga, quest’ultima competente in materia di coordinamento sulle indagini relative al narcotraffico internazionale. In ambito europeo un ulteriore canale è costituito da Europol, mentre gli strumenti giuridici, ormai sempre più aderenti alle necessità operative, sono rappresentati dalla possibilità di istituire squadre investigative comuni.

Il ROS, inoltre, partecipa a diversi gruppi di lavoro in ambito europeo finalizzati a confrontare ed ottimizzare le tecniche investigative e le modalità di esecuzione delle operazioni speciali ed a programmi addestrativi comuni.
Nell’ottica di estendere la cooperazione internazionale, non viene trascurato lo scambio informativo sulle cosiddette buone prassi, tanto che presso il Raggruppamento vengono formati, sulle tecniche anticrimine, appartenenti a forze di polizia europee e del Nord Africa.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Autore