Libia ed immigrazione, i dubbi e le preoccupazioni di un cittadino abbastanza normale

Di Vincenzo Santo*

L’Italia ha deciso, manderemo due navi. La Difesa ci ha tenuto a precisare che, a parte l’ermetica formula per una missione volta a fornire supporto tecnico al Governo di Serraj, i nostri si difenderanno se attaccati. Neanche un Massimo Catalano, in “Quelli della Notte”, sarebbe stato capace di tirar fuori una simile ovvietà. Ovvietà che non è servita, pare, a spaventare Haftar, il quale avrebbe pensato di metterci alla prova. Vedremo.

Inoltre, come mi era stato facile ipotizzare sin dall’inizio di questa ulteriore puntata sull’immigrazione, le ONG mi pare abbiano rigettato ogni regolamentazione che abbia una seria efficacia. Mentre Minniti fa la voce grossa e una nave volontaria appare caduta nella rete della nostra magistratura. È possibile che ne verrà fuori qualcosa di interessante da qualche intercettazione. Ma non sono mai state le ONG che mi hanno veramente preoccupato, anche se questo slancio volontaristico mi ha sempre stimolato qualche sospetto. Per dirla in poche parole, è quello che mi sentirei di chiamare business volontaristico. Del resto, siamo certi che qualora di fondi non se ne vedesse neanche più l’ombra questi paladini continuerebbero a cavalcare le sciagure per tutto il globo terracqueo? Per me volontariato significa altro e credo di poter dire di non essere il solo.

Tanto per cominciare, io nutro troppi dubbi sugli ultimi accadimenti e, dal momento che credo di essere tra quanti passano per essere normali cittadini, ritengo che questi dubbi siano condivisi da moltissimi altri.

Primo, stiamo inviando due navi al largo della Libia oppure, mi è parso di capire, da tenere alla fonda nel porto di Tripoli. Ora, lasciato perdere l’ermetismo del “supporto tecnico e Dio solo sa di che altro”, è bene che i politici sappiano che in una crisi del genere, quasi incancrenita, dovrebbero spiegare nel dettaglio che cosa realmente i nostri marinai dovrebbero fare. E mi stupisco che le commissioni parlamentari si siano presumibilmente accontentate di così poco e di così tanto dilettantesco.

Quindi, sospettoso quale ho imparato a essere, mi chiedo se queste navi non dovrebbero in realtà garantire la protezione dello spazio aereo al “condominio” occupato da Serraj, nell’evenienza che Haftar dovesse sognarsi qualche brutto scherzo con i suoi aerei, dato che, in realtà, l’accordo di Parigi non impedisce alle sue truppe di procedere verso Ovest. Per mio conto, magari il maresciallone riuscisse a chiudere la partita a suo favore! E, inoltre, non è che in questo modo, alla fonda nel porto, quelle nostre navi siano più solerti nel garantirne comunque l’evacuazione in caso di eventi sfavorevoli per quel governicchio? O per il solo Serraj? Qualche brutto episodio mi pare sia accaduto pochissimi mesi fa. O della nostra delegazione diplomatica? Oppure si tratta di una semplice mossa politica, insignificante sotto l’aspetto militare? Tanto per dire agli italiani, distratti dal troppo caldo, che “qualcosa, vedete, si sta facendo”? Guarda caso il flusso appare essersi rallentato nelle ultime ore, quasi fosse a comando. Mi si dica e mi si convinca che non è vero.

Secondo, perché il Governo ha pensato di sedersi al tavolo con le ONG? Ha ragione Luttwak, in una sua recentissima intervista rilasciata a Repordifesa(1), quando sottolinea questa debolezza “… Le Ong possono fare ciò che vogliono, l’importante non attracchino. Decide l’Italia chi attracca e chi no, non servono accordi. Le Ong sono uno Stato? Cosa sono? Chi sono? Vi piace mettere in gioco interessi e sicurezza nazionale? Per cosa? (…) Ma può la settima potenza mondiale e terza militare europea accordarsi con Ong private? Io e lei domani andiamo in barca a Napoli, decidiamo di essere Ong, sbarchiamo chi vogliamo? Funziona cosi? …”.

Ha perfettamente ragione. Allora mi chiedo se esista o sia esistita una sorta di connivenza tra alcune ONG e alcuni rappresentanti del Governo o dei Ministeri direttamente coinvolti e se tale coincidenza di interessi non abbia costretto il governo ad una timida marcia indietro per non tradire inconfessabili accordi pregressi. Mi si dica e mi si convinca che non è vero. Del resto, è pure emerso che con Triton, l’allora Presidente del Consiglio avrebbe indicato che gli sbarchi dovessero avvenire in Italia. E, a questo punto, come mai il silenzio del Presidente della Repubblica, che presiede il Consiglio Supremo di Difesa? Non sarebbe quella una ragione sufficiente per chiedere chiarimenti ai responsabili? Non siamo in emergenza e non è un problema di sicurezza? Certo che lo è, altrimenti perché manderemmo delle navi, perché abbiamo autorizzato l’uso di Sigonella nel recente passato oppure, infine, perché abbiamo già in Libia altri nostri militari? Trovasse il tempo tra una commemorazione e un’altra, il bravo Mattarella farebbe se non altro capire al cittadino normale che c’è qualcuno lassù, nelle più alte gerarchie, che pretende chiarezza e trasparenza.

Terzo, perché ce la siamo tanto presa tanto con Macron per la sua recente intenzione di mettere lui in Libia degli hotspot? Ci siamo sentiti colpiti nell’orgoglio, oppure perché riteniamo una missione del genere sia difficile da avviare senza una cornice di sicurezza adeguato allo scopo e abbiamo avuto il timore di essere coinvolti secondo regole e misure dettate da altri? Di quest’ultima ipotesi dubito, tuttavia, anche se per certi versi sarebbe da applaudirne la cautela. Ci ritorno sopra tra un attimo. Oppure, infine, ci siamo intimoriti per il fatto che con quelle strutture sulle sabbie libiche gli afflussi di immigrati ne avrebbero seriamente risentito così da intaccare sensibilmente il business che li fomenta? Mi si dica e mi si convinca che non è vero.

A parte questi dubbi, è una certa produzione di idee, per ora lanciate in aria apparentemente a caso, intorno ad un ipotetico intervento armato in Libia ciò che mi preoccupa. Ma andiamo per ordine.

Luttwak ha anche ragione, a meno di prova contraria, che purtroppo ritengo altamente improbabile, sul fatto che la nostra politica sia vaga per quanto attiene agli interessi nazionali che, mi pare di poter constatare, difficilmente combaciano con quelli di determinati parti politiche. E, purtroppo, caro “Eddy”, in Italia è quello che più conta.

Tuttavia, mi piacerebbe discutere con lui sull’efficacia degli ordini precisi di cui beneficerebbero i generali americani sotto i quali, solo per tale ragione, i nostri militari opererebbero bene in Afghanistan.

Una missione che invece sta collassando assieme a quel Paese, nonostante gli ordini precisi e l’eccellenza dei suoi generali. Si pensi anche all’Iraq. A conferma che sarebbe necessario un serio ripensamento sulle capacità di pacificazione e ricostruzione che vantiamo di poter mettere in campo. Stupidaggini derivate da letture superficiali di quanto fatto all’indomani della Seconda Guerra Mondiale in Giappone e in Germania. E Luttwak esagera su questo argomento rapportandolo alla Libia – una missione “pesante” come definita durante quell’intervista – che sarebbe un Paese da occupare.

Tuttavia, “Eddy” non è il solo. Alcuni iniziano a ritenere cosa inevitabile e risolutiva un intervento di tal genere in Libia, quale premessa per bloccare questo esodo, ovviamente biblico (altrimenti che esodo sarebbe?). Io nutro dubbi e preoccupazioni non sull’idea in sé, ma sulla semplificazione che se ne fa e, quindi, sulla superficialità con cui si rischierebbe di affrontare una simile avventura. Luttwak afferma che 50 mila uomini italiani e altrettanti dall’Europa basterebbero per “pacificare” la Libia. Il che significa convincere con la forza chi della nostra pacificazione non vuol sentire parlare. Carissimo “Eddy”, ti svelo un segreto, l’Italia non ha 50 mila combattenti da mettere in campo e forti dubbi avrei anche sulla partecipazione europea, con metà europei preoccupati più da Putin e dalle sue grandiose esercitazioni. Un dettaglio non da poco.

Far intervenire una forza militare significa essere intenzionati ad usarla oppure solo minacciarne l’uso. In quest’ultimo caso parliamo di deterrenza o di dissuasione. Siamo comunque nel campo della strategia. E una strategia deve essere elaborata a livello politico perché costituisca il “ponte naturale” tra la politica che si vuole seguire e l’uso o la minaccia dell’uso stesso della forza. Ad essa partecipano tutti gli strumenti di potere di uno stato, ovviamente inclusa la forza militare. Ricordiamocelo. Quindi contrastare un esodo del genere dipende dagli obiettivi che il “politico” si prefigge di raggiungere. I militari possono fare di tutto, ma quel tutto dipende da cosa si voglia effettivamente ottenere a livello politico. Sostituirsi ai libici nel controllare i propri confini meridionali è una cosa troppo semplice a dirsi e ripetersela potrebbe portare qualcuno a convincersi che possa essere non solo semplice ma anche facile.

Ora, domandiamoci: esiste la volontà di fermare questa “invasione”, come la definisce Salvini? Se la risposta è sì, senza se e senza ma, e, pertanto, lo scopo di un’ipotetica missione militare è quello di fermare questo traffico, non si può essere vaghi, come Luttwak ci accusa di essere.

Il militare deve avere una missione chiara e semplice, un obiettivo ben definito e, infine, fondamentale è elaborare un set di regole di ingaggio inequivocabili. E deve essere aiutato nel comprendere, per poi proporre una seria opzione militare, da dove si deve partire, cioè quale possa essere il centro di gravità di questo fenomeno. Secondo me questo è di ordine psicologico, cioè risiede nella consapevolezza ormai diffusasi che, giunti sulle sponde del mediterraneo, sia ormai cosa fatta, e arrivare dall’altra parte in Europa sia solo un ultimo pur pericoloso passaggio, ma che vale comunque la pena a quel punto affrontare.

È questo convincimento che deve essere combattuto e, se serve, anche da soli. E va combattuto “sulle spiagge” non altrove. Poi, come si sa, le cattive notizie si diffondono più velocemente di quelle buone, anche in Africa. E di questo ho parlato in una recente mia intervista su Libero Quotidiano(2).

Quindi, se si vuole veramente fermare “militarmente” il tutto bisogna avere il coraggio di individuare seriamente che cosa si voglia ottenere, essere chiari e assumersi politicamente la responsabilità delle conseguenze. Conseguentemente, avanzo forti dubbi sul fatto che due sole navi, a supporto tecnico della guardia costiera libica, potranno mai contribuire a raggiungere questo end state. E, francamente, temo che non sia questo ciò che si vuole ottenere.

Io credo che la storia non vada dimenticata con il suo passato coloniale. Probabilmente, una delle poche counter-insurgency veramente efficaci nella storia dell’uomo fu proprio quella condotta dal Generale Graziani in quelle terre e sappiamo che non usò il guanto di velluto. Solo per questo, quindi, non mi sentirei di prendere in considerazione una nostra “missione pesante” sul suolo libico.

Ad ogni modo, immaginando di volersi noi accollare il controllo delle aree a sud della Libia per bloccare il traffico di esseri umani, il problema diviene molto più complesso e più gravoso che combattere il traffico sugli spot di partenza a mare come sopra ho accennato. Volendo fare due conti, pur a sciabolate, e considerando che il corridoio(3) del Fezzan ha un’ampiezza di circa 700 chilometri, nei due tratti relativi al confine libico con Niger e Algeria, ipotizziamo di voler realizzare una vera e propria barriera terrestre sottoposta a un più meticoloso controllo.

Ecco, in questo caso potrebbero essere necessari, almeno inizialmente, una cinquantina di battaglioni di fanteria, utili a controllare tale estensione e per una profondità di cinque o sei chilometri a ridosso del confine, avendo significative capacità di combattimento per difendersi, reprimere e scoraggiare eventuali incursioni da parte di chi avesse interesse a mantenere quel traffico umano. L’ambiente, credo si possa essere d’accordo, non è detto che sia amichevole. E l’eventuale pur concorde appoggio di Serraj non penso basterebbe.

Ad esse andrebbero aggiunte riserve mobili, quindi supporti operativi di ogni tipo. In tutto, non credo meno di 80 mila uomini. Va poi aggiunto il sostegno logistico, per un’area lontana dai porti e che dovrebbe essere sostenuta quasi esclusivamente per via aerea. Ripeto, almeno inizialmente. E poi bisogna arrivarci per schierarsi da quelle parti, magari attraversando altri territori sub-sahariani, non del tutto tranquilli. Inoltre, ci sarebbe l’altro corridoio, quello che viene su dal Sudan. I numeri insomma salirebbero vertiginosamente. Un’opzione che io reputo sia irrealizzabile. Qualcosa comunque molto diverso dai 5 mila che qualche ministro ventilava qualche tempo fa. Purtroppo, in Italia sembra che i rappresentanti del Governo parlino come se fossero il roveto ardente, quello che loro dicono si pretende debba essere preso per dogma oppure essi sperano, o ne sono convinti, che i normali cittadini tanto dimenticano.

E per quanto tempo poi si dovrebbe procedere a questo controllo? Smantellata la “barriera” militare, il flusso penso che ricomincerebbe come prima. Bisognerebbe quindi fare di più negli altri Paesi di passaggio, cosa in cui ad oggi (per esempio i francesi) non mi pare ci si stia impegnando.

Perché dovrebbe cambiare un domani? Va da sé che ai disperati che arrivassero, una volta liberati dai propri aguzzini, andrebbe garantita assistenza di ogni tipo. Dovranno essere accomodati in campi di accoglienza, in attesa di essere rimandati indietro oppure, se riconosciuti meritevoli, metterli a rifugio in Europa. Eccetera eccetera.

Riprendendo invece l’idea, secondo me folle, di intervenire per garantire il ritorno “alla normalità” di un paese che abbiamo noi contribuito a sfasciare, per pacificarlo previa occupazione militare, nelle parole di Luttwak, quei numeri non basterebbero affatto. Intanto, dopo aver invaso, con o senza il beneplacito di Serraj, combattuto e messo fuori gioco le fazioni meno amichevoli, occorrerà passare alla stabilizzazione. Partiamo da qui, ancora a sciabolate. Riprendendo quanto ebbe a dire Shinseki, considerando la necessità di rapportarsi ad una popolazione di circa 6 milioni di libici, ci vorrebbero almeno 120 mila armati, cioè, secondo quel generale americano, lui sì saggio e pragmatico e, quindi, inascoltato, 1 per ogni 50 abitanti. Mettiamogli intorno ogni cosa utile in termini di supporto operativo e logistico e probabilmente arriveremmo ben sopra i 200 mila circa. Almeno, “stretti stretti”!

Detto questo, vogliamo ipotizzare anche una precedente lunga fase di peace enforcing per occupare il Paese, sempre secondo quanto dice il buon Luttwak? Sempre a sciabolate, dovremmo probabilmente raddoppiare il tutto. Anche questa ipotesi, più irrealizzabile dell’altra. E per cosa poi? Per un altro Iraq, un’altra Siria o Afghanistan? Non scherziamo!

Pertanto, oltre alle azioni concorrenti nei confronti del libero mercato del business volontaristico, è necessario andare a colpire il convincimento che arrivati sulle rive della Libia sia assicurato il passaggio in Europa. Sono “le spiagge libiche” l’obiettivo militare, le spiagge con le risorse e le strutture che quei trafficanti utilizzano! È questo nella realtà che il Macron, io credo, avesse in mente. Un’attività più sostenibile nel tempo e più efficace.

Carissimi voi del Governo, intanto convincete questo quasi normale cittadino che si sta sbagliando con i suoi dubbi e, inoltre, ove foste convinti che 5 mila combattenti basterebbero per fare qualsiasi cosa di “pesante” in Libia, procedete pure, la strada dei cercatori di gloria è lastricata di catastrofi!

*Generale CA ris

Autore