Di Vincenzo Santo*
KIEV. Il mondo europeo è in balia della rabbia. Rabbia e frustrazione.
Una miscela esplosiva che potrebbe condurre a situazioni dalle quali sarebbe difficile tornare indietro.
Rabbia e frustrazione per aver seguito per anni le trame politiche della Casa Bianca in funzione antirussa per trovarsi dalla sera alla mattina con il cerino in mano.

È questo stato d’animo che io reputo stia agitando le Cancellerie europee.
Principalmente quelle che contano. Non solo dell’Unione Europea.
Perché oltre a Macron c’è anche il britannico Starmer. Ma è un’assoluta novità? Direi di no.

La vera novità consiste nel fatto che mentre sino a pochi decenni fa, dal secondo dopoguerra, rabbia e frustrazione aggredivano comunità minori, per poi talvolta esplodere in violenze, le tensioni conseguenti oggi scuotono nazioni europee leader, prospere, ricche e incolumi da decenni da scontri, guerre ed eccidi, mettendo in discussione la loro supposta superiorità morale.
Una condizione privilegiata che le ha fatte ritenere inattaccabili nei loro legami culturali e progressi sociali. Questi ritenuti inossidabili, con saldature robuste nelle proprie coscienze progressiste.
Una tenuta che, inoltre, grazie alle recenti declinazioni relativistiche, agevolate dagli incessanti movimenti per i vari diritti civili e dall’ondata “woke”, ha fatto loro presumere di essere all’apice del successo nell’umanità, a cui tutte le società, secondo l’etica dell’assoluto, dovrebbero aspirare. Un paradiso in terra che le accomuna alle comunità d’oltre Oceano. Il loro esempio.
Isaiah Berlin, che ritengo un gigante del pensiero liberale dello scorso secolo, diceva che l’idealismo dell’uomo e la fede nella perfettibilità della sua specie, lungi dal promuovere la libertà o la democrazia, possono essere i loro peggiori nemici, ed è solo la realistica visione umana della propria imperfezione a rendere tollerabile la vita terrena.
Il lento progredire delle destre in Europa ha scosso la presunzione progressista che sino ad oggi si era gongolata nella gioia dei conteggi delle urne, derubricando quell’ascesa estrema a momenti di populismo momentanei. Che può essere che tale sia.

Ma il ritorno di Trump, un evento che io riterrei diverso da quello precedente perché potrebbe segnare una svolta differente in termini politici e sociali, sta lasciando quella parte sgomenta.
L‘EPICENTRO STATI UNITI
È una rivoluzione vera e propria, e l’epicentro è in America. Il paradosso è che Vance, il vice Presidente, lamenta che gli europei abbiano smarrito i propri valori quali? – ma la responsabilità di tutto ciò, lui dimentica, arriva proprio dalla sua America. E mi pare incredibile che Meloni nel suo intervento al Congresso repubblicano dei giorni scorsi, che poteva e doveva evitare, come giustamente ha fatto Bardella dopo il gesto di pessimo gusto di Bannon, non lo abbia voluto sottolineare.

Occasione persa. Lei vuole fare da ponte tra Europa e Trump? Ecco, poteva farlo in due modi: non partecipare, manifestando così il proprio distacco da Bannon, o partecipare ma sottolineando quella grande responsabilità americana. I ponti vanno fatti bene, ben solidi, guardandosi in faccia e parlandosi francamente. Non ha iniziato bene. E andando oltre, avrebbe dovuto evitare di dire qualche sciocchezza.
Come, per esempio, che “l’Italia sta meglio, che l’occupazione è a livelli record, che l’economia cresce, che il flusso degli immigrati si è ridotto del 60%”. Tutto indica come il nostro presidente del consiglio abbia qualche difficoltà, ahimè, nel mettere in sistema i numeri.
Che l’immigrazione irregolare diminuisca ci fa contenti, ma che l’immigrazione regolare non riesca neanche con i click days a soddisfare le esigenze più elementari dei flussi dei relativi decreti, e di come questi invece servirebbero all’economia, è altro discorso.
Che poi l’economia cresca lo sa soltanto lei, dal momento che pur con un’occupazione che sale, ma che cresce in posti di lavoro dal basso valore aggiunto, stante invece una crescita del Pil stagnante di fatto e con una manifattura in calo ormai da quasi due anni, fatti salvi pochi settori, quali la farmaceutica, e con l’esport in lieve calo. Quindi, un quadro che non mi pare così roseo da fare i giri festosi di campo.
Se poi il risicato e ripreso avanzo primario viene utilizzato per abbassare il deficit e non in investimenti, non si va lontani.
Certo, la partecipazione o no alla Convention repubblicana da parte delle destre europee doveva essere concordata dopo l’intervento e quella sceneggiata di Bannon.
Se questo doveva essere un primo segno di unità dei nazionalismi europei, mi pare che sia fallito. E credo che così come per l’internazionalismo socialista o comunista di un tempo andato, la medesima cosa si stia profilando per l’altra sponda. E si sa, gli estremi prima o poi si toccano, anche nelle idee e nei modi.
IL PROBLEMA UCRAINO E’ DIVISIVO. IL TEMA DELLE TERRE RARE
Di sicuro, il problema Ucraina è divisivo. Del resto, quale guerra non divide e, peggio, non genera tifosi? In Europa è stato dirompente.
Trump lo ha terremotato, terre rare o minerali critici a parte. Sempre che sia vera questa ricca consistenza degli uni e delle altre. Per ora sappiamo come è finita all’interno dello Studio Ovale.

Tuttavia, come ci dice Javier Blas di Bloomberg, quello che si trova in Ucraina è “terra bruciata, ciò che non ha sono proprio le terre rare”.
È sorprendente che persino Trump sia caduto nel bluff di Zelensky, che non può non conoscere la realtà. Ma potrebbe essere che i dati si riferissero ai rilevamenti fatti ai tempi dell’impero sovietico.
Washington, nel 2010, saltellava di gioia dopo aver creduto di aver scoperto in Afghanistan un trilione di dollari di depositi minerari inutilizzati tra cui grandi quantità di litio, cruciale per le batterie delle auto elettriche.
Il Pentagono arrivò a descrivere l’Afghanistan come “l’Arabia Saudita del litio”. Non era così, ma pura fantasia.
Magari se ne sono andati per questo. Che agli americani le terre rare facciano gola deriva dal fatto che la Cina ne domina l’offerta globale.
L’entusiasmo per le terre rare ucraine è iniziato con gli stessi ucraini. Disperati nel tentativo di trovare un modo per coinvolgere Trump, hanno fatto male i compiti per casa, presentandogli a novembre un “piano di vittoria” che esaltava fuori misura questa ricchezza.
Spingendolo a rilanciare su quella cifra esagerata di 500 miliardi di dollari. A meno che, nella confusione e nell’ignoranza generalizzata si parlasse di terre rare ma si intendessero altri metalli importanti, “critici”.
Kiev non ha miniere commerciali di terre rare.
Prima della guerra con la Russia, invece, l’Ucraina produceva notevoli quantità di minerale di ferro e carbone.
Nessuno dei due è strategico, ma il Paese aveva guadagnato molto denaro da entrambi.
Tuttavia, il problema è che alcune miniere si trovano ora in territorio occupato dalla Russia.
Come propriamente critici, invece, l’Ucraina ha alcune miniere commerciali di titanio e gallio. Entrambi sono abbastanza preziosi e di importanza strategica, ma d’altronde, il controllo di uno dei due non altererebbe le filiere del settore. E di certo non valgono i 500 miliardi di dollari dichiarati da Trump.
Ammesso che Trump sappia delle terre rare ucraine qualcosa che tutto il resto del mondo disconosce. Ne dubito.
Da qualche fonte viene citato il sito di Novopoltavske, scoperto dai sovietici nel 1970, come un potenziale giacimento.
Qui, peraltro, sebbene vi siano presenti piccole quantità di terre rare, estrarle sembra impossibile. Per lo stesso Governo ucraino l’estrazione da quel sito sarebbe “fuori bilancio”, non economico ai prezzi attuali.
La cosa ridicola è quanto riporta un opuscolo NATO, edito nel dicembre 2024 dal NATO Energy Security Centre of Excellence, con sede in Lituania. In esso viene riportato che l’Ucraina è ricca di terre rare come titanio, litio, berillio, manganese, gallio, uranio.

Peccato però che chiunque abbia una conoscenza pur superficiale della chimica sa che nessuno di quei minerali è una terra rara.
Se questa è la fonte che i consiglieri di Trump hanno usato per convincerlo delle ricchezze di terre rare in Ucraina, sarebbe deprimente.
Kiev ha venduto il fatto che il suo sottosuolo conserva ben 15 mila miliardi di dollari in terre rare.
Averle è una cosa, altro conto è estrarle, lavorarle e trasportarle. Il valore mondiale di tutta la produzione annua di terre rare si aggira sui 15 miliardi di dollari, equivalenti a 2 giorni di produzione mondiale di petrolio.
Tanto per dare un riferimento. Pertanto, se Kiev avesse solo il 20% della produzione mondiale di terre rare, si tratterebbe di solo 3 miliardi di dollari.
In conclusione, se Trump vuole davvero trattare per 500 miliardi di dollari, credo che servirebbero poco meno di un paio di secoli circa a Washington per assicurarseli. Una politica globale basata sul copia e incolla. Altro che Intelligenza Artificiale.
Eppure, non sappiamo cosa The Donald stia trattando con Putin sulla medesima materia.
PUTIN E LA POLEMICA CON L’ITALIA. IL RUOLO DELL’URSS E DELLA RUSSIA DI OGGI
Ora, come si è visto e letto nei giorni scorsi, mettersi a discutere su cosa abbia detto Mattarella su Putin e sulla Russia, su cosa abbia risposto la portavoce russa, e riempirne pagine di giornali, io lo trovo inutile e anche molto stucchevole. Su Putin, cosa sconveniente nelle relazioni internazionali, ne hanno dette di tutti i colori a partire da Biden e sin dal primo giorno dall’attacco russo.

Il che fa pensare molto sul grado di maturità di questa classe politica. Infantilismo.
Una decrescita infelice. Con tutto il grande rispetto che io possa avere per il mio Presidente, le sue parole in ambito internazionale, così come quelle di qualsiasi nostro presidente del Consiglio, a partire da Meloni, contano poco.
Belle parole, meritevoli di essere ascoltate, ma tutte sul medesimo registro. Anche quelle degli altri leader europei lo sono.
Persino per Macron che, ripeto, riconosco come il più spigliato in politica estera ed è il leader con quel pizzico di pelo in più sullo stomaco che gli serve per discostarsi di tanto in tanto proprio da quel registro di cui parlavo prima, cioè quello che impone “il cuore”.
L’ultimo francese con queste caratteristiche credo sia stato De Gaulle.

I nostri leader europei presi singolarmente sono bravi, chi più chi meno in politica interna, Macron come Draghi, ma molto meno in quella estera.
In quell’ambito, ragionano ben poco. Non a livello della Merkel.

Se avessimo avuto ancora la Merkel, la questione ucraina, ho ragione di credere, non sarebbe scoppiata così come avvenuto nel febbraio 2022 e avremmo ancora il gas russo.
Anche se la Crimea a Putin non l’avrebbe tolta nessuno. In barba a Biden e ai suoi tirapiedi della consorteria liberal e associati neocons. E credo che avrebbe ringhiato anche a Draghi dinanzi alla sua prepotente intemerata anti Putin post attacco russo.
E della mancanza del gas russo e del suo basso prezzo paghiamo le conseguenze ancora oggi.
Ma L’Europa di quei giorni, in realtà, non poteva fare molto per opporsi allo strapotere americano diretto da una strategia ben chiara e che ho descritto nel libro di cui sono coautore [1].
La rabbia e la frustrazione degli europei scaturiscono proprio in buona parte dal nuovo mazzo di carte che Trump sembra stia tirando fuori nella nuova partita sull’Ucraina. E non solo. Perché la guerra in Ucraina è stata provocata da Washington con la succube complicità europea, in primo luogo della Gran Bretagna.
Questo deve essere ben chiaro. Vediamo di chiarire il quadro di questa guerra.
Premetto, piccola nota in tema di strategia della deterrenza, mai provocare una potenza nucleare. Inoltre, sempre impedire, e con qualsiasi mezzo, a chiunque altro di poterlo diventare.
Diciamo che Putin non ha attaccato l’Ucraina nel modo in cui ci è sempre stato raccontato da tutti sin dal primo giorno. Quella di Mosca in realtà è una reazione. Esagerata forse, ma una reazione.
E non è mai stato un attacco volto a invadere e farsi in un solo boccone tutto il paese. Io non ho mai creduto a questa panzana.
Che sperasse in un crollo del regime non ne ho dubbio alcuno. Ma è altro discorso. Per chi è stato un ufficiale, e ha studiato come si conducono le manovre e ha prestato fede ai numeri con cui veniva detto dalle stesse fonti di intelligence anglosassoni quanti fossero i russi ammassati ai confini pronti ad invadere, sa che con quei numeri nessun comandante militare si sarebbe mai sognato di invadere e poi di tenere sotto controllo, neanche per una sola settimana, un paese di 600 mila chilometri quadrati e di più di 40 milioni di anime.
L’unificazione tedesca sarebbe stata accettata da Gorbačëv se gli Stati Uniti avessero promesso, dall’altra parte c’era James Baker, l’allora segretario di Stato, che la NATO non avrebbe mosso un solo passo per estendersi verso est nel territorio di una pur morente Unione Sovietica.

Era il febbraio 1990. Molti dalla parte statunitense avrebbero negato che questa garanzia fosse mai stata data oppure che la stessa si fosse riferita solo alla Germania Orientale e non a tutti i Paesi del Patto di Varsavia.
Ipotesi che ritengo ridicola, visto che quella Germania sarebbe stata unificata, ma così viene riportato dal Professor Orlando Figes nel suo libro sulla Storia russa.
Sempre Figes riporta che gli stessi statunitensi ritenevano che i Paesi di recente “indipendenza” dall’URSS necessitassero la protezione della NATO dalla minaccia di un’aggressione russa, anche se una promessa di qualche tipo era stata fatta da altri leader occidentali, come per esempio da Douglas Hurd, sempre nel 1991, l’allora ministro degli Esteri britannico, che aveva assicurato Mosca che “nella NATO non c’erano piani d’includere, in una forma o nell’altra, i paesi dell’Europa orientale e centrale nell’Alleanza”.
Ma l’Unione Sovietica era morente, nonostante gli sforzi di Gorbačëv.
Aveva intrapreso delle decise riforme per salvare lo Stato a Partito unico. Ma ora lo stava di fatto smantellando e i movimenti nazionalisti di quell’impero in disfacimento andavano scatenandosi.
I baltici per primi chiesero l’indipendenza, seguiti dai georgiani, dagli armeni, e da buona parte della popolazione ucraina occidentale e della Moldavia.
Eltsin si fece eleggere Presidente della Russia nel giugno del 1991 e questo divenne un simbolo dell’indipendenza russa dall’Unione Sovietica.
Il successivo tentativo di Gorbačëv di formare un’Unione delle Repubbliche Sovrane Sovietiche (l’accordo 9+1) naufragò definitivamente a seguito del tentativo di colpo di Stato, a sua volta naufragato a fine agosto del 1991.
L’Unione Sovietica cessò di esistere al 31 dicembre del 1991 anche se al suo posto vide la luce una traballante Comunità degli Stati Indipendenti (Cis).
L’uscita di Gorbačëv, l’anno della campagna elettorale negli Stati Uniti, il 1992, con una forte aspettativa democratica, e l’ideologia della “liberal hegemony” in avanzato stato di preparazione, e un vecchio avversario ormai fortemente indebolito, l’Unione Sovietica, avrebbero garantito un quadro favorevole per non impedire la diffusione della democrazia, visto che il comunismo era stato sconfitto dalla storia e la storia “era finita”.
E, del resto, il “clash of civilizations” sarebbe stato contro quella più pericolosa, il confucianesimo, non certo contro quella islamica.
La Cina, cuore del confucianesimo, la si sarebbe ammansita facendola entrare nel World Trade Organization, costringendola alle regole internazionali del commercio.
E anche questa è una storia andata diversamente.
Per cui, la promessa di Baker, quindi di Bush padre, a Gorbačëv, poteva tornare nel cassetto, dimenticata da tutti.
Magari prevedeva il coinvolgimento anche della Russia prima o poi, un proposito “ecumenico” tutto sommato. Ma si sa, con il tempo, gli obiettivi possono pur rimanere inalterati, ma mutano le modalità e l’ampiezza e gli strumenti di esecuzione sulla base delle diverse condizioni del momento.
Clinton vinse le elezioni. Pertanto, violò di fatto questo accordo e già nel 1994 avviò il suo piano, battezzato dai neocons ormai al potere, per l’allargamento dell’Alleanza sino al confine ucraino.
Cosa che già emergeva nei momenti in cui maturava e veniva finalizzato il Memorandum di Budapest del dicembre 1994 tra Clinton, Yeltsin e Kravchuk.
Nel 2018, riporta il Professor Jeffrey D. Sachs della Columbia University, il National Security Archive Project della George Washington University ha pubblicato 25 documenti relativi agli anni di Yeltsin, datati tra il 1991 e il 1997.
Il rapporto della GWU dice che “I documenti declassificati provenienti dagli archivi statunitensi e russi dimostrano che i funzionari statunitensi hanno indotto il Presidente russo Boris Eltsin a credere, nel 1993, che il Partenariato per la Pace fosse l’alternativa all’espansione della NATO, piuttosto che un suo precursore, pianificando al contempo l’espansione dopo la rielezione di Eltsin nel 1996 e dicendo ripetutamente ai russi che il futuro sistema di sicurezza europeo avrebbe incluso, non escluso, la Russia”.In un altro documento riporta una conversazione chiave del 22 ottobre 1993 con cui il Segretario di Stato Warren Christopher assicura Eltsin che il Partenariato per la Pace riguardava l’inclusione della Russia insieme a tutti i paesi europei e non la creazione di una nuova lista con solo alcuni paesi europei per la NATO.
Nel suo libro di memorie Christopher affermò in seguito che Eltsin aveva frainteso – forse a causa dell’ubriachezza – il vero messaggio, ovvero che il Partenariato per la Pace avrebbe in realtà «portato a una graduale espansione della NATO. Insomma, grande confusione, probabilmente creata ad hoc approfittando dello stato di salute di Yeltsin.
Una confusione di cui Clinton probabilmente volle approfittare. Partnership for peace come open door, due concetti in ambito NATO, di fatto inventati da Washington che possono essere categorizzati facilmente come bullshit.
Comunque, al riguardo del Memorandum di Budapest, si è tanto parlato tanto di questa capacità deterrente ucraina e che se Kiev l’avesse mantenuta Mosca non avrebbe mai attaccato.
Intanto, al di là dal valore giuridico del documento, e sul significato di “assurances” o “guarantees” (il primo più generico mentre il secondo più specifico) e l’ambiguità generatasi nelle varie lingue utilizzate nei testi, su cui non mi dilungo, dal quel dicembre 1994 molti fatti sono accaduti che potrebbero essere presi da una parte o dall’altra quale ragione bastevole a ritenerlo superato.
E poi, cosa non secondaria, molti critici dello stesso Memorandum descrivono in modo impreciso le testate sovietiche come il “deterrente nucleare” dell’Ucraina contro la Russia, quando i documenti mostrano che quelle armi erano orientate contro gli Stati Uniti e per di più erano in uno stato pessimo di manutenzione.
Nel settembre 1994, inoltre, uno stesso esperto russo consigliò a Yeltsin di non offrire alcun incentivo agli ucraini perché le testate stavano già marcendo.
Pertanto, in conclusione, quelle armi e quelle capacità non sarebbero state disponibili. Per di più furono gli Stati Uniti, con Clinton, a spingere l’Ucraina a entrare nel Treaty on the Nonproliferation of Nuclear Weapons (NPT).
Così, proprio nel 1999, a pochi mesi dall’uscita di scena di Eltsin, Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria facevano il loro ingresso nella NATO.
Ricordo, in quell’anno, la manifestazione di forza della NATO con il suo intervento unilaterale, cioè senza l’avallo delle Nazioni Unite, al fianco degli albanesi del Kosovo nella loro lotta per l’indipendenza dalla Serbia, il più stretto alleato della Russia nei Balcani.
Un segnale ben chiaro nei confronti di Mosca e del suo ruolo di protettrice degli slavi e dei serbi nella circostanza.
Un vecchio mito del ruolo panslavo che era un fattore reale e che condizionò gli atteggiamenti e le politiche di Mosca.
L’intervento della NATO, inoltre, stabilì un pericoloso precedente che sarebbe stato utilizzato da Putin per motivare le sue guerre in Georgia, in Crimea e quindi in Ucraina.
Quale sia la verità su questa promessa mancata sull’allargamento o meno, l’espansione a est avvelenò i rapporti.
George Kennan, colui che nel 1946 aveva inviato quel “lungo telegramma” sulla base del quale venne formulata la strategia americana del contenimento dell’Unione Sovietica nella Guerra Fredda, ammonì che sarebbe stato un tragico errore violare i territori dell’ex Patto di Varsavia.
L’armonia di Pratica di Mare era passata da qualche anno.
Infatti, nel febbraio 2007, a Monaco, Putin lamentò l’allargamento avvenuto come una grave provocazione contro la Russia.
E chiarì che non si sarebbe più attenuto alle regole internazionali nel promuovere i propri interessi.
A lui sembrava che la NATO avesse creato esattamente il problema che doveva servire a sventare, come se, per giustificare la propria esistenza, avesse bisogno di una Russia aggressiva.
Seguirono atti e parole che Putin considerò altre gravi provocazioni: dal monumento da rimuovere a Tallinn in Estonia all’annuncio “fuori misura” durante conferenza NATO di Bucarest del 2008 secondo cui, nelle parole di Bush figlio, Georgia e Ucraina sarebbero entrate nella NATO.
Premetto, già nel suo libro “The Grand Chessboard: American Primacy And Its Geostrategic Imperatives”, del 1998, Brzezinski aveva spiegato l’importanza strategica dell’Ucraina nella competizione tra Stati Uniti e Russia per il potere, scrivendo che l’Ucraina è un “perno geografico” dell’Eurasia.
Cioè, se la Russia dovesse perdere la sua influenza sull’Ucraina, scriveva, cesserebbe di essere una grande potenza.
In sostanza, ne ho fatto cenno prima, per una sorta di eterogenesi dei fini, Bush figlio stava sì seguendo gli intendimenti del predecessore alla Casa Bianca, ma di fatto, secondo la traccia aggressiva delineata da Lord Palmerston e dall’imperatore Napoleone III nella loro guerra contro la Russia nel 1853-1856.

L’obiettivo della guerra di Crimea era quello, infatti, di porre fine alla potenza navale e all’influenza geopolitica russa, mettendo all’angolo la Russia nel Mar Nero. Ci ritorno tra un po’.
E per quel Summit di Bucarest, infatti, Bush aveva insistito affinché i membri della NATO, pur con molti europei riluttanti, accettassero l’allargamento della NATO all’Ucraina.
La Dichiarazione di quella riunione riporta che “La NATO accoglie con favore le aspirazioni euro-atlantiche dell’Ucraina e della Georgia a diventare membri della NATO … Accogliamo con favore le riforme democratiche in Ucraina e Georgia e attendiamo con ansia le elezioni parlamentari libere ed eque che si terranno in Georgia a maggio. Il MAP (Membership Action Plan) è il passo successivo per l’Ucraina e la Georgia nel loro cammino verso l’adesione … I ministri degli Esteri hanno l’autorità di decidere sulle domande di MAP dell’Ucraina e della Georgia”.
Senza contare che l’articolo 10 dell’Alleanza dice tutt’altro, cioè che “Le parti possono, con accordo unanime, invitare ad aderire a questo Trattato ogni altro Stato europeo in grado di favorire lo sviluppo dei principi del presente Trattato e di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale …”.
Quindi l’adesione avviene su invito.
E questo sarebbe dovuto valere anche per Finlandia e per Svezia, le ultime entrate nell’Alleanza.
Ma a tutto il mondo è stato fatto credere che fosse il loro diritto accedere perché lo avevano chiesto così come sarebbe per l’Ucraina, perché i popoli hanno il diritto di fare queste scelte. Non è così evidentemente per la NATO. Per di più, già ai tempi dell’insediamento di Yanukovych, lo vedremo, la generale volontà della gente era di rimanere neutrale.
Ma si sa che Washington fa come le fa comodo.
Scontri scoppiarono nell’agosto di quello stesso anno ad opera dei separatisti russi in Abcasia e in Ossezia del Sud e ci fu l’intervento delle forze di Mosca in quelle regioni.
Alla stessa stregua, ebbe a precisare l’allora Presidente Medvedev, dell’intervento NATO, senza l’avallo dell’ONU, in Kosovo.

Ecco il pericoloso precedente menzionato in precedenza.
E tuttavia, una sorta di collaborazione Mosca l’aveva pur concessa, nel frattempo per la vicenda afgana e con il supporto concesso alle operazioni americane e NATO in quel paese, nel quadro del Global War on Terrorism (GWOT).
Prima ancora delle sue parole a Monaco nel 2007, Putin aveva assistito a un’altra provocazione statunitense, cioè il ritiro unilaterale di Washington nel 2002 dal trattato ABM (Anti-Ballistic Missile).
Un passaggio decisivo che contribuì a minare ancora di più il clima di fiducia tra le due parti e a far crescere i sospetti.
Per il semplice fatto che lo schieramento dei sistemi AEGIS nell’Europa dell’est non poteva non essere comunque considerato da Mosca come una minaccia diretta. Come era possibile, infatti, secondo i russi, essere certi che nei silos di lancio, a pochi minuti di volo da Mosca, non ci fossero dei Tomahawk con testata nucleare al di là delle semplici assicurazioni di Washington e della NATO?
E poi ancora un altro segnale di pericolo arrivò al Cremlino nel 2003 con l’invasione in Iraq, sulla base del nulla, come poi venne a galla.
Infine, ed è nulla di segreto, il coinvolgimento americano nella Orange Revolution ucraina a cavallo tra il 2004 e il 2005.
Una pagina anticipatoria di quello che sarebbe accaduto una decina di anni dopo.
L’UCRAINA E LE SUE VICENDE POLITICHE DAL 2004
Durante le presidenziali del 2004, i due candidati principali, Yushchenko e Yanukovich ottennero entrambi circa i due quinti dei voti.

Era il primo turno del 31 ottobre. Ricordo che il mese precedente, Yushchenko, quello progressista, venne ricoverato per problemi di salute e venne trovato avvelenato da diossina, si disse da agenti del Servizio segreto ucraino, che ne lasciò il viso sfigurato.
La tornata finale, vinta da Yanukovich, fu dichiarata nulla dalla Corte suprema dopo qualche settimana di proteste da parte dei sostenitori dell’oppositore, vestiti appunto in “arancione”, e nonostante che la controparte avesse minacciato la secessione della parte orientale dell’Ucraina ove l’elezione fosse stata annullata.
Il 26 dicembre risultò vincitore Yushchenko che il 23 dicembre 2005 finalmente si insediò. Quindi, una prima prova di cambio di regime a Kiev, favorevole all’Occidente ebbe luogo a fine 2004. E la cosa non poteva non aver allarmato il Cremlino.
E non ci sono dubbi della persistente e sempre più determinata fissazione di Putin, che se vogliamo trova radici storiche zariste, nell’interpretare la Russia quale il baluardo difensivo degli ortodossi all’estero.
E non c’è alcun dubbio dell’inclinazione nel sostenere i leader filorussi e le comunità russofile e russofone ovunque fossero. E questo accadeva anche in Ucraina dove c’era uno spartiacque storico tra le regioni occidentali, che avevano fatto parte della Confederazione polacco-lituana e, poi, dell’Impero austro-ungarico, dove si parlava diffusamente l’ucraino , e le regioni orientali, dove la lingua diffusa era il russo.
In questo quadro, nessun Governo a Kiev poteva realisticamente portare il paese troppo vicino all’Europa o alla Russia senza accendere una miccia.
Tuttavia, nel 2010, Yanukovych venne finalmente eletto presidente e orientato in una politica estera improntata sulla neutralità, una politica condivisa dal Parlamento ucraino, ma perseguita unitamente a quella che prevedeva un accordo di associazione con l’UE.
Un tracciato questo che rallentava fino a tutto il 2013 a causa delle continue difficoltà nei negoziati con il Fondo Monetario Internazionale, delle preoccupazioni della Russia che quell’accordo con l’Unione Europea avrebbe danneggiato gravemente gli scambi commerciali con la Russia, e l’allettante disponibilità della Russia a fornire crediti su larga scala all’Ucraina per soddisfare le urgenti necessità finanziarie del paese.
Putin, infatti, non era rimasto a guardare. La sua idea di includere l’Ucraina nella sua Unione Economica Euroasiatica, con Bielorussia e Kazakistan, oltre ad altri Paesi dell’ex Unione Sovietica, aveva subito una forte accelerazione già dal 2012, quando era rientrato con il suo terzo mandato presidenziale.
Un blocco per contrastare l’Occidente.
IL RUOLO DELL’UNIONE EUROPEA NELLA QUESTIONE UCRAINA
L’Unione Europea, la cui triade fenomenale di personaggi a mio giudizio non di gran spessore, Van Rompuy, Juncker e Ashton, avrebbe potuto e dovuto affrontare queste pericolose pieghe, cercando di smussare gli spigoli che potessero produrre dannose alterazioni negli scambi commerciali e negoziando sia con la Russia che con l’Ucraina sulle impellenti necessità finanziarie del paese.
Invece, l’UE respinse in modo arrogante e anche incauto qualsiasi tentativo di coinvolgere la Russia nelle discussioni, insistendo sul fatto che l’Ucraina stava mettendo a rischio il proprio futuro non firmando in quel momento con l’Unione Europea.
Evidentemente, come accennato, la pressione di Mosca si fece sentire di più in risposta alla sordità europea.
Il tergiversare nella firma dell’accordo di associazione deciso da Yanukovych, gli accordi per allungare la disponibilità di Sebastopoli per la flotta di Mosca fino al 2042 e lo sconto significativo sul prezzo del gas russo sembrarono all’opposizione pro-occidentale un pericoloso slittamento decisivo verso Mosca a scapito dell’Occidente. Era evidente troppo per Washington.
Non possono esserci dubbi che le conseguenti proteste a Kiev siano state supportate dal governo americano, anche finanziariamente. Ma, attenzione, questo non deve stupire. E non stupisca se a incitare i manifestanti stessi si dovesse scoprire la presenza di qualche politico dello stesso Congresso statunitense.
Insomma, il 22 febbraio 2014, gli Stati Uniti hanno attivamente partecipato al colpo di stato che ha rovesciato il Presidente Yanukovych per il fatto che aveva deciso di non aderire più a quel patto con l’Unione Europea e deciso la completa neutralità futura ucraina verso la NATO. Un tipico esempio di regime change.
I russi intercettarono una telefonata tra l’allora assistente del segretario di Stato americano per gli Affari europei, Victoria Nuland, quella del fuck the EU, e l’allora ambasciatore americano a Kiev Geoffrey Pyatt.
Chiaro deve essere che le azioni della Nuland erano strettamente coordinate con il vice Presidente Joe Biden e con il consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan.
Nella telefonata, parlavano proprio di un cambio di regime e di chi avrebbe dovuto essere il prossimo governo se non Klitschko perché non Jacenjuk e così via con la porta aperta con la NATO. Dopo che già nel 2004, non lo si dimentichi, Estonia, Lituania, Lettonia, Bulgaria, Romania, Slovenia, Slovacchia.
Fu un colpo di stato. Nessun dubbio su questo. E non è che i colpi di stato li fanno solo coloro che a noi non risultano simpatici.
La storia completa degli eventi dell’ultimo giorno di Yanukovych è ancora incerta.
Certo, esiste la narrazione sostenuta dal governo statunitense, secondo cui le violenze sarebbero state commesse dai servizi di sicurezza di Yanukovych, ma esiste anche l’analisi delle prove processuali studiate dal professor Ivan Katchanovski, dell’Università di Ottawa, autore anche di un libro sull’evento [2], che indicano che la violenza è stata guidata da gruppi nazionalisti ucraini che hanno sparato su polizia e manifestanti.
Un’operazione false flag, come si dice, pianificata e condotta razionalmente con l’obiettivo di rovesciare il governo e prendere il potere.
Gli americani hanno di fatto “rovesciato” un proprio Presidente, Kennedy, e altre volte nella loro storia, non vedo quali problemi di ordine pratico o morale avrebbero mai potuto avere nel farlo direttamente o no a Kiev.
Fatto sta che Yanukovych e i leader dell’opposizione raggiunsero un accordo il 21 febbraio 2014, con la mediazione di Mosca e Bruxelles.
In base a questo accordo, l’Ucraina avrebbe tenuto nuove elezioni nazionali nel corso dell’anno. Inaccettabile, evidentemente.
Le proteste degenerarono in un’insurrezione che prese d’assalto gli edifici governativi e il giorno successivo Yanukovych fu costretto a fuggire per salvarsi. Senza battere ciglio, Stati Uniti e Unione Europea riconobbero il nuovo governo insediatosi.
Ecco un gran pezzo di storia che la narrazione corrente per questi anni ha mistificato.
L’OCCUPAZIONE DELLA CRIMEA NELLA STORIA
Il resto lo ricordiamo meglio, è l’occupazione della Crimea e l’inizio dei disordini nelle regioni del Donbass.
Ora, un particolare che voglio raccontare della mia vicenda professionale. In quel momento storico, da Generale di Divisione, ero in servizio in Olanda quale Deputy Chief of Support del Joint Force Command Brunssum, un Comando NATO. Seguivamo gli avvenimenti, naturalmente. In conseguenza del fatto che la narrazione che aveva preso piede, grazie all’intelligence originata dalla Polonia, ed esasperata sui canali anglosassoni, faceva crescere un’inspiegabile – almeno per me – preoccupazione per i Baltici, man mano che le notizie che arrivavano dalle regioni del Donbass si complicavano. Si doveva mostrare bandiera NATO nei Baltici.
In quel Comando si soffiava sul fuoco.
E comprensibilmente, per un certo verso, da parte di un Comandante tedesco, pur molto intelligente, ma che si vedeva frustrato dalla sua evidente inutilità operativa lungo una catena di comando NATO che, pur vedendolo sovraordinato al generale americano leader della coalizione in Afghanistan, di lui si disinteressava completamente, prediligendo la sua linea nazionale. Ma anche da un mio parigrado francese, responsabile dei piani, di origine ucraina. Francese e ucraino di sangue. Spigliato di lingua.
Avevo fatto capire al mio superiore, che “the Maidan Protest” aveva portato a un vero e proprio colpo di stato e che secondo me il tutto era stato ben orchestrato.
Pertanto, il sottoscritto, in qualità di Italian Senior responsabile dei miei connazionali, non avrei mai consentito a che alcuni di loro si prestassero a fare dei semplici e inutili “portatori di bandiera” in qualsiasi attività internazionale di facciata nei Baltici, a sprecare tempo e denaro della mia Nazione.
E che per questa ragione non avrei neanche perso tempo a chiedere il consenso da Roma.
Che se ne occupasse lui. Non lo fece.
Può essere che la sua assenza dopo pochi mesi al mio cocktail di saluto fosse stata per questo motivo, ma le mie “note caratteristiche” furono outstanding. La realtà di quel comando era tutta nel risvolto di supporto alla missione NATO in Afghanistan, il mio settore, dove gli americani potevano risparmiare qualcosa, mica per altro.
Ma prima di me c’era un tedesco, intendiamoci. Ed era il reale settore vivo di quel Comando. Gli altri, dai piani alle operazioni fino all’intelligence, diciamo che erano “virtuali”. Perché in Afghanistan, quell’operazione, di fatto, tutto era meno che NATO.
Ora, avvenuto questo cambio di regime a Kiev, avremmo potuto serenamente credere, ove ci fossimo trovati nei panni di Mosca, che il Mar Nero e Sebastopoli non fossero a rischio? Io non mi sarei sentito, nei panni di un generale russo, di escluderlo. Da qui la questione della Crimea e del Donbass.

E la storia della Guerra di Crimea e la memoria dell’umiliazione di Nicola I avrebbe dovuto suggerirci qualcosa. Sempre che la storia serva a qualcosa.
È nota, credo, la storica radicata “insofferenza” francese e britannica nei confronti di Mosca, pur registrando la determinata volontà di Pietro il Grande di imporre un registro decisamente europeo nel vestire e segnatamente nel francese per l’uso del linguaggio. Quest’ultimo anche per compensare la grave mancanza di termini russi per il tipo di pensieri e sentimenti che erano oggetto, per esempio, nella conversazione da salotto, tanto dileggiato poi nelle parti iniziali di “Guerra e Pace” di Tolstoj.
E tuttavia, la disputa di vecchia data sulla Terrasanta tra Russia e Francia portò alla Guerra di Crimea.
I britannici si accodarono volentieri perché temevano gli azzardi russi verso i mari caldi a violentare il dominio della corona imperiale sul Continente Indiano e verso il Pacifico. Tant’è che dopo la sconfitta russa, lo stesso Lord Palmerston, già citato in precedenza, premette sui francesi per proseguire lungo il Caucaso e verso il Baltico per liberare quei territori dai russi. Ma i francesi erano esausti e non se ne fece nulla.
Sebastopoli cadde una volta che il ridotto Malachov fu preso dagli alleati. I russi chiesero la pace. Condizioni severissime. La flotta del Mar Nero venne smantellata. Una cocente umiliazione.
Solo dopo la sconfitta francese ad opera dei prussiani nel 1870 Mosca sarebbe tornata a “navigare” in quel mare. Mai un disarmo forzato era stato imposto a una grande potenza sconfitta. Ma l’umiliazione del 1814 dei cosacchi che avevano bivaccato sulle rive della Senna era stata vendicata.
Tanto più che Nicola I si ostinava a chiamare Napoleone III, oltraggiandolo, “mon ami” anziché “mon frére”, come avrebbe richiesto il protocollo tra sovrani, solo perché quel titolo il francese lo aveva guadagnato a seguito di un plebiscito.
E tuttavia, nemmeno la Francia era stata disarmata in questo modo dopo le sconfitte napoleoniche.
Un trattamento senza precedenti, in quel momento, nel concerto europeo. Ma Francia e Gran Bretagna, appunto, non pensavano alla Russia come a una potenza europea.
Per Parigi e Londra, quindi, la Russia era come la Cina, meritevole di essere sottoposta alle medesime condizioni con le quali avevano sottoposto i cinesi dopo la prima guerra dell’Oppio. Un’umiliazione che credo abbia lasciato un segno importante e che non può non indirizzare una scelta strategica.
Non finisce qui. Nel 2019, gli Stati Uniti escono dall’Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty (INF Treaty) dopo che nel 2017 Trump aveva deciso di uscire anche dal Joint Comprehensive Plan Of Action (JCPOA), il trattato sul nucleare iraniano. Magari per questo accordo una mossa non del tutto irragionevole. Tuttavia, anche questo un segno, unitamente alla vicenda libica, dopo che Gheddafi aveva rinunciato a procedere sulla strada del nucleare egli stesso, ed era stato rovesciato e financo ucciso, non solo dell’imprevedibilità degli Stati Uniti e dei loro alleati ma anche della loro inaffidabilità.
A metà dicembre 2021, Putin inoltrò una bozza di accordo di sicurezza tra Russia e Stati Uniti (https://mid.ru/ru/foreign_policy/rso/nato/1790818/?lang=en).
Il punto fondamentale consisteva in nessun ulteriore allargamento della NATO.
Non mi risulta che la proposta sia mai andata da nessuna parte per il semplice fatto che per l’entourage americano non ci sarebbe stato alcun allargamento e quindi nessun conflitto conseguente ma che comunque, paradossalmente, la politica della “open door” non doveva essere violata.
Una politica che meriterebbe di essere categorizzata come una delle più grosse cavolate mai inventate da essere umano. Per il semplice fatto che nessuno può veramente credere di potere schierare armi e forze dove ritiene di poterlo liberamente fare senza che la controparte si senta o minacciata o semplicemente provocata.
Bisognerebbe comprendere perché mai per Washington valga ancora la dottrina Monroe del lontano 1823 e un teorema analogo per altre potenze non sia ammissibile.
Crimea occupata dai russi e aree del Donbass sotto controllo dei separatisti russi, ovviamente supportati da Mosca, questa è la sintesi degli avvenimenti dopo il colpo di stato di Kiev.
Molti hanno scritto e parlato e ancora lo fanno sugli accordi di Minsk.
Ecco, se una cosa deve essere fatta per un percorso di pace è tenere fuori gli europei, soprattutto Francia e Gran Bretagna, o Germania, dalle trattative, tanto per i trascorsi storici pur lontani nel tempo e anche per i disastri compiuti proprio in merito a quanto fatto per Minsk I e II. Otto anni di trattative durante i quali sono emerse due importanti divergenze.
In primo luogo, sul ruolo degli attori, quello di Mosca soprattutto. Mi è parso sempre strano inspiegabile il motivo per cui in nessuna delle disposizioni degli accordi si fosse assegnato esplicitamente alcun obbligo a Mosca, permettendole di presentarsi solo come mediatore alla pari di Berlino, Parigi e dell’OSCE, mentre Kiev insisteva che Mosca avesse obblighi specifici. Inoltre, una seconda importante divergenza riguardava la sequenza di attuazione degli accordi. Concepiti come un pacchetto, essi non facevano menzione dell’ordine in cui le loro disposizioni dovevano essere eseguite. Per Kiev,
la priorità era ripristinare la sicurezza prima di attuare le disposizioni politiche, in quanto non sarebbe stato possibile controllare l’organizzazione delle elezioni locali e tenerle senza la garanzia di un livello minimo di sicurezza. Al contrario, Mosca riteneva fosse importante l’attuazione politica con il decentramento amministrativo che avrebbe legittimato i suoi delegati nel Donbass e, quindi, la riforma costituzionale che concedesse alle regioni di Donetsk e Luhansk ampi poteri, anche nei settori della giustizia e della politica estera, che sono tradizionalmente prerogative del Governo centrale, trasformando il decentramento previsto dagli accordi in una federalizzazione de facto dell’Ucraina.
In sostanza, mettere assieme i diretti interessati a scrivere due righe su come occorra arrivare a una conclusione è cosa giusta ma occorre che ci sia qualcuno che intanto conosca le lingua ed elimini qualsiasi potenziale rischio di incomprensione e poi si metta in mezzo con un buon bastone nodoso. La presunzione di poterlo fare solo per autoreferenzialità non fa altro che allungare la pena. Mettersi oggi a discutere su chi abbia violato questi accordi è veramente penoso, erano accordi che non potevano essere rispettati. Questa è la sola cruda verità.
Ho accennato nelle pagine precedenti a cosa accadeva nell’autunno 2023 e alle notizie che arrivavano sull’ammassamento delle truppe russe lungo un bel tratto del confine ucraino. Ecco, quali fossero le intenzioni di Mosca in realtà non le conoscevamo veramente e neanche oggi – benché folle di esperti, militari e no, si siano scaraventati ovunque a raccontare le loro versioni, persino nel simulare manovre immaginarie con il palmo della mano su carte in scala geografica. L’ho già scritto e lo ripeto ancora, io ho sempre dubitato, considerati i numeri rilasciati dalle intelligence anglosassoni, che l’intendimento fosse l’invasione su larga scala, ma posso convenire senza indugio che Putin avesse la speranza in una caduta del regime di Zelensky.
Mi chiedo tuttavia, se l’allargamento della NATO a Finlandia e Svezia, non possa aver innescato un bomba a orologeria che potrebbe esplodere una volta chiusa la vicenda ucraina. Queste due nazioni, oltre a “soffocare” le rotte da e per San Pietroburgo, costituiscono ora una minaccia e il loro ingresso nell’Alleanza un’ulteriore provocazione. Almeno due dei tre stati baltici, proprio per questa ragione, potrebbero essere a rischio di incidenti interetnici che non si sa come possano evolvere, con la popolazione russa in entrambi gli stati intorno al 23%.
E tuttavia, nel frattempo, tra il 2014 e l’autunno del 2023, Stati Uniti e Gran Bretagna non sono stati i con le mani in mano. E credo che le forze ucraine proprio da quel 2014 abbiano ricevuto non solo aiuti ma anche addestramento e finanziamenti.
Il tutto per prepararli a un’operazione volta a riprendersi il territorio perso nelle aree occupate nel 2014 nel Donbass.
E probabilmente, è il mio convincimento, un attacco in gran stile era in procinto di essere sferrato da Kiev. Pertanto, lo schieramento in forze dei russi al confine ucraino, da una finalità deterrente ormai fallita, e una volta distratte alcune forze ucraine verso la capitale data la ben evidente minaccia profilatasi corazzata su Kiev, è passato a quello per l’attacco e l’invasione ha avuto inizio. Sebastopoli, Crimea e Mar d’Azov, quindi il Mar Nero, questi sono i nomi da tenere in mente per il quali il sottile filo che tiene ancora in equilibrio il paradigma di Clausewitz sta in piedi. Ne dirò in chiusura.
Forse aveva ragione la Merkel. In una sua intervista del dicembre 2022, riferita al Minsk II, confessava che si era trattato di dare tempo all’Ucraina di utilizzare quel tempo per diventare più forte. Ma la cancelliera io credo non ne conosceva il reale scopo strategico. Che non era difensivo per nulla.

Dopo pochi giorni, Zelensky sembrò voler mediare e la Turchia arrivò a trovare una bozza di accordo ma ancora una volta Gran Bretagna e Stati Uniti bloccarono il tutto inducendo Zelensky a continuare a combattere e che lo avrebbero sostenuto in questa guerra.
Ed ora siamo qui, dopo tre anni di questo conflitto, con la rabbia e la frustrazione che percorrono le cancellerie europee alla ricerca queste di capire come confrontarsi con un alleato poco malleabile e che di fatto ha cambiato le carte in tavola, rovesciando i termini del problema, ponendo l’Europa, e poi quale Europa, dinanzi al dilemma drammatico della difesa comune, cosa che non rientra tra le responsabilità dell’Unione Europea, per esempio, essendo la difesa di stretta competenza di ciascun stato.
Ma vale la pena riunirsi e parlarsi per confortarsi. Ecco, il conforto del gruppo, quasi una seduta di psicoanalisi per loro e per Zelensky, di fatto uscito malconcio, e non come eroe come vorrebbero far credere, dal confronto con Trump. Stava per vendergli scatole vuote.
La rabbia è comprensibile tra le pareti di casa, magari e preferibilmente solo con se stesso. Occorre sfogarsi contro un muro magari. Ma una sceneggiata internazionale come quella che io ritengo abbia operato Macron per primo, peraltro con la collaborazione inopportuna del Segretario Generale della NATO, Rutte, che comunque rappresentava nella circostanza anche altri paesi dell’Alleanza, tra cui quello leader, cioè gli Stati Uniti, è stata anche una volgare rappresentazione di debolezza. Un pericoloso manifesto di inutilità. Ripetutasi a Berlino, anche lì in mancanza del rappresentante del Paese leader dell’Alleanza.

Un grave sgarbo. La rabbia.
E SE GLI STATI UNITI LASCIASSERO LA NATO?
Ci si chiede cosa faremmo se gli Stati Uniti si affrancassero dal loro impegno di difenderci. Se lasciassero la NATO. Potrebbe accadere? Ne dubito.
Comunque, ecco, uno studio del think-tank Bruegel e del Kiel Institute dice che gli europei dovrebbero costituire un Esercito di 300 mila combattenti, 1.400 carri armati, 2 mila veicoli blindati/cingolati, 700 cannoni/lanciarazzi con una spesa “aggiuntiva” di 250 miliardi l’anno (nel 2024 la spesa UE stimata è stata sui 325 miliardi) se vogliono difendersi da un’aggressione russa.
Ma è veramente ipotizzabile una tale minaccia? Ho accennato prima al Mar Baltico, per esempio.
Ma una minaccia è sempre ipotizzabile. Una parte per costituire una minaccia deve possedere i mezzi e dimostrare la volontà di utilizzarli contro l’altro.
Poi, occorre valutare le probabilità che questa possibile minaccia prenda forma.
Cioè, quanto probabile? Di conseguenza, cosa fare per fronteggiarla o per tranquillizzarla? E avanti così con le valutazioni dei rischi. E qui casca l’asino, perché occorre avere degli strumenti di studio che analizzino queste probabilità e che la finiscano di essere ben pagati dal contribuente per fornire alle istituzioni inutili report come taluni istituti fanno qui in Italia.
Insomma, per farla breve, in Europa, ci si sta frugando in tasca per cercare di capire cosa fare da grandi e se andare tutti in massa o se creare una coalizione di volenterosi. Il tutto è ancora da chiarire mi pare.
Problema di soldi? Certo, ma non solo. Ma anche di come spenderli.
Gli americani hanno un’industria della difesa. In Europa noi abbiamo i nostri singoli campioni nazionali. Ed è ben diverso.
Tanto per cominciare. E seguendo le osservazioni recenti di Draghi, purtroppo per noi europei è che dello Stato nazionale bisogna parlarne al presente e anche al futuro, lo spirito del tempo è meno Europa e non più Europa. Anche se in questo momento dinanzi alla possibilità di una nuova sospensione del patto di stabilità a favore delle spese per la difesa i tanti babbei nostrani già si esaltano.
Questa escape close si tradurrebbe nell’acquisto di più armi e queste armi saranno soprattutto armi americane nella speranza di tenersi buono Trump, mentre i conseguenti debiti resteranno nazionali, cioè destinati comunque a pesare su di noi, rimasti indietro nell’adeguarci agli standard di spesa NATO.
Certo, Leonardo e Fincantieri gongoleranno perché faranno parte di vari Consorzi e faranno contenti i tanti azionisti e i tanti loro consiglieri, vecchi e nuovi, ma noi faremo più debito per cercare di proteggere le nostre esportazioni dai dazi di Trump, dal Parmigiano al vino.
Questo è il punto. E i mercati guardano ai debiti, non alla clausola di salvaguardia.
Se poi i vari esperti che mai hanno preso un attrezzo leggero in mano – ammesso che sappiano il significato di attrezzo leggero, o abbiano mai steso dei rotoli di carbone catramato o, infine, incastrato telai tipo A e tipo B, avendoceli – si sperticano nei loro podcast a vendere al popolo bue che ormai è tempo di mandare sui campi di battaglia solo robot e tanti robot, solo perché si presentano come infallibili luminari professori universitari, facendo così il gioco di chi si vende l’anima all’industria, derubricando l’importanza dell’addestramento del soldato, volete che io semplice soldato di fanteria riesca a convincere i pochi lettori di queste righe della malafede che da qualche anno anima questa narrazione sconsiderata della difesa comune europea?
L’ATTIVISMO FRANCESE E BRITANNICO SULL’UCRAINA
La rabbia colpisce Macron che da scattista di razza convoca un vertice ristretto che, a mio giudizio, finisce in modo inconcludente.
Perché non hanno fatto altro che parlare di mandare una forza di pace, quando non si sta partecipando noi europei ad alcun colloquio di pace e, ancora, quando di pace ancora non si parla in modo concreto. E, soprattutto, tra un minerale strategico e una terra rara, non si sa ancora come andrà a finire.
Quindi, appare chiaro che si vuole solo attestare la propria esistenza politica, cercando di organizzare in fretta e furia una forza di interposizione, i famosi boots on the ground di supposti 30 mila europei. Che qualcuno deve autorizzare. Chi? Le Nazioni Unite, ovviamente.

Ma il Consiglio di Sicurezza. Dove c’è la Francia, vero, ma dove siede anche la Russia, ma anche la Cina, ma anche gli Stati Uniti di Trump che probabilmente la vedrebbe come Mosca adesso
E non è detto che la Russia, che ha il potere di veto, non lo eserciti esprimendo il non gradimento per quell’eventuale contingente di peacekeepers offerto da quelle nazioni che dal 25 febbraio 2022 non hanno fatto economia di improperi di vario tipo al suo indirizzo o all’indirizzo dei suoi compatrioti in armi e no.
Inoltre, una forza di Peace Keeping non può prescindere da una capacità di fronteggiare una deriva di Peace Enforcing, che è guerra.
Sia chiaro. E questo significa portarsi dietro assetti di tutti i generi che non è possibile schierare al sorgere all’emergenza ma che, facendolo subito, farebbero storcere il naso e calare il clima di fiducia da almeno una delle due parti, timorosa di venire prima o poi ingannata. Perciò, la lista dei “contingenti graditi” non diverrebbe molto lunga e, conseguentemente, la lista di forze in grado di affrontare una contingenza così estrema, ma possibile e probabile, si ridurrebbe ancora di più.
Per quanto precede, scommetterei sul rifiuto da parte di Mosca su assetti francesi, britannici, tedeschi o europei in genere o turchi.
Financo italiani. Ecco, io credo che Macron e Starmer la facciano troppo facile. O sono ingenui o sprovveduti.
Il vero problema è che gli europei quando sono in sessione comune e trattano di politica estera ragionano con il cuore, quindi non ragionano. Perché non vogliono far vedere agli altri commensali che non hanno cuore.
Molti di loro, invece, nel loro particolarismo, o digrignano i denti ma non ne hanno la forza, tipo Ungheria e dintorni, o ne hanno la forza ma cercano di lavorare sottobanco, come la Francia o la Gran Bretagna prima della Brexit. Noi rimpalliamo dove ci porta il cuore, al traino o della Germania o degli Stati Uniti.
Oggi, con un mazzo di carte diverso, è arrivata rabbia e frustrazione. E con essa, si rischia di trasformare l’Unione Europea nella Palude Stigia.
Sono proprio Macron e “dall’esterno” Starmer i due che stanno per distruggere l’Unione e l’Europa, non Trump.
L’americano sta solo facendo la parte di Flegias, il traghettatore. E con la complicità di due inutili e fastidiose ciarliere, la Von der Leyen e la Metsola, a cui si aggiungerà presto anche il nuovo cancelliere tedesco e, a far da contorno, molta parte dei nordici. A chiudere il cerchio, una fastidiosa immatura ministra degli esteri canadesi che non si rende conto di cosa esce dalla sua bocca.
Macron e Starmer stanno tentando di trasportare l’Unione, ancora maledettamente acerba per poter esercitare qualsiasi profilatura in politica estera, figuriamoci in termini di difesa, nella propria traiettoria nazionale estera da vecchie potenze nostalgiche. Sostenuti dai pifferai magici dell’industria della difesa che dal 24 febbraio 2022 non smettono di sbavare copiosamente.
La tanto criticata Merkel l’aveva capito. Certo, faceva gli interessi commerciali della Germania, ma con la Germania siamo stati tutti a prosperare. A quello serviva e ancora servirebbe l’Unione Europea. È l’imperfezione di BerlinO. Ma è anche semplice realismo.
Quindi, i vari e tanti nostri esperti siano cauti a portarsi avanti con il lavoro.
Poi, come visto, Macron corre a Washington. Perché, comunque, per qualsiasi forza si volesse inviare sulla terra ucraina occorre la protezione, tanto per cominciare quella aerea, americana. Ridicoli. E non mi pare che abbia ricevuto da Trump né “assurances” né “guarantees”.
Nel frattempo, anche l’uomo di Londra, Starmer, vuole andare da Trump a fare da postino per portargli l’invito del suo Re.
Gli avrà parlato di forze da inviare che assicurino la pace e così via. E anche lui ovviamente, alla ricerca di copertura aerea e di qualcosa di altro, ma anche lui mi pare ben frenato negli entusiasmi da un Trump poco convinto. Ed persino lui si è sentito in dovere di offrire un tè consolatorio a un gruppo di amici europei e all’affranto Zelensky, il viaggiatore instancabile.
Be’, io auspico che questi due signori, lui e Macron, non stiano cercando, rancorosi, di saltare il fosso pensando tanto di fare qualcosa di più che rincuorare l’ucraino ma anche di costringere Washington a correre in aiuto.
Magari con un bel casus belli che richiami l’articolo 5.
Sarà per questo rischio che nasce l’idea lanciata da Musk sul suo “X” di ritirare gli Stati Uniti dalla NATO dopo la proposta di legge avanzata da alcuni senatori repubblicani di chiudere i conti con le Nazioni Unite? Anche queste due uscite sono robe da infantilismo politico. Essere miliardario o senatore di una grande nazione non ti salva dall’idiozia.
Ad ogni modo, è al momento poco chiaro per me perché sia stato Starmer e non Macron a prendere per così dire “il testimone” in questa riunione londinese in cui si dovrebbe parlare di difesa europea, che rappresenterebbe un obiettivo a medio o lungo termine, e con la presenza dello stesso Zelensky. E non è questione di essere o meno il padrone di casa. Credo si sia voluto portare il dossier fuori da qualsiasi contesto politico dell’Unione Europea.
Mi verrebbe da pensare, che i due a tutto stiano pensando molto meno a una vera e propria missione con soldatini di pace che non, invece, a una sorta di coalition of willing con il pugnale tra i denti. Se infatti, al suo abbraccio paterno a Zelensky, orfano di quelli di Biden evidentemente, il premier accompagna l’assicurazione “con Kiev sino alla fine”, o qualcosa di simile, questa affermazione potrebbe voler significare qualcosa di molto di più delle semplici parole? E, tanto per iniziare, potrebbe sottacere la volontà di minare qualsiasi tentativo di pace intavolato da Trump.
Come farlo? Mandando un po’ di europei a morire?
E, in un tale quadro, questa corsa a essere i primi potrebbe magari prevedere lo schierare, prima ancora che le Nazioni Unite aprano la bocca, un cospicuo contingente di forze per una supposta operazione di Peace Keeping, in barba a qualsiasi veto proveniente dal Consiglio di Sicurezza? E se così accadesse, le conseguenze non sarebbero quelle che il da un proponimento di pace ci si trovasse nel pieno di un conflitto persino più ampio?
Una situazione in cui Starmer e Macron veramente sperano, creando così un “fatto compiuto” a cui Trump non potrebbe sottrarsi, perché lo scopo è solo e soltanto la liberazione di tutti i territori ucraini, inclusa la Crimea e, quindi indietro al Trattato di Parigi del marzo 1856?

Peraltro, dalla prima lettura dei comunicati che emergono al termine di questo ulteriore pericoloso focolare di menti tenutosi a Londra, non mi pare sia emerso granché.
Ed è questo che dovrebbe far preoccupare. Certe trame viaggiano sottotraccia.
Dai comunicati, scarni, appare una sorta di macedonia. Starmer riassicura Washington che loro due sono indivisibili, che qualsiasi cosa facciano gli europei il supporto americano è indispensabile, che lui con Macron e Zelensky hanno un piano di pace che comunque sarà passato agli Stati Uniti. E siamo alla casella di partenza, il gioco dell’oca.
E, infine, la ciliegina sulla torta, la solita inespressiva Ursula che annuncia “We urgently have to rearm Europe“. Un piano per cui lei presenterà un comprehensive plan il prossimo giovedì al Summit dell’Unione Europea. Un altro “caminetto”, ma quando questi soggetti studiano sul serio gli argomenti per i quali sono chiamati a prendere decisioni delicate? E aggiunge “we have to have a surge in defense … and we have to step up massively“. Ecco, i calcoli sui costi e le mie considerazioni anche forse un po’ ruvide, ma non abbastanza, sull’industria della difesa li ho fatti qualche paragrafo fa.
Ma i comunicati dicevano poco. Il bello lascio verso la fine.
E meno male che a Berlino sono occupati a formare un Governo. E credo ne avranno per un bel po’. E poi i tedeschi che mai potranno offrire? Crauti e salsicce? Speriamo che il nostro governo se ne stia invece al suo posto e perda tempo a incontrare qualche altro arabo, sempre che ce ne sia qualcun altro da spennare.
Mentre da par loro gli americani per magnanimità convengono che gli europei saranno invitati prima o poi ai negoziati. Washington è cosciente che gli europei hanno in atto tante sanzioni sulla Russia, mentre la maggior parte delle riserve della Banca Centrale russa bloccate in Europa sono pari a 285 miliardi di dollari mentre gli Stati Uniti ne ha solo 4,5. E tuttavia, sul piano delle sanzioni, cosa accadrebbe alle sanzioni europee e al fronte europeo dei sanzionatori se gli americani giungessero ad un accordo con Putin e decidessero di rimuovere le proprie di sanzioni? Cioè, quanto durerebbero quelle europee se gli americani rimuovessero le proprie? Io sono certo che avremmo qui in Unione Europea un’esplosione di distinguo nazionali di gente che vuole rimuoverle a propria volta. Io non ho alcun dubbio.
Paura di essere messi da parte, frustrazione e rabbia.
E tanta confusione. Che la NATO abbia cambiato da decenni la sua pelle e che ormai sia uno strumento nelle mani di Washington l’ho scritto tante di quelle volte che mi è venuto a nausea.
Non può essere una novità. E non credo che lo scenario sia cambiato. Ecco perché mi viene ancora difficile pensare che gli Stati Uniti se ne possano liberare così a cuor leggero.
Certo, Trump ha dalla sua un elevato grado di imprevedibilità e, devo dire, a pelle, questa sua squadra non mi pare che sia popolata da personaggi di maggior spessore nel confronto con quelli della volta precedente.
Ma questo non significa che Washington, con il suo complesso statuale così articolato, non continui a ritenere di aver bisogno della NATO per esercitare un’egemonia ancora globale. È un suo strumento da tempo. Un arnese di cui, ne sono tuttora convinto, ha ancora un bisogno strategico fondamentale per fare ciò che vuole dove vuole.
Uscita Washington dall’Alleanza, che neanche la Meloni potrebbe fermare, la NATO perderebbe ogni sostanza e, a parte le dovute compensazioni che temo verrebbero pretese, pensare a un’analoga organizzazione con un collante apparentemente tanto forte e convincente, etichettato Europa, non mi convince.
Non ancora. La NATO e l’Unione Europea sono “società di grandi dimensioni”, ma come tali sono fragili, anche se tendiamo a dare per scontato che quelle di maggior successo funzionino bene.

E l’Unione Europea, checché ne dica un bel gruppo di svalvolati, che puntano tutto sulla sciocchezza della lunghezza delle banane o persino alcuni sciroccati sull’uscita dall’euro, ha funzionato bene e funziona bene, perché ci ha resi indiscutibilmente ricchi e ancora più ricchi con l’euro.
Ma mentre la prima, la NATO, è tenuta insieme nel suo sfogo naturale che è la Difesa e la Sicurezza, quindi con uno sguardo volto naturalmente all’estero, dagli Stati Uniti, alla seconda manca quell’attitudine. E in mancanza di un forte collante emergono con forza i particolarismi.
Ovunque nel mondo, anche nel proprio cortile di casa, dovendo basarsi su una vera politica estera, l’Unione Europea si troverebbe a fare i conti al suo interno con i singoli obiettivi ed egoismi nazionali. Ma sempre a cozzare comunque con quelli statunitensi. Uno scenario folle. In questo sta la sua fragilità, con o senza la Gran Bretagna, che sino alla Brexit è stata la quinta colonna americana in ambito Unione.
Una società complessa si tiene insieme con una rete invisibile di fiducia reciproca e cooperazione, facile a sfilacciarsi. Se persa, crea instabilità e conflittualità politica fino a, in casi estremi, il crollo dell’intera “società” a causa del “gene egoista” quello che anima l’agente razionale con il suo paradosso del “dilemma del cooperatore”, quello del noto comma 22.
Putin sarà pure un criminale sanguinario, un assassino e un attaccabrighe, quello che più ci pare, ma da questa parte della vecchia cortina di ferro, l’infantilismo politico ha preso piede. Ancora più pericolosi, avendo i nostri leader europei molto meno cultura militare dello stesso zar.
Io non credo che né Macron né Starmer siano ingenui. Tuttavia, ammesso che lo siano, non si rendono conto che le loro azioni e le loro future scelte potrebbero avere come conseguenze un allargamento di questo conflitto, seguendo un pericoloso istinto garibaldino, questo sì ottocentesco.
Infatti, Starmer, dopo il suo caminetto domenicale con tè, nel precisare che il suo piano, che è per una “una pace duratura e giusta” per l’Ucraina (e chissà perché almeno per quei pochi “bastardi filorussi” del Donbass non c’è spazio), contiene quattro punti. Tralascio i primi due, anche se mi chiedo perché al punto due l’Ucraina deve essere presente al tavolo di qualsiasi dialogo di pace e non menzioni la Russia. Quelli che mi preoccupano sono gli ultimi due.
In particolare, il terzo punto, nello stabilire che in caso di accordo di pace, l’obiettivo dei i leader europei sarà quello di scoraggiare qualsiasi futura invasione da parte della Russia in Ucraina, mi chiedo in cosa mai potrà tradursi quello “scoraggiare”. Infine, il quarto punto, nel fissare che potrebbe esserci una “coalizione dei volenterosi” incaricata di dare garanzie di sicurezza all’Ucraina futura ed eventualmente schierare un contingente militare di pace, mi porta a chiedermi se esista una successione temporale tra il “dare garanzie di sicurezza” da parte di questa coalizione di volenterosi, e in che cosa consisterebbe, e l’eventuale schieramento di un contingente di pace. E, infine, perché sarebbe eventuale, perché potrebbe non essere necessario? E non necessario per quale motivo?
Deve essere ben chiaro quale sia il reale intendimento di questi signori. Questi due vogliono inviare un contingente di forze a combattere a fianco degli ucraini. Le risposte ai miei miei futili quesiti sta nella considerazione di condurre Mosca alla resa. Gli ultimi due punti enunciati da Starmer, per me sono “espliciti”.
LA DETERRENZA NUCLEARE
Con il connesso rischio di coinvolgimento della NATO e di una deriva nucleare.
La deterrenza nucleare agiva e agisce ancora (e Dio non voglia che venga a essere annichilita proprio da questo infantilismo politico) come principio d’ordine del mondo, allora bipolare, ora multipolare. E infatti oggi quest’ordine traballa, ma ancora tiene.
Ma l’infantilismo politico sta pericolosamente mutando il paradigma di von Clausewitz.

Infatti, laddove il prussiano assumeva, nel suo secolo, che la guerra fosse la continuazione della politica con altri mezzi. E solo dopo le tragedie del XX secolo si poteva serenamente correggerlo nel dire che la politica invece accompagna la guerra e quindi la condiziona con la sua forza negoziale. Oggi questo infantilismo sta ponendo la politica al servizio dei belligeranti.
E questa maledetta guerra ne è l’esempio più eclatante.
Non c’è stato un attimo, un discorso, una frase, un solo momento in cui non si sia parlato di come condurre questa guerra alla fine con la sconfitta russa. In tre anni non c’è mai stato alcun momento serio di confronto durante il quale ascoltare le ragioni o i torti delle due parti.
Il ritorno della Storia ce l’abbiamo dinanzi agli occhi. I punti di Starmer lo confermano.
Ancora una volta, l’unica formula che si avvicina alla pace è sì pace, ma quella senza condizioni, proprio come nella Seconda Guerra Mondiale e, per la Russia, ancora più indietro nel tempo, un’altra umiliazione come quella a seguito della Guerra di Crimea.
NOTE
[1] Ucraina-Russia. Guerra, diritto e interessi nazionali (di Vincenzo Santo, Alessandro Gentili, Antonio Li Gobbi, e Antonio Venci – Edizioni Artestampa (Luglio 2022).
[2] The Maidan Massacre in Ukraine: The Mass Killing That Changed the World – Palgrave Macmillan (settembre 2024) 2024).
*Generale di Corpo d’Armata (ris) dell’Esercito
© RIPRODUZIONE RISERVATA

