Conflitto russo-ucraino: un’analisi lontano dal tifo per i due schieramenti

Di Vincenzo Santo*

Mosca (nostro servizio particolare). Vediamo se riesco a spiegare la mia posizione su questa dannata guerra.

Soldati ucraini in Donbass

Cercherò di semplificarne i contenuti, ma non potrò essere breve.

Tanta carne al fuoco. Ci provo.

Questa guerra andrebbe analizzata lontano dal tifo.

Ci sono aspetti che riguardano l’ambito del diritto internazionale, sociale, della comunicazione, della politica estera e dell’intelligence ma anche di ordine tattico e operativo per i quali indugerò sui numeri.

Infine, sulla strategia in atto da parte di Washington, aspetto fondamentale che dovrebbe obbligare la politica nostrana a porsi delle domande e, forse, a comprendere che è giunta l’ora di usare il pensiero e di porre fine a un indirizzo che a me pare servile.

La Casa Bianca a Washington

LA GUERRA E’  DIVERSA DALL’AMORE

Un inizio “leggero”. La guerra è diversa dall’amore.

Per questo occorre essere in due, almeno. Per la guerra no, ne basta uno.

Se qualcuno ci vuole fare guerra è guerra. Quindi è profondamente irrazionale quanto ebbe a dire l’allora Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, a proposito dell’ISIS: “… non credo che la parola guerra sia la parola giusta … sono loro che vogliono parlare di guerra …”.

Miliziani dell’ISIS

Tra l’altro sconfessando la guerra al terrorismo, quella di Bush “giovane”, che si meritò persino un nobile acronimo, GWOT (Global War On Terrorism) da parte degli Stati Uniti. Paese che, sempre per bocca dello stesso Renzi, sarebbe il nostro modello.

Una sola cosa avvicina la guerra all’amore, occorre avvicinarsi. E qui entra in gioco la natura umana: la sua violenza.

La guerra, infatti, è una brutta bestia e come tale l’aveva raffigurata Leonardo nei volti dei cavalieri che si battono per la conquista di uno stendardo, in quel pezzo di racconto pittorico che fece della Battaglia di Anghiari.

La battaglia di Anghiari di Rubens

Andato perso ma fortunatamente ripreso da Pietro Paolo Rubens.

Parlare di “orrori” in una guerra è persino pleonastico: la guerra è orrore in sé.

E l’Europa ne ha visti di orrori, da secoli. Il secondo conflitto mondiale ha lasciato dei segni indelebili e speriamo tutti indimenticabili. Perché non si ripetano.

Da quella tragedia si è voluto far ripartire la storia del Continente europeo.

Del resto, profetiche erano state le parole di Friedrich Wilhelm Nietzsche: ”L’Europa si farà sul bordo di una tomba”.

Il filosofo tedesco Friedrich Wilhelm Nietzsche

E noi, Italiani, ne abbiamo tracciato la memoria di quegli orrori nella nostra Costituzione. Che molti, fin troppi purtroppo, non sanno leggere.

Ce lo fa comprendere l’articolo 11. Ma ci lascia pure intendere che esiste l’inevitabile eventualità di doversi difendere.

Se l’Italia, infatti, ripudiasse la guerra tout court, non avrebbero senso i testi dei successivi articoli 78 e 87.

Nel loro combinato disposto, essi infatti ci rendono noto che le Camere, nel conferire al governo i poteri necessari, deliberano lo stato di guerra, che viene quindi dichiarato dal Presidente della Repubblica.

Pertanto, il concetto di guerra c’è.

OLTRE IL CONCETTO DI GUERRA

Chiarito questo, andiamo oltre. Per farlo, però, occorre uscire dalla logica del bene e del male, come ho cercato di spiegare in un mio precedente scritto.

Nella contesa non c’è verità, eppure si assiste al solito scontro tra tifoserie.

Soprattutto, occorre rendersi conto, lo ripeto, della profonda e fondamentale differenza tra giustificazione e motivazione.

Sembra che in Italia non si riesca a venir fuori da questa confusione che la semplice consultazione di un dizionario aiuterebbe a dirimere.

Se ci illudiamo di capire qualcosa, o persino tutto, solo sulla base di quello che viene detto e mostrato, rischiamo di cadere nella trappola dell’informazione strumentale.

Le parole, anche scritte, e le immagini sono strumenti di guerra e, quindi, è molto probabile che in queste situazioni conflittuali siano formulate le prime e architettate le seconde per fomentare il tifo e dividere.

In poche parole, per trarre consensi a buon mercato. La disinformazione fa parte del gioco.

E magari eccitare emotivamente le menti per assecondare decisioni che, per quanto riguarda l’Italia, non sempre mi risultano genuine.

Diceva qualcuno, forse John Locke, è il pensare che rende ciò che leggiamo “nostro”.

Se non lo facciamo, cadiamo nella trappola di una pur corretta inferenza deduttiva ma che, come tale, non accresce ciò che già si sa.

E peggio sarebbe se immischiassimo Dio in queste faccende sanguinose, tentando di inserirvi una qualche traccia di etica.

Parafrasando Prezzolini: “Dio è un rischio”.

La maggior parte di noi vuole, persino in guerra, agire o dare l’impressione di agire moralmente e il motivo per cui lo vogliamo è, semplicemente, che sappiamo cosa significa moralità e sappiamo come sfruttarne l’emozionabilità.

Ed è, paradossalmente, un bel problema. Siamo prede della “virtualità” che confonde le analisi del pensiero a causa del dannoso frammischiamento tra mitologia e psicologia, nell’assoluto dominio della “dromocratica comunicazione”, basata sulla velocità che ammazza il tempo, quello per lo sviluppo del pensiero, fatta artatamente da una politica al collasso che non ha più molto da dire.

La guerra è un inferno. Sia chiaro, senza mezze parole.

Il ministro della Difesa ucraino, Oleksiy Reznikov

Ma una guerra può essere giusta? Secoli del pensiero umano si sono arrovellati per dare una risposta a questo quesito.

Lasciando da parte le tante soluzioni sull’utilità della guerra, un qualcosa che trova il suo inizio filosofico persino con Eraclito, e sulla giustificabilità di una guerra ove “legittimata” da un’autorità superiore o condotta per una giusta causa, il che fornirebbe varie interpretazioni, come nel pensiero di Sant’Agostino e di San Tommaso, che pure aveva provveduto a una prima sistemazione concettuale, arriviamo a Ugo Grozio.

Con lui finalmente, si abbandona il campo etico per entrare più correttamente in quello giuridico.

Per farla breve, chi affronta una guerra per difendersi da un’aggressione è nel giusto.

L’unica giustificazione possibile di una guerra è quindi la legittima difesa. Un diritto naturale.

Basta però che non si declini questo in modo strumentale, differenziando la giustificabilità se l’invasione o l’aggressione avvenga nei confronti di un Paese guidato da un dittatore, come accaduto con Saddam Hussein nel 2003 o più tardi con Gheddafi. Fine!

Saddam Hussein

L’UCRAINA SI DIFENDE

L’Ucraina fa esattamente questo, si difende. Quindi la “sua” guerra è giusta!

Ovviamente ci sarà chi la penserà al contrario. Ognuno ha il proprio codice in proposito. Ma fermarsi su questo punto rischia di far smarrire lo sguardo da dove invece deve concentrarsi.

Soldati ucraini

E le armi? Il solito pantano politico. Io non vedo quale sia il problema.

Intanto non è vietato dal diritto internazionale. Esiste l’Arms Trade Treaty (ATT), adottato dall’Assemblea Generale dell’ONU il 2 aprile 2013 e in vigore dal dicembre 2014, che regola la faccenda.

Il Trattato persegue due obiettivi principali: regolamentare o migliorare la regolamentazione del commercio di armi convenzionali e prevenire (eliminare?) il traffico illecito delle stesse.

Detto questo, un aspetto che ogni governo intenzionato a fornire  armi all’Ucraina deve mettere in conto è la non certezza che esse  non vadano in mani non affidabili.

In poche parole, non dobbiamo trascurare la possibilità che a beneficiarne possano essere strutture non governative o milizie estremiste.

I “cattivi” non hanno bandiera. In secondo luogo, dovrebbe venire naturale convincersi che la controparte sia portata a considerare questo atto di generosità in termini ostili e, quindi, mettere in atto azioni di sabotaggio. Potrebbe, ma ove accadesse, non ci si stupisca.

Il pericolo che qualcuno paventa, ed è comprensibile, sarebbe che donando questi armamenti si alzerebbe il livello dello scontro con un’escalation incontrollabile.

Ma l’escalation è in atto da anni, perché è una guerra che cova sotto le ceneri da almeno 20 anni. Questa è la realtà.

Da quel marzo 1999, quando l’allora primo ministro della Federazione russa, Evgenij Maksimovič Primakov, diretto a Washington, invertì la rotta dopo essere stato informato da Al Gore, vice Presidente americano, che stava per aver inizio una campagna aerea “della NATO” in Serbia e Kosovo.

L’ex capo del Governo russo, Evgenij Maksimovič Primakov

La responsabilità di proteggere, adagio onusiano tradotto nel R2P (Responsability to Protect – R2P), fu preminente rispetto all’assenza di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Una cosa che lascerà subito il segno nel pensiero russo.

Il tornare indietro fu infatti un gesto simbolico, ma determinante per capire come questo personaggio, professore universitario, si fosse reso conto che era giunto il momento di cambiare proprio la rotta anche in senso politico, rifiutando l’affermarsi di un mondo pilotato da una sola potenza e riavvicinandosi alla Cina.

Una dottrina estera, che porta il nome di Primakov, ereditata subito da Putin e portata avanti a partire da quello stesso agosto, quando divenne capo del Governo e, a fine anno, di fatto Presidente, succedendo a un debilitato Eltsin.

La Russia era, a quell’epoca,  allo sbando, debole, economicamente e militarmente. Un gigante dai piedi di argilla con un crollo finanziario nel corso del precedente anno e un debito estero pauroso.

Questo deve essere ricordato a quanti osservano, anche con correttezza, che tutto quello che era successo prima e dopo, dal Memorandum di Budapest del 1994, dall’allargamento della NATO negli ex Paesi del Patto di Varsavia ed ex sovietici, dalla Partnership for Peace della NATO stessa, al Russia-NATO Council del 2002 e all’incontro di Pratica di Mare, sempre del 2002, abbia visto l’accondiscendenza di Mosca.

Corretto, niente da dire. Ma con una differenza sostanziale: a quei tempi, ripeto, Mosca non era in grado di opporvisi.

Ragioni ovvie di opportunità e convenienza, come tutti le hanno, avevano guidato e obbligato la Russia ad accettare un ruolo di “gradita, comoda e inevitabile comparsa”.

E non è cosa da poco nel complesso sistema delle relazioni internazionali. Non deve stupire.

Anche se, è pur vero che, come pare fosse nei pensieri di Napoleone, secondo Honoré de Balzac, “Il miglior modo di mantenere la propria parola è di non darla”.

MA CHI E’ PUTIN?

Quindi, Putin è un “pazzo”? Può esserlo. Come si fa a escluderlo. Ma di certo chi lo afferma avrà le sue ragioni per poterlo dire.

Il Presidente russo, Vladimir Putin

Immagino che ci saranno stati nel tempo fiumi di rapporti, di intelligence e no.

Mi viene difficile pensare che ci si sia svegliati adesso per scoprirlo.

E, quindi, sempre che sia vero e non una boutade disinformativa dell’ultima ora, è un qualcosa che deve essere nota da un bel po’.

O no?

Pertanto, se così è, cosa aspetta il nostro Parlamento, le Commissioni Esteri e persino il COPASIR a occuparsi della faccenda? Che cosa ci avrebbero detto, nel tempo, i vari rapporti “diplomatici” e “informativi” su questa “pazzia” e che cosa le varie valutazioni conseguenti sui presunti incoraggiamenti “geofilosofici” di un certo Alexander Dugin, novello Rasputin?

Che cosa ne hanno tratto della visione sulla “quarta teoria politica” e sulla “sacralità dell’impero di terra”, quale unica forma di contenimento, lotta e difesa contro un sistema internazionale tipicamente occidentalizzato che, per tale ragione, non riconosce e mortificherebbe altre realtà storiche e geografiche?

Che cosa ci è stato detto e scritto sulla modernizzazione degli assetti militari russi volti a fare da baluardo contro la nostra modernità occidentale? E, infine, sul come questo baluardo si sia pensato di utilizzarlo?

Insomma, non riterrebbero questi nostri parlamentari cosa utile convocare e ascoltare qualcuno di questi personaggi?

Oppure il COPASIR stesso chiudersi in conclave ed esaminare rigo per rigo tutti questi rapporti pervenuti in questi vent’anni da Mosca?

Almeno per smentire la facile accusa che questi nostri concittadini incaricati di seguire la politica estera e l’intelligence abbiano svolto il proprio incarico solo con la tartina in bocca, come ha alluso settimane fa Lavrov.

Un’occasione preziosa per cambiare registro e vedere di cambiare radicalmente il modo con cui tutti questi personaggi vengono “reclutati”.

Insomma, per fare qualche esempio, se Putin davvero fosse risultato “non affidabile” da tempo, come mai non si è fatto nulla in termini di indipendenza energetica dal gas e dal petrolio russi?

E come mai il nostro comparto Difesa, soprattutto nella componente terrestre, lo si è di fatto abbandonato, violentandone da anni la necessità inderogabile del “mantenimento”, logistico e addestrativo?

Di contro, va da sé che se invece abbiamo solo adesso scoperto la “pazzia” di Putin e le sue vere intenzioni “operative”, allora, ancora una volta, un bel po’ di gente oggi in servizio dovrebbe essere rimandata a casa.

Altro che lottare per diventare Presidente della Repubblica.

Ora, è difficile conoscere ciò che succede sul terreno.

Alle orecchie e agli occhi degli italiani arriva di tutto. Abbiamo digerito qualsiasi ipotesi di avventura strategica da parte dei russi.

Dagli sforzi principali a quelli sussidiari o concorrenti, al perché di qua e perché di là, sino a produrre scenari del futuro alla ricerca di blandire un comprensibile moto di terrore nel popolo con un po’ di speranza che il tutto finirà presto.

E tutti si aspettavano una novella “guerra lampo” e non avverandosi questo vaticinio ci si è soffermati sulle inevitabili difficoltà logistiche, l’incalzante penuria di munizionamento e le crescenti difficoltà nel comando e controllo.

Tanto gravi queste da obbligare i Generali a stare in prima linea, cosa che ne causa l’ammazzamento di non pochi. Sciocchezze.

Altri strateghi sono arrivati persino a derubricare come sforzo secondario o concorrente il ruolo di Kiev che invece costituisce un fondamentale obiettivo politico-strategico.

Linea di sbarramento posizionata alla periferia di Kiev

E lo dicono soltanto perché non è stata ancora conquistata? Ma è davvero questo che hanno in mente i russi, oppure gli basta rendere la vita difficile?

Abbiamo scordato che esiste anche una guerra di logoramento?

Forse, quindi, logoramento da Kiev, un vero e proprio assedio, a Karkhov, soprattutto intorno alle principali città, inclusa Sumy. Un controllo a “pelle di leopardo”, si direbbe.

IL FRONTE

Infatti, mille chilometri di fronte, per una penetrazione media sui 70 chilometri richiederebbero sulle 3 mila unità del livello compagnia quindi quasi 500 mila combattenti per il controllo armato e reattivo delle “zone estese”. Cosa impossibile.

I numeri hanno la testa dura. E ci ha sempre parlato, l’infallibile intelligence occidentale, di 200 mila russi, tutto incluso. Io faccio i calcoli su quei dati.

Quindi, per il resto, interdizione aerea del campo di battaglia oltre il Dniepr e conquista delle coste sull’Azov e del Mar Nero con la completa acquisizione del Donbass? Ci può stare?

Mappa dell’area interessata

Non lo so, ma azzardo su quello che io farei. Un fuoco lento e una foglia di carciofo alla volta. E di tanto in tanto sedersi a un tavolo delle trattative, dove capita e fanno del buon caffè.

E infatti, facendoci sempre due calcoli terra terra, come si poteva pensare a un’operazione veloce e in profondità e per andare dove?

Per occupare tutto il Paese? Ripeto, considerando un fronte di quasi mille chilometri con un dispositivo di “soli” 200 mila uomini o giù di lì, di cui i combattenti reali, a essere generosi, forse sono i due terzi, mi pare impresa improbabile.

Anche contro un avversario mediamente organizzato a difesa.

Almeno credo “mediamente”, perché finora non ho sentito nessuno parlare di campi minati che, come noto, prevederebbero anche la posa di mine antiuomo.

Guai a nominarle queste, volete che i buoni ucraini si abbassino a utilizzarle in barba alla Convenzione di Ottawa che loro hanno firmato e ratificato? Beh sarei veramente curioso di conoscere questo aspetto sul terreno.

E qualcuno ha persino ipotizzato la completa occupazione dell’Ucraina. ripeto, improbabile con le forze di cui ho scritto sopra.

E poi? Nella fase successiva alle “major operations”? Pur considerando la collaborazione dell’apparato di sicurezza ucraino in un più addolcito e affidabile nuovo governo, il solo controllo del territorio potrebbe richiedere l’impiego di una massa di uomini tra i 700 e i 900 mila. Russi, ovviamente!

I bielorussi con la loro massa di soli 50 mila uomini “attivi” nelle proprie Forze Armate non farebbero la differenza.

Le Forza Armate “attive” russe sono sul milione e di questi solo il 30% “terrestri”.

E l’attacco a un Paese NATO? Lo giudico sempre possibile ma anche questo altamente improbabile.

Un deputato russo lo ha detto che Mosca dovrebbe invadere anche la Polonia. I grillini sono ovunque, evidentemente.

I numeri, lo ripeto ancora, hanno la testa dura. Certo, Mosca può contare su una riserva di quasi 2 milioni di uomini. E gli armamenti? Gli equipaggiamenti? La storia è implacabile.

Nella Prima guerra mondiale mandavano le truppe richiamate contro i tedeschi senza fucili, tanto li potevano prendere dai morti.

Quanti carri armati e altro hanno nei depositi per vestire ed equipaggiare altre truppe e formare altre unità, ovviamente dovendo poi fronteggiare tutta la potenza che americani e alleati riuscirebbero a esprimere?

Un soldato russo

Tutto è sempre possibile, magari ci sarebbe la volontà, ma credo che le risorse disponibili renderebbero il tutto molto improbabile.

Comunque, e finalmente, in queste ore è venuto in soccorso a tutti questi signori esperti, che avranno visto solo al cinema o magari comunque da lontano, perché la polvere è fastidiosa, come opera un Battaglione di Fanteria meccanizzata o carri sul terreno, un certo Sergei Rudskoy, un alto Generale della Difesa (russahttps://eng.mil.ru/en/special_operation/news/more.htm?id=12414735@egNews).

Ad oggi, almeno a me, sconosciuto. Tanto per cambiare, qualche giornale ne ha interpretato le parole come se la Russia si fosse decisa, date le evidenti difficoltà, operative, tattiche e logistiche, a cambiare strategia. Niente di tutto questo. Lui non lo dice.

Ma la solita faziosità di quasi tutta la nostra stampa, volta a tenere ferma una narrativa vincente, è troppo forte. Ovviamente, non mi aspetto che tutto ciò che ci dice questo Generale corrisponda al vero. Ci mancherebbe. Non sono nato ieri.

LE INFORMAZIONI

Le informazioni disponibili erano e sono poche e quelle poche quanto attendibili? Nella contesa non c’è verità, lo ripeto.

Sta a noi usare la testa, pensare ci aiuta a sfuggire alle trappole. È del resto logico, non ci vuole un genio per capire che per Mosca il controllo dell’Azov e di buona parte del Mar Nero è fondamentale e Odessa in questo ha ruolo fondamentale per impedire in futuro che vi stazionino Marine sgradite.

Basterebbe guardare la carta geografica, invece di giocarci con i disegnini, e sarebbe facile comprendere perché i russi siano intervenuti tempestivamente in Kazakistan.

Certo, per scongiurare qualsiasi altra Majdan Nezaležnost del 2014.

Una grande democrazia al confine non piace. Ma non basta.

La perdita del controllo sul Kazakistan, e l’eventuale conquista del Donbass da parte ucraina – quindi occidentale, non prendiamoci in giro – in quanto Kiev pare avesse preparato un attacco massiccio sulle due Repubbliche separatiste del Donbass, avrebbe creato una tenaglia sul Caucaso, laddove il Don e il Volga si toccano di gomito, con un gap di 450 chilometri soltanto, sollevando il rischio per Mosca di perdere il libero accesso al Caspio, all’Azov e al Mar Nero, tagliando fuori Volgograd e Rostov. La configurazione di una minaccia intollerabile.

E chi glielo leva dalla testa a Putin e ai suoi questo senso di sentirsi minacciato?

A quale titolo noi occidentali ci arroghiamo il diritto di categorizzare queste paure come futili, pretestuose o altro? Certo, possiamo farlo, ma rimangono parole vuote, di propaganda.

Di sostanza non facciamo nulla, come invece ha più volte messo in evidenza il Generale Mini.

Di contro, sempre per propaganda, siamo pronti a dare credito ai timori dei baltici nei confronti di Mosca.

Ora, mettendo assieme Hobbes e Tucidide, il combinato disposto di paura, senso di insicurezza, orgoglio e interessi costituiscono una miscela esplosiva e possono rendere una guerra “inevitabile”.

Il segreto sta nel “riconoscere” le linee rosse della controparte se si vuole impedire, questo è il compito delle democrazie liberali, che tale controparte divenga prima avversario e poi nemico.

La nostra “superiore politica”, all’insegna della frenesia della democratizzazione, ha fatto sì che la Russia, divenisse direttamente un nemico. Lo sapevamo.

Lo stesso Biden lo aveva paventato nel 1997, senatore del Delaware, venticinque anni fa.

Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden

Si riferiva all’allargamento della NATO ai baltici. Cosa che, disse, avrebbe potuto scatenare la reazione di Mosca.

La reazione non avvenne perché allora la Russia, come ho scritto in qualche passaggio precedente, era allo stremo.

Ciononostante, si è insistito. E le esperienze di Georgia e del 2014 non sono servite, ci hanno persino indispettiti forse, e abbiamo gestito il tutto con noncuranza, volendoci risolvere il problema con lo stesso paradigma con cui l’avevamo creato.

Persino operando una banale e stupida dissuasione spacciandola per deterrenza: un Battlegroup di qua, un altro di là, un’esercitazione a Nord, un’altra a Sud e qualche aereo in più per assicurare l’Air policing a Paesi pur ammessi nel Trattato Atlantico ma da sempre incapaci di farsela in proprio, in barba ai contenuti dell’articolo 3 del trattato stesso.

Se avessimo letto meglio tutti questi lunghi anni e compreso meglio che cosa stesse cambiando dal 2008 in poi, probabilmente qualche omino e carro armato in più in Polonia, Slovacchia, Romania, Ungheria e nei baltici avremmo dovuto schierarli. E sarebbe stata deterrenza. Almeno quello.

E in questo, carissimi amici atlantisti abbiamo fallito! E stavolta senza giustificazioni.

SCELTE FALLITE?

Ma davvero abbiamo fallito? Sul serio abbiamo letto male gli avvenimenti e ci siamo distratti? Siamo stati così stolti a non voler fare deterrenza per il timore di innescare un’incontrollabile escalation?

Non è così. Io ritengo che esista una strategia da parte di Washington. Mosca ha reagito, come detto, nel modo che Biden aveva previsto.

Il nostro mondo, così interlacciato e interconnesso, brodo di coltura degli eccessi, all’insegna dell’ideologia del progresso e della febbre del politicamente corretto, è il luogo dell’indeterminatezza, una realtà generata, come osservava Gregory Bateson, dai processi monotòni i cui incrementi in un’area postulano il decremento in un’altra.

Un po’ come gli spazi vuoti di John Mearsheimer. Ma alla fin fine è la ricerca del potere tramite il caos, cioè l’instabilità.

Tutti credono che questo gioco sia tra USA e Russia. Non è così. Né tantomeno la NATO ne riveste un ruolo di “pensiero”. È il solito ovvio e facile strumento nelle mani di Washington.

La verità è altrove. Gli Stati Uniti hanno in mente la Cina e sono terrorizzati al solo pensiero che Pechino possa fare man bassa delle ricchezze russe, in quella vastissima parte asiatica che si affaccia sì sul Pacifico ma soprattutto sull’Artico.

E in quel mare ci sono altre ricchezze e “contese”. Un lapsus quello ultimo di Biden sul fatto che Putin non debba rimanere al potere?

No, è il vero pensiero.

GLI USA VOGLIONO PUTIN FUORI DAL POTERE

Washington punta seriamente all’estromissione di Putin. Biden pensa troppo spesso a voce alta.

Auspicabilmente per via economica grazie alle pesanti sanzioni.

Serve una Russia “asservita” perché non sia il puntello di Pechino.

Un incontro tra Vladimir Putin e Xi Jinping

Ma se non ci riuscirà con le sanzioni spingerà anche gli europei a usare la forza in Ucraina e non solo.

In attesa, da parte americana, di vedersela con la Cina da quella parte del mondo.

Magari riuscendo nell’intento di strapparle l’indipendenza tanto dello Xinjiang quanto del Tibet, indebolendola, e impedendole soprattutto di dominare quei mari. Il cui controllo in termini di risorse e rotte per Pechino è divenuto esistenziale.

Russia e Cina non sono due staterelli insignificanti, ne consegue che è impensabile ormai poter condurre per Washington due guerre in due scacchieri differenti nello stesso tempo.

I tempi e la distribuzione di potenza sono cambiati. Occorre quindi lavorare per passi successivi.

E lo stanno facendo benissimo. Loro sanno che cosa sia un’analisi geopolitica e come formulare e fissare una strategia con ends, ways e means.

Noi europei vagoliamo nel buio, dandoci persino il “cinque” e compiacendoci per una “strategic compass” di cui ancora sfugge, almeno a me, l’attuazione pratica.

Sull’’Italia? Velo pietoso.

Il “mare” è alla base della modernità, dello sviluppo, della ricchezza e, quindi, del dominio.

Gli Stati Uniti hanno costruito la propria potenza sul mare e sugli Oceani.

Ma la terra è “tradizione”, è il luogo dove avvengono i fatti naturali dell’uomo, la proiezione tangibile dei suoi vari confini, la sua politica. L’unione dei due elementi, in un’approssimativa sintesi delle teorie geopolitiche continentali, genera il terrore a Washington.

Basta guardare il mondo e proiettarvi i tracciati della nuova Via della Seta cinese, per mare e per terra, per rendersi conto delle varie instabilità che accompagnano quelle traiettorie. Tutte create ad arte.

E, prima o poi.

Oggi la guerra non può essere dichiarata come bastava in passato, quando la si riteneva inevitabile, per il volere del regnante.

Una sorta di calamità da subire prima o poi. Oggi occorre persuadere l’opinione pubblica che è necessaria, utile e ovviamente efficace per raggiungere un obiettivo. E giusta. Ne ho parlato.

Ed è quello che sta accadendo. Ripeto, temo che si sia su questa strada, me ne accorgo dalle dichiarazioni e dai pur piccoli messaggi che arrivano, peraltro una strada già percorsa in altre più recenti circostanze.

Troppi commentatori, anche nostri militari in quiescenza dovrebbero dimostrare maggiore cautela. Vendono troppo in fretta, per adeguata, la preparazione del nostro strumento militare per uno scontro ad alta intensità. Forse devono compiacere qualcuno. Io no.

Una cosa è controllare un territorio, impegnarsi in una stabilizzazione, pur dovendo stanare o difendersi da terroristi assatanati, gli insurgents, altra cosa è mettersi in trincea e cimentarsi in uno scontro convenzionale ad alta intensità.

Chi ha vissuto l’era della contrapposizione e si è preparato per tutta una vita professionale per quello, comprenderà più facilmente delle più giovani generazioni quello che intendo e che cosa comportasse.

Oggi, e la tanto criticata recente direttiva dello Stato Maggiore dell’Esercito ne è testimonianza, si deve ricorrere ai ripari.

Ma non si ricostruisce un’intera coscienza di quel genere in poco tempo, dopo anni e anni di abbandono e di indifferenza.

I politici e i signori del governo ne prendano nota. Ma seriamente.

Provare per credere?

*Generale di Corpo d’Armata Esercito (ris)

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