Di Paola Ducci*
KIEV. Le città fantasma sono luoghi divenuti altro, in cui la natura ha preso il posto della cultura o, più semplicemente, della vita umana.
Sono luoghi non-luoghi di passaggio, sono nuove architetture su vestigia riconoscibili. Sono diventati spazi liminali.

La storia drammatica di Pripyat è nota a tutti.
Era la mattina del 26 aprile 1986 quando il reattore numero 4 della centrale di Chernobyl (Ucraina) esplose, rilasciando nell’aria enormi quantità di materiale radioattivo.
Nonostante il disastro le autorità sovietiche ordinarono l’evacuazione di Pripyat solo il giorno successivo, lasciando la popolazione inconsapevole esposta a livelli di radiazione altissimi.
Quando già tutto il mondo era ormai a conoscenza del disastro, in meno di tre ore la città fu svuotata e condannata all’abbandono.
Fondata nel 1970 per ospitare gli operai della centrale nucleare di Chernobyl, Pripyat incarnava il sogno sovietico di progresso e benessere. Con i suoi circa 50 mila abitanti, scuole moderne, cinema, una piscina olimpionica e persino un parco divertimenti, era considerata una città giovane e promettente, dove il futuro sembrava già arrivato.

Oggi Pripyat è una città fantasma nel cuore della zona di esclusione ucraina, vicino al confine con la Bielorussia , un non-luogo che rappresenta il simbolo eterno di una tragedia nucleare e della resilienza della memoria. La zona di esclusione, anche detta “di alienazione” ucraina è un’area altamente contaminata attorno alla centrale nucleare.
Si estende per circa 30 chilometri di raggio attorno al sito del reattore esploso e comprende le città abbandonate di Pripyat, Chernobyl e oltre 90 villaggi evacuati.
Tutto qui è immerso nel silenzio: i palazzi grigi sono avvolti dalla vegetazione, le aule scolastiche conservano ancora libri e giocattoli, la famosa ruota panoramica, mai inaugurata, svetta solitaria nel parco divertimenti.
Un luogo dove anche il tempo sembra un non-tempo, un tempo alienato, un luogo che racconta uno spaccato tragico sul passato sovietico e sugli effetti duraturi degli incidenti nucleari.
Il termine “alienazione” indica la separazione forzata tra la popolazione e il territorio, dovuta alla contaminazione radioattiva, ma in Priapyt rappresenta anche una separazione concettuale forzata fra quello che poteva essere e non sarà mai più, ma che è destinato a diventare altro.
E infatti, nonostante l’alto rischio, Pripyat è oggi meta di escursioni guidate, regolamentate e condotte con precauzioni rigorose.
I visitatori devono rispettare norme severe: non toccare nulla, non sedersi, non mangiare all’aperto. Alcuni edifici sono accessibili, ma il rischio di crolli e radiazioni impone limiti stringenti.
Pripyat non è solo un luogo fisico, ma anche una potente metafora.
È diventata protagonista nella cultura pop, da film hollywoodiani come Transformers e Chernobyl Diaries, a miniserie Chernobyl di HBO, fino a videogiochi come S.T.A.L.K.E.R. e Call of Duty.
Questi racconti ne hanno amplificato il fascino e la drammaticità ma anche il valore storico e simbolico.
Visitare Pripyat oggi significa confrontarsi con la fragilità della civiltà di fronte alla potenza della tecnologia, ma significa anche visitare uno spazio liminale che lentamente ma inesorabilmente si trasforma.
E’ un lascito testamentario che ci impone il dovere di ricordare affinchè ciò che è accaduto non accada mai più e insieme è una porta verso un luogo “altro” non catalogabile.
*Editor per l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore della Difesa
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