Questione venezuelana, Mosca e Pechino fanno parte del gioco sud americano. E stabiliranno il futuro di Maduro

Di Vincenzo Santo*

Caracas. Come si compie un colpo di Stato? Ovvero, perché e quando ha successo? Un sovvertimento dell’ordine di uno Stato inizia con l’esercito che mette i politici agli arresti e chiude tutti i mezzi di informazione. Possibilmente avviene al mattino, non nella fascia oraria con il maggior numero di ascolti per evitare mobilitazioni contrarie. Ma dipende da molti altri fattori del momento.

Soprattutto è necessario un certo consenso popolare nella misura che questo è supportato da un certo senso di inevitabilità. Cioè, alla fine, quando succede, tutti in fin dei conti si aspettavano che avesse luogo. Nessuna sorpresa.

Creare questo senso di inevitabilità è fondamentale e Guaidò in qualche modo aveva lavorato in tal senso, nella convinzione di potersi portare dietro molto dell’establishment del comparto sicurezza e difesa. Ma ha fallito nella misura in cui, chiamando a raccolta il popolo su Twitter e non, come usuale, usando l’emittente televisiva di Stato o le stazioni radio, ha generato la convinzione che in realtà egli non fosse in controllo di un bel niente e, conseguentemente, il seguirlo sarebbe stato molto rischioso.

Juan Guaidò ha fallito nel suo progetto di destituire Maduro

Quando si parla alla nazione in tali circostanze è perché della nazione si è già preso il controllo dei gangli vitali, perché si è già vinto. O quello si deve far credere, se si vuole che tutte le forze del Paese appoggino il cambiamento.

Guaidò in questo ha fallito. Grande scorno per molto del mondo libero, a partire dagli Stati Uniti che, probabilmente speravano in un facile cambio di regime e di non dover prendere in esame altre misure.

Quelle economiche, con un’industria del petrolio al collasso, sono già in atto e farebbero il loro lavoro in fretta solo se Russia e Cina lo consentissero. Ma fino a quando il personale militare e della sicurezza, con tutte le frange di irregolari al soldo di Maduro, ricevono sussidi provenienti, in un quadro economico disastroso, da industrie illegali quali l’estrazione dell’oro o il commercio di cocaina, c’è da dubitare che cambino partito.

Tutte cose ben note a cui niente di più potrà aggiungere l’ex direttore dell’intelligence venezuelana Christopher Figuera(1), “rifugiatosi” da qualche giorno negli Stati Uniti. Certo, fornirà le sue prove concernenti il coinvolgimento del governo di Caracas e del figlio di Maduro in attività illecite, così come l’arricchimento persino di Hezbollah e del colombiano ELN (National Liberation Army) che avrebbe promesso il suo sostegno al governo di Maduro in caso di minacce esterne.

L’ex direttore dell’intelligence venezuelana Christopher Figuera

Il tutto tuttavia potrà essere utile a Washington per mettere su solo un dossier criminale, come per l’allora dittatore di Panama, Manuel Noriega, ma non certamente per ripetere a cuor leggero l’allora operazione “Just Cause”, nel dicembre 1989.

L’ex dittatore di Panama, Manuel Noriega

Il Venezuela, lo anticipo, non è Panama né tantomeno Grenada.

Intanto per gli interessi russi e cinesi che vi sono radicati. La Cina e la Russia infatti sono i Paesi che negli ultimi 10/15 anni hanno prestato più soldi di tutti al regime di Caracas, con obiettivi ben precisi, ma distinti.

Per Vladimir Putin, mettere piede nel Sud America, il “cortile di casa” degli Stati Uniti, significa limitarne l’influenza politica, ma soprattutto per proteggere i Paesi socialisti e antiamericani, quali sono Venezuela, Cuba, Nicaragua e Bolivia.

E poi, ci sono i soldi naturalmente. Probabilmente circa 17 miliardi di dollari. Parte di questo debito è stato ristrutturato ma il Venezuela deve ancora alla Russia sei miliardi di dollari, metà dei quali a Rosneft. Non solo. Per maggiore cautela, pare che Putin abbia inviato in Venezuela 400 mercenari del contingente Wagner, lo stesso già impiegato in Siria e nel Donbass, con la scusa di “fare da guardia del corpo a Maduro contro eventuali tentativi di aggressione americana”.

Ma non è neanche da escludere la presenza di qualche centinaio di soldati russi.

Insomma, un appoggio più politico che economico, se si dà credito al New York Times secondo il quale, ultimamente, diversi soggetti russi, quali banche, aziende esportatrici di grano e produttrici di armi, pare abbiano sospeso o rallentato le proprie attività commerciali nel Paese.

Addirittura, Mosca si sarebbe rifiutata di aprire nuove linee di credito verso il Venezuela, di impegnarsi in nuovi investimenti e persino di fornire aiuti per ripagare l’enorme debito pubblico e permettere così a Maduro di ridurre la pressione esercitata su di lui dalle opposizioni. Facile comprendere che con tutta probabilità, l’allentamento del sostegno economico russo possa essere dovuto alla non facile situazione economica in Russia.

Tuttavia, nonostante i passi indietro, Putin non cambierà la sua politica in Venezuela. “Le nostre relazioni con il Venezuela sono di natura strategica – ha detto Vladimir Zaemsky, ambasciatore russo a Caracas – siamo preparati a dare completo appoggio al governo legale del Venezuela (quello di Maduro, nda) e al popolo venezuelano”.

Molto forte il rapporto tra Putin e Maduro

Non si può negare, infatti, che l’appoggio di Mosca al regime venezuelano, durante la grave crisi politica iniziata con l’autoproclamazione di Guaidó a presidente, è stata una delle ragioni della sopravvivenza del regime stesso.

Evitare il rovesciamento di regimi autoritari è stata la fissazione di Putin dai tempi della morte violenta di Gheddafi. È un punto fermo del Presidente russo porre la sua fiducia nella “sovranità illimitata” e nel diritto dei governanti di usare la forza per restare al potere.

Secondo lui è questa, più dei pur discutibili investimenti russi, la ragione alla base del tentativo di evitare il rovesciamento di Maduro. Fa parte della sua battaglia contro il liberismo e il liberalismo occidentali.

Per la Cina, estendere all’America Latina la strategia già sperimentata in Africa, per realizzare il suo “Belt and Road Initiative”, vale a dire concedere ingenti prestiti ai Paesi in difficoltà, significa averne in cambio materie prime e un mercato satellite, legandolo a doppio filo a Pechino per molti anni.

Inoltre, è senz’altro più consistente l’ammontare del prestito cinese rispetto a quello russo. Dal 2005 ad oggi, secondo alcuni calcoli, il governo cinese avrebbe dato al Venezuela più di 62 miliardi di dollari, poco meno della metà dei 150 miliardi erogati a sostegno degli Stati dell’intero Sud America, soprattutto per prestiti nel settore petrolifero, materia prima di cui Pechino necessita assai più di Mosca.

Pechino quindi rischierebbe di perdere miliardi di dollari se un’amministrazione guidata da Guaidò dovesse ristrutturare il debito sovrano del Paese.

Di fronte all’incapacità di Maduro di restituire il debito e alle continue richieste di rinegoziarne i termini, Pechino non si è limitato a riscuotere petrolio al posto del denaro, ma ha cominciato a impadronirsi dei pozzi petroliferi venezuelani per accordi secondo cui le compagnie cinesi possano condurre in proprio trivellazioni petrolifere sul ricco giacimento di Ayacucho.

In pratica, passo dopo passo, con l’abituale strategia dei tempi medio-lunghi, la Cina si sta accaparrando una buona parte del petrolio venezuelano.

La Cina continuerà pertanto a sostenere il regime di Maduro. La sua posizione potrebbe cambiare in futuro, forse, ma per conquistare i cuori e le menti cinesi, l’opposizione di Guaidò dovrebbe andare oltre la mera promessa di confermare contratti e precedenti impegni.

Il Venezuela, va ricordato, pur con la corruzione e le inefficienze che tuttavia affascinano i fronti populisti nostrani, è un Paese ricco, in potenza. Non solo in termini di riserve accertate di idrocarburi, ma in quelle aurifere, per un valore commerciali di circa 200 miliardi di dollari, in Coltan (il cosiddetto oro blu) e in minerale di ferro, rispettivamente per un ammontare di 100 e 180 miliardi di dollari.

Per non parlare di bauxite, fosfati, rame e torio, il potenziale carburante nucleare ecologico, destinato a essere parte della strategia cinese (e indiana) di sostituire i combustibili fossili. Quindi, davvero crediamo che la Cina abbandonerebbe Maduro senza una certa contropartita?

Potrebbe Washington scegliere un’opzione militare? Possibile ma improbabile. Abbiamo già anticipato che il Venezuela non è né Panama né Grenada. Due potrebbero essere le opzioni militari: una campagna di bombardamenti aerei oppure una vera e propria invasione terrestre.

Entrambe, tuttavia, dovrebbero essere seguite da un’operazione di stabilizzazione con un nuovo governo “democratico”. Un lavoro che richiederebbe anni, ammesso che le due opzioni abbiano successo e un successo nel breve termine.

Nel primo caso, data l’incertezza che una sola campagna aerea produrrebbe nel conseguire un voluto risultato politico, il rischio sarebbe quello di un impegno protratto nel tempo e che comunque alla fine richiederebbe un altissimo numero di uomini sul terreno (circa mezzo milione) per la stabilizzazione dato che non si è sicuri dell’affidabilità o della tenuta delle forze di sicurezza locali nel mantenere l’ordine e procedere al disarmo di gruppi irregolari o criminali. Esperienze al riguardo ne sono state fatte.

Un’armata di invasione, d’altro canto, si troverebbe a fronteggiare una forza militare e paramilitare di 160 mila e più elementi con circa 100 mila componenti dei colectivos, gruppi armati di sinistra che supportano Maduro.

Il ministro della Difesa venezuelano Vladimir Padrino Lopez

Per Panama furono necessari quasi 30 mila uomini per avere ragione dei quasi 20 mila delle forze di difesa panamensi. E, sebbene, l’invasione durò per 40 e più giorni, le forze americane vi rimasero per più di quattro anni.

Anche qui, date le esperienze in Iraq e Afghanistan, potrebbe essere richiesto uno sforzo prolungato nel tempo, anche supponendo che l’invasione abbia avuto successo, per ricostruire e stabilizzare. Ad un iniziale contingente di 150 mila uomini se ne dovrebbero trovare un altro mezzo milione per fare il resto, cosa che neanche con una coalizione sudamericana si riuscirebbe a mettere su e poi mantenere nel tempo. Possibile? Certo. Ma non probabile!

Quindi, per Trump, e per chiunque altro, non sarà facile cacciare Maduro, vista la protezione politica, militare e finanziaria che gli stanno assicurando tanto Putin quanto Xi Jinping, con quest’ultimo che non fa mistero di utilizzare l’intromissione nel cortile di casa di Washington anche quale ritorsione per l’appoggio americano a Taiwan.

Putin e Xi Jinping

E il primo che fa leva su questa occasione quale strumento di pressione per farsi riconoscere qualche alleggerimento politico per i dossier Crimea, Ucraina e financo Siria per la collaborazione stretta in essere con l’Iran e l’appoggio a un regime odiato. E forse, oggi, persino la grande America si trova a fronteggiare fin troppi dossier sul tavolo per potersi permettere di giocare alla guerra, anche fosse una apparentemente comoda alle porte di casa.

Mettiamocelo in testa, crisi umanitario o no, Mosca e Pechino sono parte del gioco venezuelano e saranno loro, e non Washington, a dettare il destino di Maduro, e di Guaidò.

Figuera ha supportato il tentativo di colpo di stato dello scorso 30 aprile, venendo rimosso dal suo incarico alcuni giorni dopo.

*Generale di Corpo d’Armata Esercito (Ris)

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