Corea del Nord, la razionale inaffidabilità di un regime

Di Vincenzo Santo*

Secondo il situazionismo, i comportamenti della stragrande maggioranza degli esseri umani sono molto più influenzati, di quanto non si creda, da fattori situazionali esterni. Quindi gli esseri umani, pur essendo eccezionali possono essere o virtuosi oppure malvagi. Così Giuliano Pontara(1) riporta che Primo Levi, ne “I sommersi e i salvati”, racconta che un certo Muhsfeld, militare delle SS che infieriva arbitrariamente sulle vittime del campo di concentramento di Auschwitz, se fosse vissuto in un ambiente e in un’epoca diversi si sarebbe comportato come un qualsiasi altro uomo comune, cioè sarebbe potuto essere non malvagio.

Ora, mi sono chiesto, cosa e come sarebbe Kim Jong-un se fosse cresciuto, per così dire, in Italia. Io lo immagino seduto al McDonald’s, mentre addenta un enorme hamburger untuoso, con indosso un bomber nero e, nella migliore tradizione idiota di buona parte della gioventù mondiale, con un cappellino degli New York Yankees con visiera rigorosamente sulla nuca. Il più giovane capo di stato al mondo, tuttavia, pare possa vantare ottime credenziali, almeno sulla carta; studi in Svizzera, due lauree, tre lingue straniere. Probabilmente, aggiungo con un pizzico di malignità, un’evoluzione dell’italiano per poter interloquire con Razzi. Una carriera politica rapida, da riconoscere, considerando il fatto che non fosse la prima scelta per sostituire il padre.

Anche lui possiede, forse più del padre e del nonno, un’importante dote: apparire imprevedibile, persino irrazionale. Cosa che farebbe contenti coloro che credono che non sempre il sistema delle decisioni sia retto solo da un insieme di razionalità strumentali ma, invece, anche da un’infinità di concause subliminali e irrazionali. I governi, infatti, e non solo i singoli individui, possono agire irrazionalmente. Ma è pur vero che persino decisioni razionali possono causare disastri per vari motivi, quali mancanza di tempo, opzioni non sufficienti o scarse informazioni in qualità e numero. Quindi può capitare a tutti. Tuttavia, dobbiamo anche ammettere che è troppo facile attribuire dell’irrazionale a qualcuno che tanto amico non ci è. Si sbaglia il più delle volte.

È il caso certamente del regime nord-coreano che, secondo il mio modo di vedere, opera secondo una linea di sola apparente irrazionalità; la posta in gioco è alta, cioè la perdita del potere.

Tutto sommato, è pur vero l’adagio di “un uomo solo al comando”, ma quell’uomo ha una burocrazia, dei consiglieri, un complesso sistema di relazioni e gente che è incaricata di eseguire le direttive e che comunque è in grado di verificare e mitigare l’irrazionalità. Essere imprevedibile non significa necessariamente essere irrazionali, si può essere imprevedibili e razionali. Se solo talvolta si è imprevedibili e irrazionali ciò non pregiudica il mantenimento del potere. Se lo si è sempre, invece, prima o poi la tua gente ti si rivolge contro.

Ma non è quello che è ancora accaduto alle tre generazioni che si stanno succedendo alla guida del paese. Almeno per ora. William Perry, l’ex Segretario alla Difesa di Clinton ha recentemente affermato che il regime di Pyongyang è “ruthless and reckless, but they’re not crazy … three generations of family rule by the Kim dynasty in Pyongyang have shared one unifying philosophy, Keeping the regime in power(2) …”.

A guardare bene, infatti, non si può non riconoscere alla Corea del Nord continuità nell’azione politica, pur con qualche variante strada facendo, giocando spesso sulle rivalità delle potenze regionali o mondiali, ma cercando di lenire le proprie preoccupazioni e paure per la percepita minaccia americana di sovvertirne il regime.

La dinastia dei Kim ha creato un regime comunista autarchico e impermeabile alle influenze del mondo occidentale, poggiando su un massiccio strumento militare e su una vigorosa propaganda di regime. Ma è un paese schiacciato tra giganti; ieri Cina e Giappone, oggi Cina e Stati Uniti. Quindi, i Kim hanno compreso che per mantenere il potere devono difendere l’identità del paese, la sua ferrea ideologia che non ammette dissenso e che predilige l’isolamento, pur di non costituire il satellite della Cina, alla quale comunque rimane legata, oppure di non infettare la propria cultura con quella occidentale. Insomma, un regime che per sopravvivere deve poter difendere la propria indipendenza, la propria particolarità, esercitando soprattutto il potere all’interno.

Legalmente, la Guerra di Corea non è mai terminata. L’armistizio del 1953 è l’unica cosa che regge al momento. Al termine della Seconda Guerra Mondiale, a seguito della posizione contraria della Russia nel creare un’amministrazione fiduciaria con un Governo, il 38° parallelo divenne il confine definitivo. I sovietici, a seguito delle pressioni di Mao, si ritirarono dal nord, dove Kim Il Sung, il nonno del “paninaro”, instaurò un rigido regime comunista. Era il settembre del 1948. Poi venne la guerra che fu messa in stand by, come detto, con un armistizio(3).

Pyongyang ha lanciato il suo programma nucleare negli anni ottanta. Dopo il collasso dell’unione Sovietica, e nel mezzo di un periodo politicamente e socialmente turbolento in Cina, ha iniziato ad espandere il programma nel timore di non poter più giovarsi della protezione economica e militare dei due grandi protettori confinanti. E quando la Corea del Sud iniziò ad ingaggiare entrambi, Russia e Cina, le sue preoccupazioni si accrebbero. Poi, più forte è la presenza militare americana da quelle parti del mondo, più nervoso e bellicoso il regime diviene.

Neanche la firma, nel 1994, dell’Agreed Framework con gli USA, un accordo economico ed energetico avviato da Kim Il Sung ma completato dal figlio Kim Jong Il per l’improvvisa morte del primo, servì a calmare gli animi del regime che subito dopo volle però spingere su un programma missilistico, lanciando nel 1998 un Taepodong, cercando di far credere al mondo di aver soltanto messo in orbita un satellite. Da allora, sotto la guida di Kim Jong Il, la Nord Corea ha usato il programma nucleare come strumento di negoziazione altalenante, una sorta di bastone e carota al contrario, accreditandosi come potenza imprevedibile e non riconducibile all’ordine così facilmente(4).

Il rischio, si pensava, era che se fosse stato messo all’angolo, con l’economia in rovina, il regime avrebbe potuto reagire sprigionando il suo potenziale bellico, naturalmente a partire da Seul. È a seguito di questo ragionamento che prendono avvio i lunghi negoziati all’insegna del “six-party talk format” unitamente ad un programma di aiuti, il tutto volto a rallentarne il percorso nucleare ed evitarne la catastrofe. E sembrava persino che Pyongyang si aprisse all’occidente e alla vicina sorella Seul. Ma il lavoro del programma nucleare andava avanti sotto traccia, anche grazie all’intermediazione con il Pakistan garantita da Abdul Qadeer Khan, per uno scambio di “conoscenze” tra tecnologia missilistica a favore del Pakistan e tecnologia nucleare (soprattutto per l’arricchimento dell’uranio) a favore della Corea.

Nel corso delle ultime amministrazioni americane, il programma nucleare nord-coreano ha costituito un problema troppo pericoloso per essere ignorato ma troppo difficile da risolvere. Clinton ci provò diplomaticamente ma senza successo.

Poi arrivò Bush che, con l’intervento in Iraq alla ricerca di una pistola fumante, definì il regime uno di quelli facenti parte dell’Asse del Male, con Iraq e Iran. La porta a ogni possibile negoziazione fu decisamente chiusa, anche se Pyongyang, dopo l’11 settembre, aveva aperto agli USA. Ma fu proprio l’intervento in Iraq che indusse la Corea del Nord a ripensare la sua strategia: la minaccia di trasformare la Corea del Sud in un mare di fuoco non bastava più, nella mente del padre di Kim, quale deterrente ad un intervento militare straniero. Ciononostante, anche dopo la rinuncia fatta da Gheddafi nel 2003 di possedere armi di distruzione di massa, Pyongyang, ormai fuori dal Trattato di Non Proliferazione (NPT) continuò a negoziare allo scopo di ottenere garanzie di sicurezza, alternando test e misure di apparente buona volontà(5). Ma il regime iniziava a non fidarsi più tanto dei suoi storici sponsor (Cina e Russia) e le promesse degli USA gli apparivano non sincere.

Un incubo politico che troverà conferma nella morte di Gheddafi, una svolta decisiva.

Con Obama, che al suo primo insediamento esordì con queste parole “… to those who cling to power through corruption and deceit and the silencing of dissent,” Obama said, “know that you are on the wrong side of history, but that we will extend a hand if you are willing to unclench your fist …”, non è andata meglio. Un accordo del 2012, secondo il quale la Nord Corea avrebbe ricevuto centinaia di migliaia di tonnellate di aiuti alimentari in cambio della sospensione delle sue attività nucleari, collassò dopo solo un mese.

Il ragionamento di Kim Jong-il deve essere stato il seguente: “… non è possibile rinunciare al deterrente militare del paese, seppure in cambio di concessioni economiche e di promesse politiche, perché ne andrebbe della sicurezza del mio regime che rischierebbe di cadere vittima, come accaduto al regime libico, di un’insurrezione pilotata da potenze straniere …”. Inoltre, troppo tempo e denaro erano già stati spesi per lasciare perdere tutto.

Kim Jong-un, il paninaro nella mia immaginazione, è l’erede di tutta questa storia.

E nel corso degli ultimi due anni, il ciclo dei test è accelerato in campo missilistico e per sistemi missilistici “mobili” terrestri e per sottomarini, questi ultimi garanti di una capacità di secondo strike. Senza escludere il programma per le testate re-entry e quindi per gli intermediate-range ballistic missiles e per quelli intercontinentali volti a minacciare persino gli USA. Nella testa di Pyongyang, il poter colpire con una testata nucleare il suolo americano dovrebbe far recedere quella potenza dal brigare contro la sopravvivenza del regime.

La politica del giovane Kim si basa sulla “Byungjin Line”, cioè il perseguimento dell’obiettivo nucleare e il contemporaneo sviluppo economico nazionale. L’aspetto di deterrenza è chiaro. Ma lo sviluppo del programma nucleare, nel costituire una continua provocazione al contesto internazionale, di riflesso è anche utile a mantenere la popolazione sotto la costante paura di un conflitto, quindi asservita al regime. Nel suo intento di accelerare, espandere e modernizzare il proprio arsenale rientra il calcolo strategico di riuscire a dividere l’alleanza tra Seul e Washington. Da parte sua, Seul, a seguito degli attacchi asimmetrici che hanno visto l’affondamento della nave Cheonan e il fuoco di artiglieria sull’isola di Yeonpyeong, ha mutato la propria strategia. In circostanze analoghe, ci sarebbe una risposta pronta, mirata e proporzionale (deterrence by punishment). Ma, a quanto è dato sapere, c’è anche una segreta “Tailored Deterrence Strategy” affinata con gli USA(6) nel 2013, quale deterrente all’eventuale impiego di WMD da parte di Pyongyang.

Al riguardo, l’allora comandante delle forze USA in Corea, Generale Scaparrotti, dichiarò che “… the strategy focuses on options (militari, ndr) that raise the cost of North Korean WMD or ballistic missile use; deny the benefits of their use; and encourage restraint from using WMD or ballistic missiles. The strategy provides bilaterally agreed upon concepts and principles for deterring North Korean WMD use and countering North Korean coercion …”.

Il tutto in una politica che era stata definita di pazienza strategica.

Il suo tempo è finito, hanno dichiarato da Washington. Questa politica degli ultimi quattro anni circa, nella pratica voleva sottolineare l’impegno degli Stati Uniti a far leva sulle sanzioni, a livello internazionale o bilaterale, per tutto il tempo in cui la leadership del paese avesse continuato il programma nucleare e nel testare missili balistici. Sperando che fosse proprio la Corea ad aprire il pugno per prima, come aveva sottolineato Obama. Politica che nella realtà ha provocato una spiralizzazione di misure sanzionatorie da una parte e incremento delle “provocazioni” dall’altra.

L’amministrazione americana ha anche ritenuto di specificare che Trump non è intenzionato a tracciare linee rosse, anche per distanziare il proprio approccio da quello ritenuto inefficace di Obama, senza però rendersi conto che già il fatto di aver dichiarato che il tempo della pazienza strategica sia terminato di per sé rappresenta comunque una linea rossa.

La Corea del Nord non è Teheran. La pre-condizione di zero enrichment non funzionò neanche con gli ayatollah, figuriamoci con Kim, che può vantare un programma ben più avanzato e mai converrà nel rinunciare a quanto prodotto, che gli esperti valutano idoneo a realizzare tra le 10 e le 16 testate.

C’è, però, un fatto nuovo.

La Cina appare sempre più seriamente stufa del comportamento nord coreano. Ma necessita anche lei di importanti incentivi. Qualcosa potrebbe aver ottenuto da Trump in occasione del recente incontro tra i due capi di stato, sul commercio, sulla divisa cinese e, probabilmente sul comportamento pur discutibile di Pechino nel Mar Cinese Meridionale. Forse anche qualche limitazione all’operatività del THAAD. Potrebbe, dico. E probabilmente, i “movimenti” militari cinesi degli ultimi giorni potrebbero rappresentare un ulteriore tentativo, compiuto da un suo sponsor, per dissuaderlo dal fare altri giochi. Sarà così?

Alla luce dei più recenti avvenimenti sulla penisola coreana, la Cina appare comunque l’unico attore in campo in grado di condizionare fortemente la situazione in senso politico.

Della Cina si può dire tutto. Che potrebbe essere preoccupata di un collasso del regime perché questo significherebbe una riunificazione della penisola, con una ancora più pericolosa, e più a ridosso del confine, presenza americana, oppure per una temuta gran massa di rifugiati nord coreani nelle sue province del nord est.

La Russia, invece, attualmente coinvolta direttamente o indirettamente in Siria e in Ucraina, potrebbe valutare l’opzione del disimpegno nei confronti della questione coreana, magari proponendosi come intermediario in eventuali colloqui. Potrebbe! Soprattutto con un cambio di amministrazione a Seul, dove i contendenti alla presidenza appaiono più colombe che falchi; cambio che favorirebbe gli attuali legami(7) tra Russia e Nord Corea, in campo commerciale, infrastrutturale e di controllo dell’immigrazione. Alcuni analisti ipotizzano, infine, che Mosca potrebbe esercitare pressioni favorevoli su Kim, minacciandolo di allentare i controlli al confine, cosa che faciliterebbe la fuga in Russia dei cittadini nord coreani. Ma è poca cosa.

Tutto sommato, uno status quo di continua e latente tensione non dispiacerebbe a Putin, per rimandare a data da destinarsi le discussioni con il Giappone sulle dispute territoriali in quei mari. E potrebbe non dispiacere nemmeno alla Cina, così come al Giappone e a Taiwan. Il rischio di ritrovarsi poi con una Corea unificata è troppo alto, in quanto rappresenterebbe un ben più temibile concorrente economico, grazie alla massa di lavoratori a buon mercato del nord e alla buona tecnologia che comunque il regime ha sviluppato, risorse che Seul saprebbe sfruttare molto bene. Pertanto, paradossalmente, l’interesse comune potrebbe suggerire di mantenere le cose come sono, a fuoco lento, giusto un pizzico sotto il livello di ebollizione.

Una scelta strategica che farebbe comodo anche agli americani, per mantenere la loro importante presenza militare da quelle parti, incluso il Giappone. Cosa che invece verrebbe messa in discussione, ove il regime di Pyongyang fosse crollato e si realizzasse l’unificazione delle due Coree.

Tuttavia, non ci deve essere alcun dubbio che il mondo ha perso tempo con Pyongyang.

La Corea del Nord diverrà una potenza nucleare. Che la si riconosca come tale o no. E il mondo ne avrebbe volentieri fatto a meno, soprattutto considerando che tale potenza sarà nelle mani di un regime, come detto all’inizio, imprevedibile, e che ha come unica strategia di sicurezza la propria sopravvivenza, quindi tutto da perdere. Per questo, anche inaffidabile. Continuerà a ricattare la comunità internazionale e le potenze regionali.

È cosa inevitabile se si continua su questa strada.

Pertanto, molto chiaro e inequivocabile deve essere il messaggio di una risposta senza indugio a qualsiasi colpo di testa nucleare o missilistico. In poche parole, non è tanto importante cercare di capire cosa Kim farà, come in molti tentano di prevedere. Abbiamo già detto della sua imprevedibilità. É invece ben più importante fissare come rispondere e prepararsi a essere determinati nel farlo.

Ma non basta. L’unica via sicura per porre fine a questa saga è quella di un cambio di regime. Prima o poi. Certo, un obiettivo di lungo termine, se non esistono alternative più rapide, ma bisogna rassegnarsi e rendersi conto che fin quando egli sarà al potere ogni tentativo di negoziazione e, quindi, di denuclearizzazione della penisola sarà inutile.

In conclusione, volontà di pronta risposta militare alle intemperanze balistiche del regime, capacità che non comporta necessariamente un aumento della presenza americana nella regione, e la prosecuzione delle sanzioni per indebolirlo sono l’unica strada. L’uomo solo al comando deve essere costretto a prendere via via decisioni sempre più imprevedibili e irrazionali, per condurlo all’eliminazione. Soltanto in questo modo potrà avere senso l’aver detto che la pazienza strategica è terminata. Il condannarne gli atti con le sole parole o con le sole restrizioni non servirà a nulla.

La mancanza di determinazione nell’intervenire nasconde un ulteriore rischio, cioè che altri paesi nell’area, Giappone, Corea del Sud e persino Taiwan, cerchino simili percorsi. E nulla vieta di ipotizzare un approccio favorevole in tal senso da parte della nuova amministrazione americana, se non altro per forzare la mano alla Cina.

La Cina deve fare una scelta, quindi. Essa è la pedina fondamentale nella vicenda. Ma deve tenere in debito conto che tanto un vicino irrequieto ed estremamente pericoloso quanto altri vicini non necessariamente amici ma divenuti potenze nucleari sono scenari non utili ai suoi interessi. Deve smettere di contribuire alla longevità del sistema nordcoreano attraverso vitali sostegni economici, soprattutto in campo energetico(8). La contropartita? Mantenere le due Coree separate e, comunque, al nord un regime ad essa amico ma prevedibile e affidabile. Una sua scelta e un compromesso che tutti gli altri dovranno accettare.

Ma questi “tutti” saranno almeno loro … affidabili e razionali?

* Generale C.A. (Riserva)

1() Quale Pace? – Ed. Mimesis (2016)

3() Vale la pena di ricordare che l’intervento dell’ONU fu reso possibile dall’assenza dell’URSS, che praticava la politica della “sedia vuota” per protestare contro la mancata attribuzione del seggio permanente alla Cina Popolare all’interno del Consiglio di Sicurezza. Pertanto, essendo presente allora la Cina Nazionalista appoggiata dagli Stati Uniti, non esistette alcuna possibilità di veto.

4() La Corea del Nord si sarebbe ritirata dal Trattato di Non Proliferazione (NPT) il 10 gennaio 2003, a seguito delle accuse americane secondo le quali la Nord Corea aveva iniziato un programma di arricchimento dell’uranio per scopi militari. Gli americani cessarono i rifornimenti di olio pesante combustibile come da Agreed Framework, accordo con il quale si era risolta la controversia del 1994 relativa all’uso del plutonio per scopi militari.

5() Nel 2006, Pyonyang condusse il suo primo test nucleare che fu come un campanello d’allarme. La paura generata servì al regime per far accelerare la negoziazione e, nel 2008, decise di distruggere la torre di raffreddamento del reattore nucleare di Yongbyon. Ma poi continuò portando a termine un ulteriore test nucleare nel 2009 ma confessò alla comunità internazionale la presenza di un sito nucleare nel 2010. Quindi sospese i test nucleari e missilistici nel 2012.

6() “… establishes a strategic Alliance framework for tailoring deterrence against key North Korean nuclear threat scenarios across armistice and wartime, and strengthens the integration of alliance capabilities to maximize their deterrent effects …”.

7() La Russia provvede a rifornire Pyongyang con olio pesante combustibile. La Repubblica Nord Coreana processa questo olio siberiano per rivenderlo sul mercato cinese, ricavandone preziosa liquidità in moneta straniera. La collaborazione prevede anche un cospicuo numero di lavoratori nord coreani per progetti infrastrutturali in Siberia (pare circa 10 mila al momento), a basso costo, ma le cui rimesse in patria hanno altrettanta importanza per il regime.

8() Pechino rappresenta il principale partner commerciale di Pyongyang: circa il 90% del fabbisogno energetico del regime di Kim dipende infatti dal vicino cinese.

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