Di Pierpaolo Piras
Roma. Per la seconda volta in era moderna le autorità sanitarie internazionali sono costrette a diramare un allarme mondiale a seguito della diffusione dell’infezione respiratoria del Coronavirus, dalla Cina in altri Paesi.
La prima volta fu alla fine del 2002 con l’emergenza improvvisa di focolai di polmonite acuta a carattere epidemico da virus SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome) imparentato biologicamente con il Coronavirus, nella provincia meridionale della Cina, Quandong.
Da questa città la malattia si diffuse ad Hong Kong e nel Sud Est asiatico, con 800 vittime in tutti i Paesi, specie in Cina.
All’inizio del 2003 la Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) lanciò un serio avvertimento globale.
Nei Paesi più a rischio ed in tutto l’Occidente vennero adottate attente misure di isolamento e prevenzione che si dimostrarono scientificamente efficaci.
Oggi, nel territorio infetto o sospettato tale, intorno a Wuhan, dove l’epidemia è iniziata, oltre 20 milioni di persone sono state messe in quarantena. Provvedimento quanto mai opportuno e favorito dalla vacanza del Capodanno lunare, allungato, infatti, di tre giorni dal governo di Pechino.
Nel corso di tale festività, molto sentita e partecipata dal popolo, numerose aziende hanno chiuso l’attività.
Ma tale dilazione dei tempi di rientro al lavoro di milioni di lavoratori determinerà un’ulteriore contrazione delle spese familiari con relativa depressione economica tendenziale delle vendite, nel breve periodo.
Dai filmati e testimonianze si evidenzia una paura diffusa da parte della popolazione, spingendola a tardare il proprio rientro nei centri urbani ed industriali.
Questa tensione sociale è favorita dalle autorità cinesi, restia finora a comunicare sia i dati sanitari certi che ad ammettere imparziali ispettori OMS o delle maggiori società scientifiche mondiali nelle sedi territoriali dei controlli clinici.
Anzi, le ferree disposizioni locali si attivano a senso unico, sigillando tutte le aree residenziali e vietando la circolazione dei veicoli ad eccezione di quelli con compiti di Stato.
Nella città di Dawu, geograficamente prossima a Wuhan dove è scoppiata l’epidemia, il locale Comitato politico ha pronunciato molto drasticamente che coloro che violeranno le regole saranno sottoposti al Codice penale di guerra.
Nel frattempo, l’epidemia da coronavirus (2019 – aCoV) non mostra segni di defervescenza. Ultimamente è giunto in Africa, dove il rischio di diffusione del virus è altissimo, con futuri scenari da incubo in Paesi poveri e pressoché privi di un sistema sanitario degno di questo nome.
Le previsioni appaiono in parte poco affidabili: è del tutto semplicistico dividere il numero dei decessi per il numero dei casi clinicamente censiti, per valutare il tasso di mortalità.
Infatti, decine di migliaia di pazienti sono ancora sotto terapia e pertanto non sappiamo se e quanti di loro potrebbero morire.
Al contrario, sussistono i cosiddetti casi lievi, con sintomatologia minima che, ancorchè censita ed in osservazione, patirebbe un tasso di mortalità inferiore.
Per i cittadini italiani sono disponibili le numerose e chiare disposizioni, anche sulla contagiosità, leggibili sul sito Internet del Ministero della Salute (http://www.salute.gov.it/nuovocoronavirus).
Oggi, dunque, dopo ben 17 anni, sempre in Cina, compare una seconda epidemia di affezione respiratoria, a rapida diffusione, da mortali Coronavirus, più pericolosa della SARS, che gravissimi danni sta arrecando all’economia di quel grande Paese.
Ma, a distanza di così tanti anni, lo Stato più popoloso del mondo è cambiato profondamente.
Nel 2002 la Cina era produttrice di beni a basso e bassissimo costo, per lo più di abbigliamento e piccoli oggetti di scarso valore qualitativo e tecnologico.
Ai nostri giorni, detiene il secondo PIL (prodotto interno lordo) dopo gli Stati Uniti. Produce beni di elevato valore qualitativo, capaci di competere, efficacemente e vittoriosamente, su tutti i mercati del mondo.
Numerose aziende europee ed USA hanno dislocato la produzione di loro prodotti in Cina e la vendita degli stessi prodotti a clienti, anche essi cinesi.
Per le strade di questo Paese, il preoccupante spettacolo odierno fa vedere la chiusura, seppur temporanea, degli esercizi commerciali di grandi aziende simbolo come Ikea, Apple, Starbucks.
Così dicasi anche per le fabbriche dislocate di Toyota e General Motors o dei rinomati e lussuosi marchi di abbigliamento occidentali.
L’economia cinese si avvia verso una diminuzione dei più importanti asset economici, pari a quasi l’1%, ma capaci di abbassare l’intera economia mondiale.
Non è un caso se il Governo cinese abbia già deliberato di versare nell’economia nazionale fondi pari a circa 22 miliardi di dollari con previsione di ulteriori e più ingenti spese nel medio e lungo periodo.
Pechino ha tutte le motivazioni di essere preoccupata per un fenomeno epidemico interno che capita in un periodo di guerra commerciale con gli USA.
Non poche aziende americane, al solo fine di non cadere nelle trame dei dazi USA, hanno già provveduto a traslocare la produzione dalla Cina in altri Paesi con lavoro a basso costo, come il Vietnam, la Thailandia, India ed altri del terzo mondo.
Per l’economia cinese è sicuramente un disastro a tutto campo che minerà alla base il progetto globale di Pechino di estendere la propria influenza commerciale verso l’Europa e l’Africa.
La stessa che prende il nome di “Belt and Road Initiative”, ovvero la nuova Via della Seta verso l’Occidente.
Ancora, il concetto stesso di “mondializzazione”, già oggi sfuggita di mano alla patologica ambizione dei grandi Gruppi finanziari di sostituirsi alle libere deliberazioni politiche, dovrà coniugare diversamente le proprie strategie.
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