Trattato di non proliferazione nucleare: un progetto del 1970 corroso ora da rivalità strategiche, dinamiche di potenza emergenti e una profonda sfiducia nel rispettarne i principi

Di Cristina Di Silvio*

WASHINGTON D.C. Nel 1970 il Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP) veniva firmato con l’obiettivo di evitare una corsa globale all’atomica.

La firma del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari (TNP)

A oltre mezzo secolo di distanza, quella grande architettura multilaterale appare corrosa da rivalità strategiche, dinamiche di potenza emergenti e una profonda sfiducia nella volontà delle potenze nucleari di rispettarne i principi.

Il TNP si fonda su tre pilastri: non proliferazione, disarmo, e uso pacifico dell’energia nucleare.

In cambio della rinuncia all’arma atomica, gli Stati non nucleari ottenevano accesso alla tecnologia civile e l’impegno – almeno formale – delle cinque potenze nucleari del 1967 (USA, URSS, Cina, Regno Unito, Francia) a procedere verso il disarmo. Un equilibrio fragile, oggi sempre più retorico.

Mentre Stati Uniti, Russia e Cina ammodernano i loro arsenali strategici e tattici, smantellando al contempo trattati storici come INF e Open Skies, Pechino accelera sulla costruzione di nuovi silos per missili intercontinentali e testate ipersoniche.

Le parole “disarmo” e “buona fede” sono ormai percepite come vuote formule diplomatiche.

Il caso iraniano è emblematico.

Teheran, pur restando formalmente nel TNP, ha portato avanti per anni un programma nucleare ambiguo.

I firmatari del JCPOA nel 2015

 

L’accordo JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action) del 2015 aveva temporaneamente bloccato l’arricchimento dell’uranio, ma il ritiro unilaterale degli USA nel 2018 ha fatto precipitare la situazione (iran_joint-comprehensive-plan-of-action_en)

Oggi l’Iran è considerato una “quasi potenza nucleare”, tecnicamente pronta a dotarsi di un’arma se lo volesse.

L’AIEA (Agenzia internazionale per l’energia atomica) pur tecnicamente autorevole, vede drasticamente ridotti i suoi margini operativi, schiacciata tra esigenze di trasparenza e realtà geopolitiche ostili.

Kim Jong-Un attorniato dai suoi Generali

Più radicale il caso nordcoreano: Pyongyang si è ritirata dal TNP nel 2003, ha condotto sei test nucleari e sviluppato vettori capaci di colpire il territorio statunitense.

La Corea del Nord è oggi una potenza nucleare fuori da ogni regime di controllo.

Un precedente pericoloso per altri Stati che potrebbero, in futuro, abbandonare il trattato come via praticabile alla sicurezza nazionale.

A questa lista si aggiungono India, Pakistan e Israele, mai firmatari del TNP ma dotati di arsenali nucleari. La loro esclusione strutturale rafforza la percezione del TNP come uno strumento conservativo, utile a cristallizzare lo status quo più che a promuovere il disarmo globale.

Da qui il crescente malcontento del Sud globale, in particolare all’interno del Movimento dei Non Allineati.

Molti Paesi, pur rispettando il Trattato, vedono un sistema profondamente asimmetrico: le potenze nucleari conservano i propri armamenti, mentre agli altri si chiede rinuncia e disciplina.

Nel 2017, proprio da questa frattura nasce il Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari (TPAN), entrato in vigore nel 2021.

Firmato da oltre 90 Stati, vieta in assoluto produzione, possesso e uso di armi nucleari.

Nessuna potenza nucleare, però, ha aderito.

Il TPAN rappresenta più una presa di posizione politica che un regime giuridico efficace, ma è una crepa simbolica nel consenso sul TNP.

La prossima Conferenza di revisione del Trattato, prevista per il 2026, si preannuncia in salita.

Il ritorno della guerra in Europa, il confronto sistemico tra USA e Cina e l’uso crescente del linguaggio nucleare nel dibattito pubblico complicano ogni ipotesi di rilancio negoziale. Intanto, un altro elemento mina la stabilità: la crescente centralità della deterrenza nucleare tattica.

Queste armi, a bassa potenza e raggio più corto, sono concepite per scenari regionali e conflitti limitati. Ma la loro proliferazione – come dimostrano gli arsenali di USA, Russia e Cina – sfuma la distinzione tra nucleare “impiegabile” e “strategico”, alzando il rischio di escalation incontrollata.

In assenza di trattati dedicati, il controllo di queste capacità resta un punto cieco nella governance globale.

Il TNP, per decenni, ha impedito che il numero di potenze nucleari aumentasse in modo esplosivo.

Ma oggi il suo impianto mostra crepe strutturali. La modernizzazione degli arsenali, l’emergere di nuove minacce e il ritorno alla logica della potenza atomica rischiano di svuotare di senso l’intero trattato. Senza un rinnovato impegno multilaterale, il rischio è l’avvio silenzioso di una nuova era di proliferazione.

In un mondo più instabile e meno governabile, la minaccia nucleare torna a essere una variabile concreta della strategia.

La scelta è chiara: rilanciare il disarmo o convivere con una nuova corsa atomica.

*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)

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