Operation Rising Lion: Israele colpisce l’Iran e ridefinisce gli equilibri del Medio Oriente

Di Bruno Di Gioacchino

TEL AVIV. L’attacco israeliano di oggi, denominato Operation Rising Lion, ha colpito in profondità il cuore dell’apparato strategico iraniano. Più di 200 caccia, coordinati dall’intelligence del Mossad, hanno bombardato oltre 100 obiettivi, inclusi i siti nucleari di Natanz, Fordow e Arak, basi militari e residenze di alti ufficiali, causando la morte di figure chiave come Hossein Salami e Mohammad Bagheri. Si tratta di un’operazione chirurgica per precisione ma ad alto potenziale destabilizzante sul piano regionale e globale. Il messaggio lanciato da Israele è chiaro: non sarà tollerata alcuna minaccia esistenziale, soprattutto se collegata al programma nucleare iraniano, da anni fonte di tensione e ambiguità.

F-16 dell’IDF in fase di decollo

Gli Stati Uniti hanno dichiarato pubblicamente di non essere coinvolti nell’operazione, sottolineando l’indipendenza delle decisioni israeliane. Tuttavia, alcune dichiarazioni di esponenti repubblicani come Marco Rubio e membri influenti del Congresso mostrano un implicito sostegno strategico. La scelta comunicativa della Casa Bianca mira a contenere l’onda d’urto diplomatica, evitando che l’Iran trovi un pretesto per colpire direttamente interessi americani nella regione. Allo stesso tempo, emerge un dibattito interno tra chi teme un conflitto diretto e chi invece considera inevitabile un confronto aperto con Teheran.

Nel medio termine, il rischio di escalation è concreto. Hezbollah potrebbe lanciare razzi dal Libano meridionale, gli Houthi intensificare gli attacchi nel Mar Rosso, e gruppi sciiti in Iraq e Siria potrebbero colpire basi USA. L’Iran ha già annunciato la sospensione dei negoziati sul nucleare previsti per il 15 giugno, promettendo una “risposta militare all’altezza dell’aggressione”. Sul piano diplomatico, gli alleati europei spingono per la moderazione e temono che il quadro negoziale costruito con fatica dal 2015 venga definitivamente compromesso. La tensione rischia di incrinare ulteriormente l’equilibrio già fragile tra le principali potenze.

Lancio sperimentale di un missile balistico Shahab-3 di fabbricazione iraniana

Nel lungo periodo, gli effetti dell’operazione israeliana potrebbero essere ancora più dirompenti. Gli Stati Uniti saranno probabilmente chiamati a rinegoziare l’intero assetto di sicurezza mediorientale. Rafforzare la presenza militare nel Golfo diventerà una priorità strategica, così come consolidare alleanze con Israele, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Al tempo stesso, si apre la prospettiva di una nuova corsa all’armamento nucleare da parte dell’Iran, che potrebbe accelerare l’arricchimento dell’uranio in segreto, fuori dai vincoli dell’AIEA. Uno scenario già visto con l’Iraq negli anni ’80, ma che oggi si inserisce in un contesto globale molto più complesso e interconnesso.

Cina e Russia, da parte loro, coglieranno l’occasione per accusare l’Occidente di unilateralismo e indebolire ulteriormente la legittimità dell’ordine liberale internazionale. La crisi sarà utilizzata per rafforzare narrative alternative, promuovere nuove alleanze commerciali e aumentare la pressione sulle democrazie, già alle prese con la guerra in Ucraina e le tensioni su Taiwan. L’operazione Rising Lion rischia quindi di diventare non solo un capitolo dello scontro israelo-iraniano, ma anche una leva per ridefinire le dinamiche geopolitiche a scala globale.

Per gli Stati Uniti, si apre un fronte delicato: ribadire la solidità dell’alleanza con Israele, evitare di essere trascinati in un conflitto diretto, rassicurare gli alleati europei e arabi, rilanciare la propria leadership in un contesto sempre più competitivo. Se l’attacco israeliano segna la fine di un’epoca di ambiguità strategica, resta da vedere quale sarà il nuovo equilibrio. La deterrenza ha mostrato i muscoli, ma ora tocca alla diplomazia evitare che il Medio Oriente precipiti in un conflitto multi-frontale dalle conseguenze imprevedibili.

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