DI Giuseppe Gagliano
RIYADH (ARABIA SAUDITA). La sede del Saudi Binladin Group (SBG) a Jeddah, fotografata il 9 maggio 2018, è un simbolo di potenza e declino.

Per decenni, il colosso delle costruzioni saudita è stato il braccio operativo del Regno, realizzando progetti faraonici come l’espansione delle moschee sacre di Mecca e Medina o la Jeddah Tower, destinata a essere l’edificio più alto del mondo.
Ma dietro la facciata di grandezza si nasconde una crisi profonda, che ha spinto il gruppo a una ristrutturazione segreta, lontano dai riflettori dei Tribunali di Riyadh. Una scelta che solleva interrogativi su trasparenza, legalità e influenza politica in un regno dove il confine tra Stato e grandi famiglie è spesso sfumato.
Una crisi che viene da lontano
Il Saudi Binladin Group, fondato nel 1931 da Muhammad bin Ladin, ha vissuto il suo apogeo grazie ai legami con la famiglia reale saudita.
Progetti strategici come l’aeroporto internazionale di Jeddah o il complesso Abraj Al Bait a La Mecca hanno cementato il suo ruolo di contractor privilegiato.
Ma la fortuna del Gruppo è cambiata negli ultimi anni. Il crollo dei prezzi del petrolio ha ridotto i fondi statali, principale fonte di entrate per SBG, mentre un tragico incidente a La Mecca – il collasso di una gru nella Grande Moschea, che ha causato oltre cento morti – ha portato a un temporaneo divieto di partecipare a nuove gare pubbliche.
A questo si sono aggiunti ritardi nei pagamenti da parte del Governo e una gestione interna inefficiente, che hanno fatto lievitare il debito del gruppo a livelli insostenibili.
La crisi ha raggiunto il culmine con l’ondata anticorruzione lanciata dal principe ereditario Mohammed bin Salman.

Diversi membri della famiglia Bin Laden, tra cui il presidente Bakr, sono stati arrestati con l’accusa di corruzione, un’operazione che molti analisti hanno interpretato come un mix di lotta al malaffare e mossa politica per consolidare il potere. In questo contesto, il governo saudita ha preso il controllo parziale del gruppo, con il Ministero delle Finanze che ha acquisito una quota di minoranza attraverso la sua controllata Istidama.
Ma la vera sorpresa è stata la decisione di gestire la ristrutturazione del debito di SBG – stimato in decine di miliardi di dollari – al di fuori dei tribunali, evitando le procedure di insolvenza ufficiali di Riyadh.
La mediazione opaca del Ministero delle Finanze
Invece di seguire il percorso legale previsto per le insolvenze, il Saudi Binladin Group ha optato per un processo di mediazione supervisionato direttamente dal Ministero delle Finanze.
Questo approccio ha permesso al gruppo di negoziare con i creditori – principalmente banche saudite e internazionali – senza passare per un tribunale, una mossa che ha attirato critiche da parte di avvocati e osservatori nella regione.
Secondo fonti vicine al dossier, il Ministero ha agito come mediatore, cercando di bilanciare gli interessi dei creditori con la necessità di mantenere SBG operativo, dato il suo ruolo cruciale nei progetti strategici del regno, come quelli legati alla Vision 2030.
Ma questa scelta ha un lato oscuro. La mediazione, condotta a porte chiuse, manca di trasparenza.
Non ci sono dettagli pubblici su come siano stati gestiti i negoziati, quali creditori abbiano ricevuto priorità o se siano stati fatti favori a determinate banche.
Avvocati della regione hanno espresso preoccupazione: in un sistema giudiziario già percepito come influenzabile dal potere politico, evitare i tribunali significa lasciare campo libero a decisioni arbitrarie.
“È un precedente pericoloso – ha commentato un legale saudita che ha preferito rimanere anonimo -. Se un colosso come SBG può bypassare le procedure di insolvenza, cosa impedisce ad altre aziende di fare lo stesso, soprattutto se hanno agganci politici?”
L’aspetto legale: un sistema sotto pressione
Dal punto di vista legale, la decisione di evitare le procedure di insolvenza di Riyadh è un’anomalia.
L’Arabia Saudita ha introdotto una nuova legge fallimentare nel 2018, pensata per modernizzare il sistema e offrire un quadro chiaro per la ristrutturazione delle aziende in difficoltà.
Questa legge prevede che le imprese insolventi presentino un piano di ristrutturazione sotto la supervisione di un Tribunale, con un trustee indipendente che gestisca il processo e garantisca equità tra i creditori.
Nel caso di SBG, però, il Ministero delle Finanze ha preso in mano le redini, scavalcando il sistema giudiziario.
Questo ha alimentato sospetti di favoritismi: il governo, che è al tempo stesso azionista di minoranza e creditore indiretto attraverso le banche statali, potrebbe aver influenzato l’esito della mediazione per proteggere i propri interessi.
Un altro elemento critico è la mancanza di informazioni pubbliche. In un processo di insolvenza formale, i dettagli sui debiti, i creditori e i piani di ristrutturazione sarebbero stati resi noti, garantendo un minimo di accountability. Qui, invece, tutto è rimasto avvolto nel mistero.
Non si sa quali banche abbiano accettato di ridurre i loro crediti, né quali condizioni siano state imposte a SBG per continuare a operare.
Questo opacità non fa che rafforzare la percezione che in Arabia Saudita il potere politico prevalga sulla legge, un problema che il Regno fatica a scrollarsi di dosso nonostante le riforme promesse da Mohammed bin Salman.
L’impatto politico: un gioco di potere
Sul piano politico, la gestione della crisi di SBG riflette le dinamiche di potere all’interno del Regno.
La famiglia Bin Laden, un tempo intoccabile grazie ai suoi legami con la monarchia, è stata progressivamente emarginata.
La ristrutturazione ha visto una drastica riduzione dell’influenza della famiglia sul Gruppo: solo due fratelli Bin Laden siedono nel nuovo Consiglio di amministrazione, mentre il controllo operativo è passato a figure esterne, come il nuovo presidente Khalid Nahas, nominato con il benestare del Governo.
Il Ministero delle Finanze, attraverso Istidama, ha consolidato la sua presa, e non è escluso che in futuro la quota statale possa aumentare, trasformando SBG in un’entità semi-pubblica.
Questa mossa si inserisce nella strategia più ampia di Mohammed bin Salman di centralizzare il potere e ridurre l’influenza delle vecchie élite economiche. SBG non è solo un’azienda: è un simbolo del vecchio sistema, quello in cui le grandi famiglie saudite prosperavano grazie a contratti statali e relazioni personali con la monarchia.
La sua ristrutturazione, condotta in modo così poco trasparente, manda un messaggio chiaro: nel nuovo regno di MBS, lo Stato decide chi sopravvive e chi no. Ma questo approccio rischia di alienare investitori stranieri e creditori internazionali, già scettici sulla prevedibilità del sistema saudita.
La valutazione strategica: un colosso da salvare
Dal punto di vista strategico, la decisione di salvare SBG a tutti i costi è comprensibile.
Il Gruppo è troppo importante per fallire: è coinvolto in progetti chiave come la Jeddah Tower e le infrastrutture per il turismo e i pellegrinaggi, pilastri della Vision 2030.
Un collasso di SBG avrebbe ripercussioni a catena sull’economia saudita, colpendo banche, fornitori e migliaia di lavoratori.
Inoltre, poche altre aziende locali hanno la capacità di gestire progetti su questa scala.
Il Governo ha quindi scelto di intervenire direttamente, non solo con la mediazione, ma anche con un supporto finanziario massiccio: il Ministero delle Finanze ha organizzato un prestito sindacato per aiutare SBG a ripagare i debiti e ha iniettato liquidità per garantire la continuità operativa.
Tuttavia, questa strategia ha un costo. La mediazione extragiudiziale potrebbe aver salvato SBG nel breve termine, ma ha minato la credibilità del sistema legale saudita.
Investitori e creditori internazionali, già preoccupati dalla volatilità del regno, potrebbero esitare a impegnarsi in futuro, temendo che le regole del gioco possano essere cambiate a discrezione del governo.
Inoltre, la dipendenza di SBG dal supporto statale la rende vulnerabile a ulteriori pressioni politiche: il gruppo potrebbe essere costretto a cedere ulteriori quote o a piegarsi a decisioni che ne limitano l’autonomia.
La valutazione militare: un impatto indiretto
Sebbene SBG non sia direttamente coinvolta in attività militari, la sua crisi ha implicazioni indirette per la sicurezza del Regno.
Molti dei suoi progetti, come l’aeroporto di Jeddah o le infrastrutture per i pellegrinaggi, sono strategici per la logistica e la gestione dei flussi di persone, elementi cruciali in un paese che deve bilanciare sicurezza interna e apertura al turismo.
Un SBG indebolito o eccessivamente dipendente dal Governo potrebbe rallentare questi progetti, creando vulnerabilità.
Inoltre, la massiccia presenza di lavoratori stranieri nel Gruppo – molti dei quali sono stati licenziati durante la crisi – ha già causato tensioni sociali, con proteste per salari non pagati.
In un contesto regionale instabile, queste tensioni potrebbero essere sfruttate da attori esterni per destabilizzare il regno.
Conclusione: un equilibrio fragile
La ristrutturazione segreta del Saudi Binladin Group è un microcosmo delle contraddizioni dell’Arabia Saudita moderna. Da un lato, il regno vuole proiettare un’immagine di riforme e modernità, con una legge fallimentare che dovrebbe attrarre investitori e garantire trasparenza.
Dall’altro, il caso SBG mostra che il potere politico continua a prevalere, con decisioni prese dietro porte chiuse e un sistema legale scavalcato quando conviene.
La mediazione del Ministero delle Finanze ha salvato il Gruppo, ma a quale prezzo?
La mancanza di trasparenza rischia di erodere la fiducia di creditori e investitori, mentre l’emarginazione della famiglia Bin Laden segnala un cambiamento epocale nel panorama economico saudita.
In un Regno che punta tutto sulla Vision 2030, il destino di SBG sarà un banco di prova: riuscirà Mohammed bin Salman a trasformare un colosso in crisi in un alleato affidabile, senza sacrificare la credibilità del sistema?
La risposta, per ora, resta sospesa.
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