L’orgogliosa rivolta del popolo napoletano (le quattro giornate di Napoli)

Di Attilio Claudio Borreca

Napoli. Una voce, dalla radio, percorse le vie dell’antica capitale borbonica in un assolato 28 settembre 1943: bande armate di comunisti, agli ordini di inglesi fuggiti dalla prigionia hanno saccheggiato la città, scassinando negozi e penetrando nelle abitazioni private.

Con questo laconico messaggio sulle Quattro Giornate di Napoli, il governo fascista liquidò il riscatto di una intera popolazione che, stremata nel fisico ma non nell’animo, decise di conquistarsi da sola la sua libertà prima dell’arrivo degli alleati. Lo si nota leggendo la motivazione della Medaglia d’Oro al Valor Militare concessa all’orgogliosa città: con superbo slancio patriottico sapeva ritrovare, in mezzo al lutto e alle rovine, la forza per cacciare dal suolo partenopeo le soldatesche germaniche, sfidandone la feroce e disumana rappresaglia. Impegnata un impari lotta col secolare nemico, offriva alla Patria, nelle Quattro Giornate di fine settembre 1943, numerosi eletti figli. Col suo glorioso esempio additava a tutti gli italiani la via verso la libertà, la giustizia, la salvezza della Patria.

Tra lutti e rovine 

Durante il secondo conflitto mondiale, Napoli soffrì con orgoglio e dignità, insorgendo con lo slancio tipico dei suoi figli. In quasi quattro anni di guerra, la città aveva subito 105 violente incursioni aeree. Le devastazioni al patrimonio edilizio pubblico e privato furono colossali (233.000 vani distrutti o resi inabitabili e il quartiere Mercato, vicino al porto, fu il più colpito: su 14.642 vani ne perse 13.213). La rete telefonica fu resa inutilizzabile al 90%, mentre il materiale ferroviario perso fu del 65%. Furono danneggiate anche le centrali elettriche, le officine del gas e tutte le attrezzature portuali. Incalcolabili poi le perdite umane, stimabili sui 22.000 morti. Tre momenti tragici sono da ricordare in modo particolare: il primo bombardamento diurno, l’esplosione di una nave nel porto, l’ultimo bombardamento. Non meno di 400 persone morirono il 4 dicembre del ’42, nel corso del primo attacco aereo diurno che colse di sorpresa la popolazione e la stessa difesa antiaerea. Tra l’altro, furono colpite alcune navi in porto (tra cui l’incrociatore Muzio Attendolo) e due vetture tranviarie cariche di viaggiatori in via Monteoliveto, causando una carneficina.

L’esplosione della nave Caterina Costa, avvenuta nel pomeriggio del 28 marzo 1943, causò 549 morti e oltre 3.000 feriti. La nave, nuovissima, aveva una stazza di 8.600 tonnellate e da un anno era adibita al trasporto di munizioni e viveri. Aveva imbarcato 600 soldati italiani e tedeschi, oltre a 900 tonnellate di esplosivi, 1.000 tonnellate di benzina per aerei, 43 cannoni di varia tipologia, mezzi cingolati e carri armati. Per un banale incidente, una scintilla provocò un principio d’incendio: il personale di bordo, timoroso del carico, non ritenne possibile spegnere le fiamme con i mezzi a disposizione e si pose in salvo sulla banchina. Lo stesso fecero quasi tutti i tedeschi sistemati a prora, mentre i militari italiani, tagliati fuori dalle fiamme, restarono assediati a poppa. Molti si lanciarono in acqua, ma oltre 100 morirono carbonizzati. Alle 17.39 una immane esplosione devastò il piroscafo lanciando, su una vasta area, pezzi di lamiera incandescenti, bombe, cannoni e persino parti di mezzi corazzati. Si raccolsero morti e feriti presso la stazione centrale, in piazza Carlo III, a Spaccanapoli. I vigili del fuoco lavorarono giorni interi per riportare un minimo d’ordine nel marasma generale. Il 4 agosto 1943 un rombo di motori ricordò ai napoletani che la guerra continuava. Erano appena passate le 14.30 quando centinaia di bombardieri inglesi e americani, giunti ad altissima quota, sganciarono tonnellate di bombe. 3.000 furono le vittime tra morti e feriti, ovunque c’erano crateri, oltre 100 edifici civili furono polverizzati. Quel giorno non vi fu neppure la forza di piangere i propri morti. I fatti del 25 luglio e dell’8 settembre avevano illuso i napoletani. L’armistizio colse di sorpresa la città e i suoi responsabili militari ma non i nazisti che subito disarmarono i reparti militari italiani. Le truppe germaniche contavano nell’intera Campania almeno 20.000 uomini. C’era il 14° Corpo d’Armata, composto da 3 Divisioni a sostegno della 16^ Divisione corazzata, schierata in prima linea per contrastare lo sbarco alleato a Salerno. Il 15° Corpo d’Armata era invece schierato in riserva nei dintorni dell’abitato di Villa Literno. La Divisione “Hermann Goering” era stata schierata presso Maddaloni a copertura del versante interno. Le truppe della piazza di Napoli erano comandate dal Colonnello  Walter Scholl il quale il 13 settembre dispose che: chiunque agisca apertamente o subdolamente contro le forze armate germaniche sarà passato per le armi. Inoltre, il luogo del fatto e i dintorni immediati del nascondiglio dell’autore saranno distrutti e ridotti in rovina. Ogni germanico ferito o trucidato sarà rivendicato cento volte.

L’ordinanza di Scholl, ufficiale prussiano dal fisico tozzo, che inutilmente tentava di darsi un aspetto aristocratico con il monocolo, segnò probabilmente la sanguinosa sconfitta dei soldati italiani che tentarono a Napoli di opporsi ai tedeschi, non solo durante le Quattro Giornate, ma anche il 10 e 11 settembre. Eppure nella zona di Napoli allo schieramento tedesco si contrapponeva un consistente apparato italiano di almeno 5.000 uomini: la Divisione di fanteria “Pasubio” comandata dal generale Pentimalli, cinque battaglioni costieri e il 19° Corpo d’Armata comandato dal Generale Del Tetto. Le forze italiane sarebbero state largamente sufficienti per avere ragione dei 2.000 tedeschi agli ordini di Scholl se avessero avuto, in quei momenti di tragico smarrimento, precise disposizioni in merito. Alcuni comandanti furono posti nell’impossibilità di esercitare la loro azione, altri reparti furono sciolti dagli stessi comandanti per salvare gli uomini dalla cattura, qualche unità circondata di sorpresa dovette arrendersi per l’ignobile ricatto di rappresaglie, ma in altre circostanze i soldati seppero reagire con fermezza e le armi spararono fino all’ultimo proiettile. Nel pomeriggio del 10 settembre un carabiniere, da solo, fece prigionieri 5 nazisti e li portò a Palazzo Salerno sede del comando militare italiano. L’edificio però era già stato occupato dai tedeschi e il milite, fatto prigioniero a sua volta, fu salvato da alcuni marinai che animosamente aprirono il fuoco. La sera del 10 settembre i nazisti avevano già preso il sopravvento, ma molti soldati italiani rifiutarono ancora di arrendersi. Il Capitano di Vascello Mengoni e il Tenente di Vascello Lubrano, asserragliati con 40 marinai nella casermetta della base navale, combatterono per tre ore ed ebbero tre caduti. Stavano per avere ragione degli assedianti, quando sopraggiunse il Ten. Col. De Stefano che ordinò loro di arrendersi per evitare feroci rappresaglie contro la popolazione.

Barricate

La feroce e disumana rappresaglia

Il 10 settembre a Piazza Umberto, un soldato della Sanità rifiutò di consegnare il fucile e fu trucidato sul posto da tre nazisti. Giacomo Lettieri, un sedicenne che lavorava in una bottega di fabbro, vide la scena e raccolto da terra uno dei moschetti già tolti ad altri soldati, sparò contro i tedeschi uccidendone uno e costringendo alla fuga gli altri. Il 25 settembre, però, catturato insieme ad altri 11 civili, dopo essere stati costretti a scavare una grande fossa, furono fucilati. Il giovane Lettieri venne poi decorato di Medaglia d’Argento al Valor Militare. Tentarono inutilmente di resistere anche i soldati dell’autoparco all’Arenaccia, quelli del Distretto Militare e i Vigili Urbani della caserma di via Chiaia. A Casalnuovo, periferia di Napoli, il Tenente Gaetano Farneti, comandante di un posto di blocco sulla strada provinciale, respinta la richiesta di resa, si difese fino a quando non fu colpito a morte. Nella vicina Nola era di stanza il 48° reggimento artiglieria comandato dal Colonnello Di Pasqua. La cittadina era completamente circondata dalla Divisione “Goering” e per evitare una strage il Col. Di Pasqua dovette prodigarsi per persuadere i suoi artiglieri a restare sulla difensiva. La sera del 10 settembre i nazisti si presentarono al corpo di guardia, intimando ai soldati di consegnare le armi, ma furono prontamente ricacciati a colpi di bombe a mano che uccisero un soldato germanico. Per evitare la rappresaglia il Col. Di Pasqua inviò dai nazisti il Tenente Carelli e un artigliere, ma furono ambedue investiti da una raffica di mitragliatrice non appena giunsero in vista degli avamposti della Divisione “Goering” i cui uomini nel frattempo avevano circondato la caserma dell’artiglieria. Il mattino dopo i tedeschi fecero sapere che si sarebbero accontentati solamente di tutta la benzina presente nel deposito. Il Colonnello prese ogni precauzione per evitare altri incidenti. Fece togliere le armi ai soldati e li feci restare nelle camerate. Ma fu tutto inutile…i nazisti si presentarono in 40 e, disarmati gli uomini di guardia, costrinsero il Colonnello a far scendere gli artiglieri nel cortile. Furono fatti tutti prigionieri mentre il Comandante di reggimento ed altri nove Ufficiali furono fucilati. Questa è la rappresaglia per il nostro camerata ucciso ieri – gridò l’ufficiale tedesco che comandava il plotone di esecuzione – così la Divisione “Hermann Goering” punisce i traditori.

Il 12 settembre i nazisti vinsero le ultime resistenze della 634^ batteria contraerea al Palazzo dei telefoni e alla caserma “Pastrengo” dei carabinieri. Alla caserma “Zanzur” quattro finanzieri furono fucilati per aver opposto resistenza. A Castel dell’Ovo, dove si erano barricati 20 militari del 21° centro di Avvistamento con una quarantina di civili, un carro armato e diverse autoblinde aprirono una breccia. Molti soldati si salvarono gettandosi in mare. Altri otto però furono incolonnati con i civili lungo la litoranea, via Partenope e via Nazario Sauro. Giunti davanti al Palazzo dell’Ammiragliato gli otto uomini in divisa furono fucilati. I loro corpi rimasero per tre giorni sulle aiuole adiacenti il parapetto del quartiere di Santa Lucia. L’ira dell’aggressore non si placò con questo. La sua furia si scatenò nel saccheggio e nella distruzione, raggiungendo il culmine nell’incendio dell’università. Nel pomeriggio del 12 settembre circa 600 nazisti, con carri armati e artiglieria leggera, circondarono l’Ateneo ritenuto un focolaio d’insurrezione e, dopo aver ammassato in via Rettifilo circa 6.000 persone rastrellate nella zona, diedero fuoco agli edifici, costringendo la popolazione rastrellata ad assistere in ginocchio anche alla fucilazione di un marinaio. 14 carabinieri catturati perché avevano cercato di impedire la devastazione della centrale telefonica in via De Pretis, furono fucilati a Teverola nel casertano.

Proclama del Col. Scholl

Volevano ridurre Napoli in fango e cenere

La città, secondo gli ordini di Hitler, doveva essere ridotta in fango e cenere. Fra il 12 e il 14 settembre, il Generale Hube contrattaccò con successo gli anglo-americani sbarcati a Salerno, ma l’azione doveva servire unicamente a dare, ai tedeschi delle retrovie, il tempo di ripiegare asportando macchinari e distruggere ogni impianto. Le banchine e le attrezzature portuali furono minate e fatte saltare. Furono depredati e distrutti gli stabilimenti Ilva di Bagnoli, della Cisa-Viscosa a Casoria, i molini Chiappetta e Panzanella, i depositi carburanti della Shell a San Giovanni a Teduccio, mentre tutta la città era saccheggiata. Il giorno successivo il Col. Scholl fece partire il grosso dei suoi uomini e rimasero in città solo poche centinaia di soldati. Strade e ferrovia erano praticamente inutilizzabili, non giungevano viveri e neppure la florida “borsa nera” riusciva a combattere la fame. Mancavano acqua e gas e alle poche fontanelle pubbliche ancora funzionanti si verificavano file e risse. Per la mancanza d’acqua e per i rifiuti che si accumulavano per strada (gli automezzi della nettezza urbana erano stati requisiti e gli spazzini reclutati per il “servizio obbligatorio del lavoro”) incombeva su Napoli la minaccia di un’epidemia. Gli sfollati si accalcavano nelle case ancora abitabili ed era stato ordinato lo sgombero della fascia costiera per una profondità di 300 metri che sarebbero stati cinque chilometri se il Prefetto Soprano non fosse intervenuto con fermezza nei confronti dell’autorità germanica. L’incubo era aggravato dalle incessanti retate di uomini per il “servizio obbligatorio del lavoro”. Il 28 settembre, quando gli anglo-americani si stavano avvicinando a Napoli, la città fu attraversata da una cupa, interminabile processione: erano gli 8.000 giovani rastrellati nei giorni precedenti che a piedi e sotto un acquazzone torrenziale, venivano avviati verso i campi di concentramento in Germania. Li scortavano una cinquantina di soldati della Wehrmacht.

La resistenza nella città

Gli uomini di Scholl non avendo più nulla da saccheggiare da fabbriche e depositi, il 27 settembre rivolsero la loro attenzione verso i negozi. Nel tardo pomeriggio giunsero con un camion alla Rinascente e presero le stoffe. Non contenti chiesero al cassiere di consegnare il magro incasso della giornata. Questi si rifiutò e fu gettato a terra con uno spintone. In un impeto di rabbia l’uomo estrasse una pistola e cominciò a sparare e fra i banconi si ingaggiò una vera e propria battaglia. L’accorrere di altre persone mise in fuga i razziatori che abbandonarono il loro camion già carico. L’elettrizzante notizia si diffuse in un attimo e chiunque aveva qualcosa da difendere o non voleva essere catturato si procurò un’arma. Il mattino successivo i napoletani furono ancor più eccitati dalla voce, poi risultata falsa, che gli americani erano sbarcati a Bagnoli e Pozzuoli. Il 28 la popolazione impedì, in ogni zona della città, l’opera di saccheggio delle truppe germaniche. Gli uomini di Scholl furono costretti ad andarsene a mani vuote da via Roma e dal rione Speranzella. A Materdei i proprietari di un calzaturificio diedero l’allarme: accorsero subito dei militari italiani nascosti nelle case vicine dall’8 settembre. Nello scambio di colpi che seguirono rimasero uccisi il tenente dei granatieri Carmine Fuselli e un diciasettenne. In piazza del Plebiscito 3 nazisti saccheggiarono la Pellicceria Leone. Il Capitano Stefano Fadda, divenuto poi il capo degli insorti, e che si trovava nelle vicinanze cercò di procurarsi delle armi nella vicina prefettura ormai deserta, ma quando tornò nella piazza i nazisti se ne erano andati con il bottino. In un’altra zona della città i nazisti intervennero contro dei cittadini affamati che volevano prelevare dei viveri da un magazzino. Sopraggiunsero i tedeschi con due camionette e l’Ufficiale che li comandava diede tre minuti di tempo per sgombrare. Fece fuoco sui rimanenti allo scadere del tempo colpendo un pieno un bambino di otto anni. Tutti si sbandarono. I nazisti prelevarono dodici ostaggi nelle case vicine e li portarono in piazza. I parenti dei catturati si scagliarono addosso ai soldati, sbucando da tutti i vicoli, armati anche soltanto di coltelli e bastoni, ma così numerosi che i nazisti rimontarono sulle camionette e ripartirono a tutta velocità. Furono creati posti di blocco servendosi persino di tram rovesciati per creare barricate. Nel quartiere di Capodimonte il tenente Edoardo Droetto, con una sessantina di uomini, dissotterrò un cannone da 37/54 che era stato nascosto l’8 settembre. Nel quartiere Miracoli, nella caserma dei Vigili del Fuoco, il Tenente Vinicio Giacomelli organizzò una prigione per i nazisti catturati. Gli insorti di Porta Capuana formarono un posto di blocco in Via San Giovanni a Carbonara: erano in 40 divisi in 4 squadre, ciascuna armata con una mitragliatrice. Nel pomeriggio vi incapparono una decina di soldati germanici, 4 furono uccisi, 2 feriti e gli altri fatti prigionieri. Altri 8 furono uccisi e 6 feriti in un posto di blocco in Via Foria, tenuto da una sessantina di popolani con due mitragliatrici. La ribellione cominciava a farsi pericolosa e allora il Col. Scholl ordinò ai suoi uomini che ancora erano a Napoli (nell’albergo Moncenisio, a Villa Floridiana e al campo sportivo del Littorio, oggi “Collana” del Vomero) di domarla. Un primo gruppo di nazisti si diresse contro il posto di blocco di Porta Capuana ferendo 3 giovani e costringendo gli insorti a sgombrare la strada. Da Villa Floridiana uscì un’autoblindo che scorrazzò indisturbata nella zona, né incontrò resistenza la pattuglia sortita dal campo sportivo. Questa pattuglia sparando all’impazzata raffiche di mitra, uccise 7 abitanti del quartiere e, prima di rientrare nel campo sportivo, prese 47 ostaggi. Nel pomeriggio del 28 settembre da Villa Floridiana uscirono due autoblindo in perlustrazione per la città. Inutilmente tentarono di fermarle un gruppo di combattenti all’angolo tra Via Roma e Via D’Afflitto. Tra loro vi era il diciassettenne Pasquale Formisano che affrontò con un paio di bombe a mano uno dei mezzi nemici, cadendo infine crivellato da una raffica di mitragliatrice.  In analoghe circostanze, avveniva il 29 settembre, all’angolo di Via dei Cesari, la morte del tredicenne Filippo Illuminati. Ai due giovani “scugnizzi” sono state concesse due delle Medaglie d’Oro al Valor Militare delle quattro attribuite ai patrioti delle “Quattro Giornate”. Durante la notte i nazisti portarono a compimento i preparativi per la distruzione della città. Gli insorti però riuscirono a salvare il Ponte della Pigna, il Ponte Caracciolo e il serbatoio dell’acqua, disinnescando le mine che avevano visto collocare, grazie all’intervento degli uomini del Ten. Droetto che fecero prigionieri i 6 guastatori tedeschi.

La impari lotta

Un’accanita lotta

Alle prime luci dell’alba del 29 settembre il Col. Scholl diede l’ordine di ritirata ad altri reparti tra cui quello stanziato a Villa Floridiana. In città rimasero poco più di 200 tedeschi: dieci mitraglieri alle due postazioni degli alberghi “Universo” e “Torino” in piazza Carità, una ventina di SS all’albergo “Bologna” in via De Pretis, e altrettanti all’albergo “Parco” in via Roma sede del Comando tedesco e circa 60 guastatori al campo sportivo del Vomero. Sulla collina di Capodimonte erano però arrivati una settantina di granatieri corazzati, appartenenti alla retroguardia della Divisione “Goering”. Nella prima mattinata non ci furono scontri veri e propri, ma non mancarono avvenimenti tragici ed episodi di eroismo. Mario Menichini, un milite diciassettenne della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, che prestava servizio nel viterbese, avuta notizia che la popolazione della sua città si era ribellata ai tedeschi, la sera del 27 settembre disertò dal suo Reparto per raggiungere Napoli e unirsi agli insorti. Si appostò da solo in via Roma e distrusse un mezzo corazzato con una bottiglia incendiaria, prima di essere ucciso dalla reazione tedesca. Una delle Medaglie d’Oro concesse ai patrioti delle “Quattro Giornate” è alla sua memoria con la seguente motivazione: Amor di Patria infiammò il suo cuore e rese saldo il suo braccio che non tremò.  In epico gesto degno delle tradizioni della vera gioventù italiana, affrontò e colpì con una bomba a mano un carro armato tedesco, che avanzando per le strade della martoriata città, seminava la morte fra il popolo insorto contro l’oppressore. La sua giovane esistenza, stroncata dalla mitraglia nemica, vive e palpita nell’anima di Napoli che, nelle leggendarie quattro Giornate cantò la sua più bella canzone di amore e di morte che fu novella di vita.

A piazza carità uno scugnizzo riuscì ad immobilizzare un carro armato incastrando tra i cingoli una spranga di ferro, altri combattimenti si verificarono a piazza Medaglie d’Oro e a piazza Arenella, dove i partigiani guidati da Gennaro De Paola bloccarono una camionetta carica di esplosivo e i cui occupanti riuscirono a barricarsi nel Palazzo Lamaro.  Dopo un’ora di sparatorie sopraggiunse un autocarro tedesco e i partigiani riuscirono a bloccare anche quello. Intervenne un’ora dopo un’autoblindo e un partigiano, Giovanni Attanasio, rimase impavidamente in mezzo alla strada sparando con il mitra, immolandosi senza riuscire a fermarla. Nello scontro i nazisti ebbero tre morti e due feriti mentre gli insorti due morti e tre feriti. Nel primo pomeriggio scesero dalla collina di Capodimonte tre carri armati “tigre”, che il cannone del Ten. Droetto non era riuscito a fermare. Ancora una volta i partigiani furono costretti a lasciar libere le strade. Le barricate di Santa Teresa, del Museo e di piazza Dante furono letteralmente stritolate sotto il peso dei carri, che procedendo cannoneggiando e mitragliando, fecero molte vittime tra i civili. Ancora una volta gli scugnizzi mostrarono la loro audacia arrampicandosi sopra i carri per gettare bottiglie incendiarie attraverso i portelli. Due caduti, Vincenzo Baiano e Antonio Garofalo, avevano appena dodici anni. Gennaro Capuozzo, al quale fu concessa la quarta Medagli d’Oro al Valor Militare, aveva addirittura undici anni quando fu ucciso da una granata tedesca mentre in via Santa Teresa, dal terrazzino dell’Istituto dei Filippini, fungeva da servente ad una mitragliatrice. Al Vomero, intanto, si stavano approntando i piani per liberare i 47 civili rinchiusi nel campo sportivo. Il comando dell’operazione fu assunto dal Capitano Vincenzo Stimolo – che cadde poi qualche mese più tardi da partigiano sull’appennino Tosco-Emiliano – mentre la direzione politica fu presa dall’anziano professore Antonio Tarsia e dal pittore Edoardo Pansini. Il combattimento al campo sportivo durò tre ore tra i soldati del Maggiore Sakau e i partigiani del Cap. Stimolo. Poi il Magg. Sakau uscì alzando la bandiera bianca e chiedendo di potersi recare al proprio comando per ottenere l’autorizzazione e trattare la resa. Fu necessario tutto il resto della giornata per concludere le trattative e liberare gli ostaggi. All’alba del 30 settembre, quando gli anglo-americani erano ormai alle falde del Vesuvio e nel golfo erano già entrate le prima navi da guerra, transitarono per Napoli gli ultimi plotoni nazisti che si stavano sganciando dalle avanguardie alleate. Ben nove patrioti rimasero però uccisi negli ultimi scontri in piazza Ottocalli, mentre nella masseria Pezzalonga 13 giovani e una contadina furono trucidati dai reparti in fuga.

Lapide in piazza della Borsa

La liberazione 

Il primo ottobre Napoli fu completamente libera. I tedeschi continuarono a cannoneggiarla mentre erano incalzati in periferia dai patrioti armati che avevano spianato la strada all’avanzata degli alleati. I primi automezzi alleati giunsero, infatti, scortati da uomini armati. Un’edizione straordinaria del quotidiano “Roma” rivolgeva agli americani e agli inglesi un caloroso saluto bilingue. Alle Quattro Giornate di Napoli resta ancorata la leggenda degli scugnizzi, consolidata dai corrispondenti di guerra alleati, sorpresi nel vedere circolare tanti ragazzi con le armi in pugno. In effetti i protagonisti dell’insurrezione furono tutti i napoletani senza distinzioni: militari, uomini e donne di tutte le idee e di tutte le classi sociali, nobili e popolani, borghesi e proletari, professionisti, studenti e operai. Non mancarono le figure tipiche di ogni movimento: Lenuccia (Maddalena Cerasolo) che offriva ai compagni cestini di bombe a mano; la signora Lupino che passava i caricatori a suo figlio in piazza Nazionale e le donne che portavano armi o viveri ai loro uomini; un frate che guidava un manipolo di insorti e infine gli scugnizzi arditi e beffardi. La vittoria costò il sacrificio di circa 500 patrioti, che si ricordano nella Medaglia d’Oro al Valor Militare conferita alla martoriata città di Napoli, alla quale si aggiungono le 4 Medaglie d’Oro alla memoria conferite a 4 giovanissimi protagonisti di episodi gloriosi, 6 Medaglie d’Argento e 2 Medaglie di Bronzo.

Non si può sminuire il grande contributo dato dall’Italia Meridionale e da Napoli in particolare, al secondo Risorgimento. A Napoli l’insofferenza verso gli occupanti si manifestò con una esplosione di rabbia e di furore popolare. Le Quattro Giornate di Napoli furono un moto di orgoglio e di dignità che fanno onore alla bella città situata come una perla in una posizione di grande effetto paesaggistico. Nate spontaneamente, le Quattro Giornate rappresentano un esempio di lotta corale che coinvolse tutta una cittadinanza che seppe conquistarsi la propria libertà.

*Generale di Divisione (ris)

 

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