Regno Unito: Il diritto di scegliere il futuro. La rivoluzione democratica britannica e il paradosso del mondo chiuso

Di Cristina Di Silvio*

LONDRA.  “Il diritto di voto non è un favore, ma una linea del fronte”.

Nel cuore dell’Europa occidentale, mentre il panorama globale è attraversato da crescenti spinte autoritarie e dalla sistematica erosione delle libertà fondamentali, il Regno Unito annuncia un cambio di paradigma che travalica la politica interna e assume un significato strategico globale: il voto sarà esteso ai 16 enni e ai 17enni.

Giovani britannici

Una misura destinata a introdurre potenzialmente oltre nove milioni di nuove voci nell’arena elettorale della democrazia parlamentare più longeva al mondo.

Al netto della dimensione tecnica, l’estensione del suffragio giovanile si configura come un’operazione di rilievo dottrinale: un’affermazione di potenza normativa dell’Occidente liberale in un contesto internazionale dominato da guerre ibride, strategie di dominio cognitivo e confronto tra modelli di governance.

In un mondo dove l’Iran può condannare a morte una ragazza per un velo e dove a Gaza i minori crescono sotto bombardamenti senza mai conoscere il diritto di rappresentanza, Londra decide di affidare parte del suo destino politico a cittadini appena adolescenti.

Una manifestazione per la libertà della NATO

La domanda che ne scaturisce è tutt’altro che provocatoria: se a 16 anni si può combattere, lavorare, essere tassati o detenuti, perché non si dovrebbe votare?

Il diritto di voto, sancito a livello internazionale dall’articolo 25 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (ICCPR), è il fondamento strutturale della sovranità popolare e della legittimità statale.

L’interpretazione evolutiva di tale norma – come confermato dal Comitato per i Diritti Umani dell’ONU – impone agli Stati non solo di garantire il suffragio universale, ma di evitare ogni esclusione che non sia giustificata da criteri oggettivi e ragionevoli.

In tale contesto, la soglia dei 18 anni appare sempre meno un criterio razionale e sempre più un residuo storico. Sotto questa luce, la riforma britannica assume un valore metastrategico: è un messaggio al mondo, un’affermazione di resilienza morale contro l’infantilizzazione politica praticata dalle autocrazie emergenti.

Il suffragio giovanile diventa così una variabile di deterrenza non convenzionale.

È lo specchio di un sistema che si rafforza non attraverso il controllo coercitivo ma tramite la fiducia nella propria capacità di rigenerazione.

Il giovane, nella visione britannica, non è un soggetto da sorvegliare ma un nodo attivo della catena decisionale nazionale.

Il messaggio, diretto e inequivocabile, è rivolto non solo ai nemici esterni, ma anche a un Occidente spesso impantanato nella retorica della stabilità: senza inclusione generazionale, nessuna democrazia può dirsi strategicamente sostenibile.

Nel campo opposto, regimi come Cina, Russia e Iran applicano un’architettura del potere fondata sull’addestramento obbedienziale delle masse giovanili.

In Russia, l’istruzione è integrata in un progetto di militarizzazione dell’identità nazionale; in Cina, il sistema educativo è piegato alla neutralizzazione preventiva del dissenso; in Iran, il controllo sociale si attua attraverso una pedagogia della sottomissione religiosa.

Studentesse e studenti cinesi

 

Il controllo del pensiero giovanile, in questi contesti, è uno strumento di sopravvivenza del potere.

Ecco perché offrire rappresentanza politica ai giovani costituisce, nei fatti, un’azione strategica offensiva: mina i presupposti della pedagogia autoritaria. Non è un caso che il concetto di “war of narratives” – la guerra delle narrazioni – sia divenuto centrale nelle dottrine militari contemporanee.

La democrazia, in questo scenario, è essa stessa un sistema d’arma cognitivo. La possibilità di scegliere, esercitata sin dall’adolescenza, produce un habitus mentale incompatibile con le logiche del totalitarismo. È un elemento destabilizzante per gli attori che si fondano sull’uniformità e sul controllo.

Non sorprende quindi che, nel campo delle alleanze occidentali, la questione dell’inclusione politica giovanile inizi ad assumere un valore operativo. La NATO, nel suo Strategic Concept 2022, richiama la necessità di rafforzare la coesione interna e la resilienza sociale come precondizione alla deterrenza esterna.

L’Unione Europea, attraverso l’articolo 39 della Carta dei Diritti Fondamentali, riconosce il diritto di voto come elemento essenziale della cittadinanza.

Se il conflitto globale si gioca anche nella sfera informativa e percettiva, allora includere i giovani nel processo decisionale significa rafforzare il fronte interno.

Il caso del Liechtenstein, micro-Stato senza Forze Armate e con un’architettura istituzionale fortemente consensuale, rappresenta l’altro volto della stessa medaglia: una democrazia fondata non sull’innovazione normativa ma sull’inerzia del consenso.

Anche in questo, il potere si esercita senza coercizione. Ma il modello non è esportabile: funziona in assenza di minacce sistemiche, in un contesto isolato, quasi extrastorico.

In un mondo in cui la minaccia ibrida è pervasiva e le interferenze cognitive sono ordinarie, solo una democrazia capace di rigenerarsi in senso inclusivo può reggere l’urto del confronto globale.

Non è una coincidenza storica, ma una precisa linea di frattura.

Da una parte Stati che temono il pensiero giovane e ne anticipano la repressione; dall’altra un Paese che ne affida la gestione del potere, scommettendo sulla propria capacità di adattamento. Questa non è solo una differenza culturale: è un aspetto della competizione strategica in atto.

Perché oggi, nel confronto tra democrazie resilienti e autocrazie adattive, la posta in gioco è la sovranità cognitiva.

E allora, nell’arena disordinata del mondo multipolare, la domanda che resta è più geopolitica che filosofica: chi è davvero più forte? Chi sorveglia il pensiero… o chi lo prepara al comando?

*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)

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